Ucraina, la società civile che resiste: storie da Kharkiv e il racconto che manca – 16/10/2025
Ucraina: la missione del MEAN racconta la società civile. Gaza: la tregua è fragile, tra restituzione dei corpi e vendette interne. Madagascar: i CAPSAT depongono il presidente, è colpo di stato. Rettifica: Bundu sopra il 5%, ma solo nelle preferenze.
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Fonti
#Ucraina
una città – Il viaggio dei 110 e l’elefante nella stanza ucraino
Italia che Cambia – Un altro governo caduto: come mai la Francia è diventata ingovernabile? – 7/10/2025
#Gaza
Reuters – Returning hostage bodies from Gaza may take time, Red Cross says
The Times of India – Gaza crackdown: Hamas posts video of public execution of ‘collaborators and outlaws’, 4 hostages’ remains return to Israel
#Madagascar
Il Post – I militari del Madagascar hanno deposto il presidente
Italia che Cambia – Madagascar, colpo di stato
#Rettifica Bundu
La Nazione – Bundu supera il 5% nelle preferenze personali, ma non la soglia di lista
Trascrizione episodio
Sembrerà paradossale, perché è la guerra più vicina a noi, ma il conflitto in Ucraina è anche quello che mi sembra più difficile da raccontare. In realtà se ci pensate è esattamente l’opposto di paradossale: è abbastanza normale che un conflitto che ci vede coinvolti direttamente sia difficile da raccontare.
Perché da un lato sappiamo che inevitabilmente molti media ne faranno un racconto fazioso, un racconto di parte, dall’altro però per chi fa la cosiddetta controinformazione c’è il rischio contrario, ovvero di accordare così poca fiducia ai media mainstream da cadere facile preda della propaganda russa.
La realtà come al solito è molto più complessa di questo boianco / nero che ci arriva e per questo sono particolarmente felice di essermi imbattuto in un articolo di Marianella Scalvi, che è una sociologa, esperta di comunicazione e gestione creativa dei conflitti, pioniera dell’ascolto attivo, ed è anche una delle fondatrici del progetto Mean, Movimento Europeo di Azione Nonviolenta che è un’iniziativa della società civile nata per promuovere la pace e offrire assistenza umanitaria in Ucraina. Ne abbiamo parlato qualche puntata fa.
Fatto sta che Marianella faceva parte della missione che ha scansato per poco i bombardamenti urssi la scorsa settimana, e di ritorno da quell’incontro ha pubblicato un articolo molto interessante in cui fa quello che dovrebbe fare un giornalista. Racconta quello che ha osservato.
Fra l’altro l’articolo è particolarmente interessante perché Mean è entrato in contatto non tanto con quello che succede al fronte, che è quello di cui si occupano quasi tutti gli inviati di guerra, ma che oggi spesso non ci dice molto della complessità dei conflitti, ma è stata fra i civili, fra gli attivisti ucraini. Leggo:
Si è parlato spesso in relazione alla Global Sumud Flottilla di “elefante nella stanza”, per sottolineare che i governi e una parte della discussione pubblica discuteva sulle decisioni e comportamenti della Flotilla come se a essere illegali fossero i comportamenti di chi navigava pacificamente in acque internazionali, e non un oltraggio al diritto internazionale quelli di chi pretendeva di impedirlo col ricorso alla violenza. Quelle coraggiose barchette a vela sono riuscite a portare l’elefante in primo piano mettendo in imbarazzo una comunità internazionale inane e intimorita di fronte a regimi che si reggono sulle minacce di coloro che non si sottomettono ai loro voleri, sulla sistematica manipolazione delle opinioni pubbliche e il massacro di intere popolazioni viste come impedimenti all’espansione dei loro poteri.
Come Movimento Europeo di Azione Nonviolenta (Mean) mentre dal 1 al 5 ottobre eravamo impegnati nella nostra quattordicesima missione in Ucraina, ci siamo sentiti totalmente solidali con quelle imbarcazioni e la loro denuncia, quasi che i nostri corpi, di noi 110 attivisti costruttori di pace italiani diretti a Kharkiv, l’antica capitale che si trova a 35 km dal fronte, fossero essi stessi una specie di fragili vele.
Le due situazioni di guerra hanno ognuna profonde radici storiche specifiche e singolari, ma una delle diversità più eclatanti è che mentre la storia del popolo palestinese, pur da punti di vista contrastanti è stata ampiamente studiata e discussa, gli ucraini come popolo sono veramente venuti alla ribalta solo dal 22 febbraio 2022 in poi.
