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22 Dicembre 2025
Podcast / Io non mi rassegno

Cosa ci dice lo sgombero del centro sociale Askatasuna a Torino – 22/12/2025

Sgombero di Askatasuna a Torino tra indagini e ipotesi di pressione governativa; ritrattazione su Nature di uno studio sui costi del clima; pacchetto Ue per modernizzare le reti elettriche.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
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Questo episodio é disponibile anche su Youtube

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Trascrizione episodio

Nei giorni scorsi avrete forse sentito parlare dello sgombero del centro sociale Askatasuna a Torino. Un evento che sta facendo molto discutere, perché si tratta di un luogo storico, e molti stanno attribuendo a questa decisione, che discende direttamente dal governo, una lettura molto politica, e preoccupata. Provo a raccontarvi cosa è successo e poi a darvi alcune interpretazioni.

Tutto accade giovedì 18 dicembre, alle prime luci del mattino, quando la polizia fa inizialmente irruzione e poi sgombera lo storico centro sociale Askatasuna, uno dei più conosciuti in Italia, attivo dal 1996. Askatasuna in basco significa “libertà”, e il luogo diventato negli anni simbolo delle lotte sociali e anticapitaliste torinesi.

Il blitz è avvenuto in un contesto ancora poco chiaro, formalmente come parte di una serie di perquisizioni legate a indagini su episodi di vandalismo: in particolare l’assalto alla redazione del quotidiano La Stampa e alcuni atti di vandalismo e danneggiamenti avvenuti durante le contestazioni all’Italian Tech Week di Torino. Quindi in teoria la polizia era entrata non per sgomberare ma per cercare queste 36 persone indagate e denunciate per questi atti. 

Durante queste perquisizioni, la polizia ha trovato sei persone che dormivano al terzo piano dello stabile, in violazione degli accordi presi a gennaio 2024 con il Comune di Torino, che prevedevano invece l’utilizzo esclusivo del piano terra, mentre gli altri piani erano in agibili e avrebbero dovuto essere messi in sicurezza.

A quel punto, contestualmente, il Sindaco Lo Russo, Pd, avrebbe dichiarato il patto col comune e la polizia avrebbe deciso di procedere con lo sgombero. 

Ma ci sono diverse cose che non tornano. Ad esempio il fatto che fossero stati inviati già nella notte precedente, 300 agenti da altre regioni, cosa che fa pensare che lo sgombero fosse pianificato da tempo e non una semplice reazione a una violazione improvvisa.

Nel corso della giornata, poi, si sono susseguiti momenti di tensione. Un presidio spontaneo ha tentato di bloccare le operazioni sedendosi in mezzo alla strada. La polizia ha risposto con idranti e lacrimogeni. Gli attivisti sono stati autorizzati a recuperare oggetti e animali domestici – due gatti nello specifico, dopodiché l’edificio è stato definitivamente sigillato.

Nel pomeriggio si è tenuto un corteo che ha visto la partecipazione di circa un migliaio di persone, fra cui anche gruppi di residenti del quartiere. Durante il tentativo di riavvicinarsi all’edificio, ci sono stati nuovi scontri. Dieci poliziotti risultano feriti, secondo la questura. E tre scuole della zona sono state chiuse per 48 ore a scopo precauzionale.

Ora, sgomberi di spazi occupati se ne vedono tanti. Ma questo episodio ha suscitato reazioni particolarmente forti, sia per l’importanza simbolica di Askatasuna, sia per il contesto politico. Vi porto due letture critiche che ho trovato interessanti:

Secondo Roberto Lamacchia, avvocato e co-presidente dei Giuristi Democratici, lo sgombero è tutt’altro che un semplice atto tecnico. È, a suo dire, una scelta politica precisa, che interrompe un processo di regolarizzazione basato sulla collaborazione fra Comune e attivisti. 

Scrive Lamacchia: “Quando si mandano 300 agenti da fuori regione per un controllo amministrativo, è evidente che non si tratta solo di una violazione edilizia”. L’avvocato sottolinea come, in assenza di pericoli immediati, la risposta delle istituzioni sia stata sproporzionata e intimidatoria, e denuncia anche la scarsa trasparenza nelle comunicazioni ai cittadini (basti pensare alla chiusura delle scuole comunicata solo all’ultimo minuto).

Secondo lui, lo sgombero segna una rottura del dialogo democratico, in favore di una gestione puramente securitaria del dissenso. Una gestione che, oltre a colpire uno spazio fisico, rischia di delegittimare una parte della società civile, quella che si organizza dal basso, fuori dai circuiti istituzionali.

