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6 Ottobre 2025
Podcast / Io non mi rassegno

La Siria e le altre: elezioni a democrazia ridotta? – 6/10/2025

Elezioni in Siria, Moldavia, Georgia e Repubblica Ceca; in Italia nuove proteste per Gaza; un report propone un cambiamento nel sistema alimentare; Jane Goodall parla di speranza come scelta attiva.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
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Trascrizione episodio

Nel fine settimana appena trascorso si è votato in vari punti caldi del mondo, con delle elezioni che ci dicono cose, non solo per via dei loro risultati, ma per come si sono svolte e per cosa è successo attorno ad esse.

Ad esempio si è votato in Siria, ieri. Non abbiamo ancora risultati certi, nel momento in cui registro, ma sono elezioni su cui c’era una certa attesa, perché sono le prime dopo la caduta del regime della famiglia Assad, durata più di cinquant’anni e caduta lo scorso dicembre, ma anche tantissimi dubbi sulla loro reale democraticità. 

Vi ricapitolo la situazione, semplificando. Dopo la caduta di Assad, si è autoproclamato Presidente “di transizione” Ahmed al Sharaa — ex leader del gruppo islamista Hayat Tahrir al Sham, che aveva guidato la rivolta contro Assad. Al Sharaa però ha un sacco di poteri. innanzitutto questa transizione durerà almeno 5 anni, prima di andare alle elezioni presidenziali, e in 5 anni possono succedere tante cose. 

Le elezioni di ieri non erano quindi le presidenziali ma quelle per eleggere il parlamento, che perà ha un ruolo abbastanza marginale, secondo quanto prevede la nuova costituzione siriana. Quasi consultivo. Non solo: il Presidente comunque elegge direttamente un terzo del parlamento, e in più ha scelto personalmente anche il comitato che supervisiona le elezioni.

E, ultimo pezzetto, in realtà si vota solo in parte del Paese: perché tre province, tra cui Raqqa e Hasakah, a maggioranza curda, e Suwayda, drusa, sono state escluse dal voto “per motivi di sicurezza”. 

Non ci sono partiti, al momento, ma solo 1500 candidati tutti indipendenti, che però, non saranno eletti direttamente dagli elettori, ma da un sistema di circa 6000 grandi elettori, membri dei consigli locali e rappresentanti delle comunità provinciali, scelti in gran parte dal governo stesso. 

Quindi, ecco, sulla carta, la Siria entra in una nuova fase politica. Nei fatti, il rischio è che si stia solo sostituendo un’autorità assoluta con un’altra, in un Paese ancora frammentato, povero e stremato da quindici anni di guerra.

In Repubblica Ceca si è votato venerdì e sabato per rinnovare la Camera dei deputati e a vincere è stato il partito di Andrej Babiš, miliardario, i giornali lo definiscono un populista filorusso, è un magnate dei fertilizzati, già primo ministro, che ha preso quasi il 35 per cento dei voti con un partito che si chiama, ebbene sì, Ano. Che però, non penstate male, sta per Pafrtito dei cittadini insoddisfatti. Un risultato nettamente superiore a quello della coalizione del premier uscente Petr Fiala, che si è fermata poco sopra il 23 per cento.

Babiš non ha però la maggioranza assoluta e per governare dovrà cercare alleati, probabilmente fra i partiti di estrema destra: i nazionalisti di Libertà e Democrazia Diretta, e il partito degli “Automobilisti per se stessi”, sì si chiama davvero così, contrari alle politiche ambientali, entrambi sopra il 6-7 per cento.

Babiš, spesso paragonato a Trump e Berlusconi, ha spostato le sue posizioni ancora più a destra: attacca l’Unione Europea e in particolare il Green Deal, critica il sostegno a Kiev e l’accoglienza dei profughi ucraini — che in Cechia sono 373mila, un numero altissimo in rapporto alla popolazione. 

Delle elezioni in Moldavia abbiamo già parlato molto brevemente. Abbiamo detto che ha vinto il partito europeista e che sono state elezioni molto controverse e polarizzate. Però forse conviene tornarci, e lo faccio grazie a un articolo di Limes che si chiama In Moldavia ha vinto l’Europa ma non la democrazia. Che spiega – la fira è di Mirko Mussetti, che spiega quanto sono state controverse queste elezioni: tanto.