Pochissimi di noi del Mean sapevano in precedenza del referendum del 1991 in cui più dell’80% della popolazione (compresa Crimea e Donbass) ha votato per il distacco dall’ex Urss e per l’indipendenza; del Memorandum di Budapest del 1994 che ha sancito la consegna degli arsenali nucleari ucraini alla Russia in cambio del rispetto dei confini; del 75% di voti al partito «Servitore del popolo» di Zelensky nel 2019, degli accordi di Minsk, per non parlare dell’Holodomor, il genocidio per fame di oltre 6 milioni di contadini accusati di contestare il sistema della proprietà collettiva, perpetrato dal regime sovietico negli anni 1932-1933.
L’Holodomor, abbiamo scoperto, è una di quelle tragedie che il popolo ucraino non dimenticherà mai e che ne segna il carattere: quei contadini che preferivano morire piuttosto che abbassare lo sguardo di fronte alla arroganza dei «commissari del popolo» che imponevano di rinunciare alle terre custodi dei sacrifici loro e dei loro avi, sono, assieme alla mitologia para-anarchica sugli antenati cosacchi, uno degli archetipi che si ritrovano anche nella attuale reazione di popolo contro quest’ultima aggressione. L’Holodomor è stata una cruenta espropriazione collettiva che mutatis mutandi ricorda la Nakba per i palestinesi e le retate nei ghetti nella memoria storica degli ebrei.
Poi fa una parentesi molto interessante sulla nascita e gli obiettivi del progetto Mean, che qui devo saltare per motivi di tempo. Per proseguire:
Dicevo che il principale elefante nella stanza relativamente alla guerra in Ucraina è la non-conoscenza della sua società civile che man mano, siamo andati conoscendo assieme a loro, grazie agli incontri faccia a faccia in ascolto delle loro storie di vita, di come stanno vivendo l’emergenza bellica e le discussioni su cosa loro e noi stavamo imparando. Perché la prima cosa che abbiamo capito è che loro stessi, nello shock dell’invasione si stavano vedendo in modo nuovo, stavano scoprendo di possedere come popolo una forza e un senso di fratellanza insospettati, di essere uniti da un comune bagaglio storico di lotta alla oppressione la cui portata loro stessi in precedenza ignoravano.
L’emergenza (l’avrete provato anche voi se siete accorsi dopo una alluvione o un terremoto) fa venire a galla in coloro che si mobilitano per farvi fronte, uno spessore che prima era sopito o rimasto nascosto, la pratica della solidarietà concreta e spontanea non guidata dall’alto, favorisce l’emergere della intelligenza collettiva. Gli incontri svolti condividendo il pericolo (non on line, non dalla poltrona), aiutano a mettere concretamente le nostre vite e il valore della vita in prospettiva. Non si capisce il clima morale e intellettuale, l’ethos ed eidos di una situazione, se non mettendosi in gioco personalmente, e la convinzione che la società civile ucraina ci ha così trasmesso è che l’insieme delle loro reazioni contro la guerra configurano una delle società civili più civili del continente.
Potremmo quasi dire che torniamo lì per sentirci assieme a loro veramente europei. Le grandi manifestazioni di luglio, con tutti quei giovani in piazza ognuno col proprio cartello individuale scritto a mano, contro la legge che tendeva a limitare i poteri degli Uffici Anticorruzione, non ci hanno sorpreso; sono state una pubblica manifestazione di qualcosa che ci avevano già trasmesso, e che ci sentiamo colpevoli di non riuscire a nostra volta a comunicare con altrettanta efficacia.
Poi qui passa a raccontare meglio le reti ucraine che di fatto hanno accolto i volontari europei, e anche qui ci sono aspetti interessantissimi:
“Come Mean siamo entrati in contatto e stabilito rapporti di solidarietà ed amicizia con quattro importanti circuiti della società civile ucraina ognuno dei quali con i loro racconti e resoconti ci ha aperto gli occhi.
Le quattro principali reti che ci hanno accolto e ci hanno fatto da maestre sono quelle delle chiese, in primis la cattolica e greco cattolica con in testa il nunzio apostolico Visvaldas Kulbokas, ma in comunione anche con quella greco-ortodossa e quelle ebraica e musulmana; altro circuito fondamentale quello degli esponenti del Congresso delle autonomie locali, promotori in tutto il paese della democrazia dal basso; terzo: il variegato circuito dei volontari al fronte, fra i quali numerosissimi i medici ed infermieri e gli scout; infine quello delle associazioni e uffici anti-corruzione, fra i cui membri spicca a Kharkiv un gruppo di teen agers.
Tutti e quattro questi circuiti esprimono una radicale solidarietà con i soldati al fronte e una altrettanto radicale diffidenza verso il potere politico, compreso Zelensky, di cui apprezzano la determinazione nella difesa contro l’attacco russo e l’impegno per tenere in piedi la solidarietà internazionale, ma al quale rimproverano di non essere altrettanto determinato nella lotta contro la corruzione.
Questo è interessante.
“Tutte queste categorie diverse di persone – come abbiamo potuto constatare – condividono uno stesso tratto specifico che affonda le radici nella storia di questo popolo: la lotta contro la corruzione interna al Paese e quella contro la Federazione russa sono due facce della stessa medaglia.