Anche Angelo d’Orsi e Marco Revelli, due figure storiche della cultura critica italiana, hanno espresso posizioni simili. In un comunicato diffuso insieme ad altri intellettuali e accademici, denunciano lo sgombero come una risposta autoritaria alle recenti mobilitazioni pro-Palestina, di cui Askatasuna è stata uno dei catalizzatori.

Secondo loro, l’azione del 18 dicembre non è neutra, ma rientra in un disegno più ampio di repressione dei movimenti sociali e della loro capacità di mobilitare consenso. “Askatasuna non è solo un edificio, ma un pezzo di città, una comunità viva, che produce cultura, solidarietà e impegno politico”, scrivono. Sgomberarla significa, in un certo senso, tentare di cancellare un modo diverso di abitare la città.

Fra l’altro lo sgombero dell’Askatasuna arriva a tre mesi da quello del Leoncavallo, storica realtà occupata milanese. Operazioni ventilate da anni, ma sempre rinviate e oggi messe in campo. 

Sembra abbastanza evidente la manina del governo dietro a queste operazioni. Il Ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha detto che lo sgombero riflette la volontà dello Stato di non tollerare violazioni della legalità e “non lasciare spazio alla violenza”. Su Domani, Giorgio Cremaschi dice esplicitamente: “credo ci siano state pressioni dirette del governo”, e collega la cosa al fatto che mantenendo il patto lo sgombero sarebbe stato più contestabile. Nello stesso pezzo, Livio Pepino parla di “prevaricazione del governo centrale attraverso i rami del prefetto e del questore”, cioè. 

Insomma, sia come è stata orchestrata l’operazione che le dichiarazioni dei diretti interessati fanno pensare che lo sgombero sia una mossa politica e simbolica del governo. Difficle dare un commento semplice, peraltro da parte di chi come me non conosceva quella specifica realtà. Conosco abbastanza bene le realtà dei cetri sociali per sapere che sono reltà molto eterogenee, su cui è difficile esprimere un parere omogeneo, ovvero fare fdi tutta l’erba un fascio. Però, diciamo che in media, pur nel mezzo a tante contraddizioni e comunque muovendosi in situazioni di semi-legalità, sono spazi che quasi sempre offrono servizi sociali alla cittadinanza, alle fasce più povere e emarginate della cittadinanza. All’interno di città che sono sempre più difficili da abitare, sempre più povere di welfare di prossimità. Chiudere questi luoghi senza immaginare come offrire quei servizi vuol dire solo fare propaganda, ma di fatto impoverire i quartieri.

Uno studio ampiamente pubblicizzato sui costi catastrofici del cambiamento climatico è stato ritirato, a seguito di pesanti critiche alla sua metodologia. Pubblicato sulla prestigiosa rivista «Nature» ad aprile 2024, l’analisi del Postdam Institute for Climate Impact Research aveva da subito riscosso una grande visibilità sui media internazionali ed era stata consultata oltre 300.000 volte online. 

Siamo sul Corriere della Sera, che racconta che “Il 3 dicembre, però, i ricercatori dell’istituto tedesco hanno fatto marcia indietro, ammettendo che alcuni errori nei dati li avevano spinti a sovrastimare i risultati, aggiungendo che le modifiche necessarie sono «troppo sostanziali» per una correzione.

Poi l’articolo cita i costi in questione: “Lo studio sosteneva che il cambiamento climatico avrebbe comportato un costo di 38 mila miliardi di dollari all’anno entro il 2049. In una nuova analisi, già online ma non ancora sottoposta a revisione per la pubblicazione scientifica, tale cifra è stata ridotta a 32 mila miliardi di dollari. Cioè, da 38mila a 32 mila, un errore non da poco, ma comunque parliamo di cifre astronomiche, 32mila miliardi di dollari sono comunque più del Pil Usa.

Inoltre, stimava che il cambiamento climatico avrebbe innescato una diminuzione del reddito globale del 19% entro il 2050 mentre la nuova analisi porta la cifra al 17%. Infine, prevedeva che, con una probabilità del 99%, entro la metà del secolo sarebbe costato di più riparare i danni causati dal cambiamento climatico che costruire resilienza. Ora la revisione ha abbassato tale percentuale al 91%. 

Vedete che la ritrattazione non è che poi faccia tutta questa differenza. Ma ha subito alimentato polemiche e critiche, anche perché – scrive ancora il Corriere – lo studio è stato utilizzato dalla Banca Mondiale e da altre istituzioni finanziarie per delineare gli scenari climatici utilizzati poi anche dai decisori politici. Sui social media ma anche su alcuni quotidiani, la decisione di Nature di ritirare l’articolo ha alimentato teorie cospirazioniste e in alcuni casi apertamente negazioniste, in cui si accusa i ricercatori di essere  «completamente corrotti» o più in generale che la scienza del clima è «una truffa politica», sulla scia di quanto più volte asserito dal presidente americano Donald Trump, che ha ritirato per la seconda volta gli Stati Uniti dagli accordi di Parigi sul clima. 