In Moldavia si è votato lo scorso weekend per rinnovare il Parlamento e il partito Azione e Solidarietà (PAS), guidato dalla presidente Maia Sandu, ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi, un risultato che segna un’accelerazione netta del processo di avvicinamento del Paese all’Unione Europea. Sandu, già filo-occidentale dichiarata, ha basato la sua campagna sul rilancio europeo della Moldova, presentato come unica via possibile per sottrarsi all’influenza di Mosca.

Ma dietro il trionfo c’è un quadro piuttosto torbido: diversi partiti d’opposizione – soprattutto filorussi ma non solo – sono stati esclusi dalla competizione con motivazioni giudicate da osservatori indipendenti quantomeno controverse. 

Nelle settimane precedenti al voto le autorità moldave hanno condotto 250 perquisizioni e arrestato almeno 74 persone, dichiarando che si trattava di un piano per “incitare disordini di massa” e destabilizzare il Paese in vista delle elezioni.Dopo l’elezione, si sono verificati 31 arresti durante proteste dell’opposizione in Moldavia, principalmente promosse da forze filorusse del Patriotic Bloc

E mentre Sandu e l’Occidente accusano la Russia di tentare di destabilizzare il Paese con propaganda e ingerenze, molti analisti sottolineano come anche l’Unione Europea abbia esercitato pressioni dirette e indirette per orientare il voto, ad esempio finanziando infrastrutture e campagne informative filo-Ue. Questo per dire che in questa che viene chiamata guerra ibrida, combattuta anche a colpi di elezioni, tutti gli attori in gioco fanno scorrettezze e cercano di avvantaggiarsi. Forse è inevitabile che sia così, perché altrimenti significherebbe arrendersi alle strategie avversarie, ma ecco, dobbiamo essere consapevoli che in una fascia crescente di europa i sistemi democratici, che già di loro traballano e non poco, sono metodicamente piegati a esigenze geopolitiche.

Questo fine settimana invece si è votato in Georgia. In realtà per delle elezioni locali, municipali, ma qui la notizia è stata la tensione altissima, con migliaia di persone sono scese in piazza a Tbilisi per protestare contro il governo e contro il partito al potere, Sogno Georgiano, accusato di aver assunto posizioni sempre più autoritarie e filorusse. 

La manifestazione, cominciata in modo pacifico, è degenerata in scontri davanti al palazzo presidenziale: la polizia ha usato lacrimogeni e idranti per disperdere la folla.

È stato il primo voto locale, dopo le contestate elezioni politiche del 2024, e si è svolto senza osservatori internazionali e con il boicottaggio di gran parte dell’opposizione, incluso il partito dell’ex presidente Saakashvili. Il premier georgiano Irakli Kobakhidze ha poi dichiarato vittoria alle elezioni municipali, vantando oltre il 70 per cento dei voti, ma l’opposizione parla di brogli e chiede una “transizione democratica pacifica”.

Fra l’altro la Georgia è scossa da mesi da proteste contro la legge sugli “agenti stranieri” e altre norme ispirate al modello russo che limitano la libertà dei media e delle ong. E visto che in teoria la Georgia è lungo il percorso – anche se attualmente congeato – per aderire alla Ue questa cosa desta preoccupazioni a Bruxelles.

Osservando queste dinamiche però, non posso non notare che la narrazione che arriva a noi è ovviamente ribaltata rispetto a quella moldava. In Georgia abbiamo un governo filorusso, presentato come populista e illiberale, e un’opposizione europeista, che scende in piazza e accusa il governo di brogli. Esattamente l’opposto di quello che accade in Modlavia, dove il governo è europeista e a scendere in piazza è l’opposizione filorussa. 

I media nostrani, la maggiorparte almeno, fa un racconto delle due vicende molto asimmetrico, cioé, è abbastanza chiaro che in Moldavia i buoni sono i governanti e in Georgia sono i manifestanti. Io non sono andato a verificare  e non ho modo di verificatre la reale situazione in nessuno dei due paesi, quindi non posso nemmeno dir econ certezza che siano due situazioni esattamente speculari, però un po’ il sospetto che la narrazione che facciamo di questi due luoghi non sia del tutto oggettiva c’è.