Al dominio dell’URSS viene addebitata l’eredità di istituzioni intrise di corruzione, un governo in mano agli oligarchi, una società in cui la parentela prende il posto del merito, e gli affari procedono a suon di mazzette. Questo è stato il “socialismo reale” per gli ucraini. Per loro, la lotta contro l’oppressore esterno e quello interno, come la soap opera “Servitore del popolo” aveva così efficacemente denunciato, sono la stessa cosa. Su questo c’è un accordo pressoché unanime, a parte le piccolissime frange di nostalgici del regime comunista”.
Insomma, la società civile Ucraina sembra essere molto unita, molto avversa alla Russia ma anche scettica verso la propria classe politica, che in qualche modo è una eredità della ex Urss. Come sempre, quando si scava sotto la superficie, emerge la complessità.
Intanto a Gaza iniziano a emergere i primi problemi di un cessate il fuoco che resiste, anche se appare piuttosto fragile. Sono due le questioni principali che stanno emergendo in queste ore: la prima è la questione dei corpi degli ostaggi israeliani morti. Una delle condizioni poste da Israele era che Hamas restituisse i corpi dei civili e dei militari uccisi, affinché le famiglie possano dare loro sepoltura. Ma Hamas finora ne ha consegnati solo alcuni — e in un caso uno dei corpi restituiti è risultato non appartenere a un ostaggio noto — cosa che Israele ha accusato come “gioco sporco”.
Israele di contro ha dimezzato gli ingressi degli aiuti umanitari verso Gaza, dicendo che finché non arriveranno tutti i corpi promessi non aprirà tutte le valvole dell’assistenza. Dall’altro lato, il Comitato Internazionale della Croce Rossa ha spiegato che il recupero e la restituzione di questi corpi, così come dei corpi di migliaia di palestinesi uccisi, è “una sfida enorme” perché spesso si tratta di andarli a cercare sotto cumuli di macerie, distruzione, per via dei bombardamenti israeliani.
Dentro Gaza, intanto, e questo è l’altro grosso punto critico, i giornali raccontano che Hamas ha iniziato una sorta di resa dei conti. Sta procedendo a una repressione interna, controlli più stretti, arresti, esecuzioni pubbliche contro chi sospetta sia “collaboratore” o membro di clan rivali. Ci sono video che circolano in cui si vedono uomini in ginocchio bendati, dichiarati “fuorilegge e collaboratori” e giustiziati sul posto.
In alcune zone, clan armati che si erano opposti o che avevano legami ambigui, o che semplicemente volevano un margine d’autonomia rispetto a Hamas, sono presi di mira in queste ore, in una Gaza che è già in buona parte rasa al suolo.
Succedono però anche cose belle: ad esempio, è in corso un esperimento interessante: un gruppo di peacebuilders israeliani e palestinesi (inclusi partecipanti da Gaza) ha sperimentato dialogo collettivo supportato da AI e metodi deliberativi per trovare punti comuni e richieste condivise da presentare ai leader. Vedremo.
Aggiornamento sulla situazione in Madagascar, di cui abbiamo parlato giorni fa. Dopo settimane di proteste giovanili contro povertà e corruzione, l’esercito – o meglio, una sua componente chiave, i CAPSAT – ha effettivamente deposto il presidente Andry Rajoelina, costringendolo alla fuga, pare verso Dubai. I CAPSAT, che si occupano di logistica e amministrazione ma sono legati ai veri poteri economici del paese, sono gli stessi che avevano messo Rajoelina al potere nel 2009. E ora l’hanno fatto fuori.
Il movimento che ha acceso la miccia è formato da giovani, molto giovani, che si ispirano ai simboli delle rivolte asiatiche recenti – inclusa la bandiera pirata di One Piece, che ormai è un simbolo globale di ribellione Gen Z. Le proteste sono esplose a fine settembre, e dopo una repressione durissima con oltre 20 morti, i militari hanno dichiarato: “non vogliamo più sparare ai nostri fratelli”.
Ora il colonnello Michael Randrianirina, uno dei volti del colpo di mano, ha annunciato la sospensione delle istituzioni e la creazione di un Consiglio Nazionale per la Transizione che dovrebbe organizzare nuove elezioni — tra due anni — in consultazione con la Gen Z. Ma dietro questa “consultazione” resta il nodo: i militari daranno davvero potere ai civili? O useranno i giovani come foglia di fico?
Per ora i CAPSAT parlano di “rinnovamento nazionale” e cercano di evitare la parola colpo di stato. Ma resta il fatto che un governo è stato rimosso con la forza. E il futuro del Madagascar, oggi, lo decide una giunta militare, più o meno giovane e più o meno popolare.
Rettifica: Bundu ha superato il 5% nelle preferenze personali, ma la sua lista no.
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