Voglio leggervi un commento del prof. Giuseppe Barbero, che scrive: “E’ buffo vedere che ci sono tizi che perdono il loro tempo a fare video per denunciare la ritrattazione da parte degli Autori di un proprio articolo apparso su “Nature”, senza aver letto le motivazioni. Gli Autori (non “Nature”) hanno chiesto il ritiro dell’articolo perché volevano perfezionare lo studio, ma il valore e il significato globale dello studio rimane inattaccabile. Tanto è vero che gli stessi Autori lo hanno prontamente ripubblicato con la correzione. Ma dubito che questi tizi, che si sbracciano nei video, si siano presi la briga di leggere l’articolo.

A proposito di clima e transizione energetica, Wired riporta una notizia molto interessante. Leggo: “Il 10 dicembre la Commissione europea ha presentato il piano per portare le reti elettriche nel futuro, un intervento che il commissario all’Energia Dan Jørgensen ha definito “la proposta più importante del mandato”. Il progetto nasce dall’urgenza di abbassare i prezzi, accelerare la decarbonizzazione e ridurre la dipendenza energetica dell’Unione mettendo al centro un elemento solitamente poco discusso: l’infrastruttura elettrica.

L’articolo spiega che il nuovo pacchetto Ue sulle reti elettriche arriva dopo un campanello d’allarme molto concreto: il grande blackout del 28 aprile 2025 in Spagna e Portogallo, che ha mostrato quanto una rete “vecchia” e poco digitalizzata possa andare in crisi quando la produzione cambia rapidamente. All’inizio qualcuno ha dato la colpa alle rinnovabili, ma poi è emerso che il problema era soprattutto una cattiva gestione della tensione da parte di grandi produttori e l’assenza di strumenti moderni per stabilizzare la rete: controlli avanzati, inverter “grid-forming” e batterie di accumulo.

Dentro questo scenario, l’articolo nota però che da questo punto di vista il nostro Paese è un’eccellenza. Secondo l’associazione Energia per l’Italia, la rete italiana è tra le più affidabili e moderne d’Europa grazie agli investimenti fatti dopo il blackout del 2003. E viene citata l’analista Zsuzsanna Pató (think tank RAP / Euractiv), che indica l’Italia come “caso da studiare” per l’uso intelligente di tecnologie dinamiche, in particolare il Dynamic Line Rating (DLR): sensori sulle linee elettriche misurano in tempo reale condizioni come vento e temperatura e permettono di aumentare la capacità di trasporto senza costruire nuove infrastrutture.

Pató ricorda che Terna, usando il DLR, avrebbe ottenuto una  capacità superiore, meno congestioni, meno costi di gestione, maggiore capacità doi integrare le rinnovabili. te per i risultati (performance) e non solo per quanto spendono in nuovi investimenti.

L’unica nota stonata è che l’Italia, come nota l’articolo, non sta sfruttando a dovcere questa sua rete potentissima e molto flessibile, perché le rinnovabili stanno crescendo piu lentamente che altrove, nonostante il nostro Paese avrebbe sulla carta la rete più adatta a una vera e propria esplosione delle rinnovabili stesse. 

Rinnovabili che, fra parentesi, Science ha scelto come Breakthrough of the Year 2025. A livello mondiale. La rivista scientifica sostiene che la crescita travolgente delle energie rinnovabili sia la svolta dell’anno di questo 2025, perché — a livello globale — le rinnovabili hanno superato il carbone come fonte di elettricità. E secondo il think tank Ember, tra gennaio e giugno solare ed eolico sono cresciuti così tanto da coprire da soli tutto l’aumento della domanda elettrica mondiale nello stesso periodo.

Il testo poi dice che il vero motore di questa “rivoluzione” è la Cina: dopo anni di sussidi e politica industriale, Pechino è diventata leader mondiale e sta trasformando fisicamente il territorio con enormi distese di pannelli solari e turbine gigantesche. Nel solo 2024 avrebbe installato nuova capacità eolica e solare equivalente a circa 100 centrali nucleari, al punto che oggi la produzione potenziale potrebbe coprire l’intero consumo elettrico degli Stati Uniti.Questo boom avrebbe portato la crescita delle emissioni cinesi verso una sorta di stagnazione, anche se la Cina continua a costruire centrali a carbone (spesso tenute “in standby” per eventuali picchi). E dentro questo scenario Xi Jinping ha potuto promettere all’ONU un taglio del 10% delle emissioni in dieci anni, puntando non sulla riduzione dei consumi ma sull’accelerazione di vento e sole.

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