Nel fine settimana in Italia ci sono state delle nuove manifestazioni ancora più gigantesche, in seguito all’arresto degli attivisti della Sumud Flotilla da parte del governo israeliano e per alzare la pressione sul governo Meloni affinché prenda le distanze in maniera più netta da Israele.

Gigantesche quanto è difficile dirlo, perché qui le differenze di stime fra il Viminale e i sindacati che hanno organizzato sono importanti. 2 milioni contro 400mila. Solo su roma i sindacati hanno parlato di un corteo da 1 milione di partecipanti, il Viminale di 250mila. Al solito, la verità sta da qualche parte lì in mezzo.

Comunque, si è parlato tantissimo di queste manifestazioni, anche il governo Meloni sembra aver accusato il colpo e per la prima volta in due anni ha revocato una licenza di export di munizioni a Israele. Sì, le stesse licenze che in teoria erano state bloccate subito dopo il 7 ottobre, ma che poi nei fatti erano ancora attive. Adesso sembra che almeno una di queste sia stata effettivamente bloccata.

Altro effetto bello delle manifestazioni è un articolo in cui mi sono imbattuto, scritto da una scrittrice palestinese che si chiama Eman Abu Zayed Lunedì scorso ero in strada a cercare un segnale internet a Nuseirat, nella Striscia di Gaza centrale – cosa diventata quasi impossibile a Gaza. La nostra casa era appena stata bombardata per la terza volta durante la guerra, ed eravamo stati costretti a fuggire per la decima volta. Avevo appena perso tutto, ancora una volta.

Il mio cuore era pesante per il dolore e tutto ciò che mi circondava mi ricordava la perdita che ci era capitata. Quando finalmente sono riuscita a connettermi, video, foto e messaggi audio dall’Italia hanno inondato il mio telefono. Ho visto folle di persone marciare per le strade, sventolando bandiere palestinesi e cantando insieme per la nostra libertà. Ho visto piazze piene di striscioni con la scritta “Stop the War” e “Free Palestine”, e volti che esprimevano un misto di rabbia e speranza. Stavano cercando di inviarci un messaggio: vi ascoltiamo, siamo al vostro fianco.

Ho provato una gioia immensa. Era la prima volta che assistevo a proteste pro-palestinesi di tale portata e impatto. […] In oltre 70 comuni italiani, la gente è scesa in piazza per dimostrarci che aveva a cuore Gaza, che sosteneva la nostra causa, che voleva la fine immediata del genocidio. Non si trattava di una nazione a maggioranza musulmana o araba. Era un paese occidentale, il cui governo si rifiuta di riconoscere uno stato palestinese e continua a sostenere Israele. Eppure, il popolo italiano è sceso in piazza per noi, per esprimere la sua solidarietà”. Mi è sembrato bello.

Ultima cosa: mentre Israele e Hamas potrebbero iniziare dei negoziati di pace in Egitto, stanno rientrando a casa i vari partecipanti della Sumud Flotilla, e con loro arrivano racconti abbastanza agghiaccianti, tipo quello di Greta Thunberg tenuta in una cella infestata di cimici, disidratata, costretta a baciare la bandiera israeliana. 

Dei 40 attivisti italiani arrestati 25 sono stati rispediti in Italia, passando da Istanbul, mentre 15 si sono rifiutati di dichiararsi colpevoli e quindi sono ancora in prigione in Israele. Tuttavia, come mi fa notare Daniel Tarozzi, c’è il rischio che mentre gli attivisti di paesi “alleati” di Israele vengano rimpatriati rapidamente. E quelli che arrivano da paesi più sfigati invece restano a marcire nelle carceri, per far contento Ben Gvir. Per ora non coi sono notizie a riguardo, ma sicuramente da monitorare. 

C’è un nuovo rapporto che spiega in modo molto chiaro quanto il cibo — quello che mangiamo ogni giorno, ma anche come lo produciamo — stia avendo un impatto gigantesco sui sistemi naturali della Terra. E secondo gli scienziati, se non cambiamo direzione subito, rischiamo di spingere il pianeta oltre il punto di non ritorno.

Il documento è stato pubblicato pochi giorni fa dalla Commissione EAT-Lancet, un gruppo internazionale di esperti di nutrizione, salute e ambiente nato dalla collaborazione tra la fondazione norvegese EAT e la rivista scientifica The Lancet. Alla ricerca ha partecipato anche lo Stockholm Resilience Centre, uno dei centri di ricerca più avanzati al mondo sul funzionamento dei sistemi terrestri e sui cosiddetti “limiti planetari” — quelle soglie entro cui l’umanità può vivere in equilibrio senza compromettere la stabilità del pianeta.

Ebbene, secondo gli autori, i sistemi alimentari globali contribuiscono oggi al superamento di sette di questi nove limiti: il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, l’uso eccessivo del suolo, lo spreco di acqua dolce, la diffusione di sostanze chimiche, i cicli dei nutrienti come azoto e fosforo e, da poco, anche l’acidificazione degli oceani. Tutto questo a causa di agricoltura intensiva, deforestazione, allevamenti industriali, fertilizzanti eccessivi e sprechi lungo la filiera.

Per rientrare nei confini planetari, dicono gli studiosi, serve una vera e propria rivoluzione alimentare.
Non solo nel modo in cui ci nutriamo, ma in come funzionano intere filiere.
Nel dettaglio, la produzione di legumi dovrebbe quasi triplicare, quella di verdure aumentare di circa il 45 per cento, mentre la carne rossa andrebbe ridotta di almeno un quarto. Le diete dovrebbero basarsi molto di più su cereali integrali, legumi, frutta secca, frutta e verdura, adattate però ai diversi contesti locali.

Ma attenzione: il rapporto sottolinea anche che non è solo una questione di scelte individuali. Non basta mangiare meno carne o sprecare meno cibo.
Il vero problema dello spreco alimentare, infatti, non è nelle nostre cucine: secondo i dati raccolti, la maggior parte dello spreco avviene dopo il raccolto, durante la lavorazione e la distribuzione industriale. Serve quindi un intervento politico e sistemico: ripensare i sussidi agricoli, regolamentare il marketing alimentare, tassare i prodotti più dannosi per la salute e per l’ambiente, e proteggere i piccoli produttori.

In sostanza, il messaggio è chiaro: trasformare il cibo — cosa mangiamo e come lo produciamo — è una delle azioni più potenti che possiamo compiere per salvare il pianeta, migliorare la salute delle persone e garantire maggiore giustizia sociale. Ma richiede visione, scelte coraggiose e cooperazione globale.

Dalla newsletter di venerdì, scritta da Daniel Tarozzi in occasione della morte di Jane Godall:

“Jane Goodall aveva capito molto chiaramente come tutto fosse interconnesso: che salvare una foresta, dare cibo e istruzione ad un bambino, mettere in circolo uno smartphone usato, sono azioni profondamente collegate.

Jane Goodall amava follemente i cani, ancor più degli scimpanzé. Quest’ultimi – diceva – sono in grado di comportarsi anche in modi spiacevoli, un cane no.
Jane Goodall – una giovane donna che ha rivoluzionato la scienza degli uomini.
Jane Goodall che – con il suo ultimo libro – non ha parlato di dolore, di paura, di morte, di angoscia, di denuncia. Ha parlato di speranza. HA PARLATO DI SPERANZA.

Nel suo libro, infatti, attraverso una serie di dialoghi con Douglas Carlton Abrams, racconta la propria vita, per mostrare cosa l’ha motivata nel corso degli anni. Una parte fondamentale del libro è la presentazione delle quattro ragioni per cui Goodall continua a sperare: l’intelletto umano, la resilienza della natura, il potere dei giovani e lo spirito indomito dell’essere umano. Attraverso esempi concreti e storie vissute, spiega come ciascuna di queste forze possa aiutarci a reagire alle sfide globali.Goodall non nega le difficoltà: il libro affronta temi come crisi climatica, perdita di biodiversità, disuguaglianza sociale e il peso della pandemia. Tuttavia, il tono è propositivo: invita ciascuno a farsi carico della propria parte e a diventare “messaggero di speranza”.

Speranza intesa non come semplice ottimismo passivo, ma come scelta attiva: riconoscere i problemi e mettersi in azione. Nonostante le crisi, Goodall ritiene che la cooperazione, l’empatia e l’impegno possano ancora fare la differenza”.

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