9 Apr 2024

Perché l’esercito d’Israele ha lasciato il Sud di Gaza? C’entra l’Iran? – #910

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Le truppe israeliane hanno iniziato a ritirarsi dalla zona Sud della striscia di Gaza, come annunciato dal governo. I motivi di questa mossa, tuttavia, non sono del tutto chiari e allora proviamo ad esplorarli. Parliamo anche del fronte Ucraino, con gli allarmi lanciati sulla centrale di Zaporizhzhia, un presunto piano di Trump per la Pace, gli allarmi lanciati da Zelensky e le inondazioni in Russia, di oggetti marini non identificati, e ancora di genitorialità, cammini e santuari animali.

Torniamo a parlare della situazione a Gaza, perché ci sono un po’ di novità importanti. La prima è che l’esercito israeliano ha annunciato il ritiro di tutte le truppe di terra dal sud della Striscia di Gaza, dopo circa 4 mesi. Ne parlano praticamente tutti i giornali, ma non tutti spiegano bene le motivazioni. Perché ha ritirato l’esercito? E che vuol dire? Siamo vicini alla fine della guerra? O ci sono altre motivazioni?

Leggo sul Fatto Quotidiano che solo la Brigata Nahal è rimasta sul posto con il compito di tenere in sicurezza il cosiddetto ‘Corridoio Netzarim‘. Con corridoio di Netzarim si intendono in realtà due strade, una che attraversa la tutta la Striscia da nord a Sud, lungo la costa e un’altra recente, costruita nelle ultime settimane dalle truppe israeliane che taglia la striscia orizzontalmente dal confine con Israele fino al mare.

Comunque, a parte presidiare quei due corridoi, l’esercito si sta ritirando da tutta la parte sud. La notizia ha spinto centinaia di migliaia di sfollati accampati a Rafah, che come forse ricorderete era l’unica città dove ancora non era entrato l’esercito israeliano e dove si erano radunati i civili sfollati da tutto il resto del territorio, a rientrare a Khan Yunis. O meglio, in quello che rimane di Khan Yunis. Perché della città secondo i giornali restano più che altro macerie. Come racconta Pressenza, le Nazioni Unite hanno affermato che l’84% di tutte le strutture sanitarie e il 62% di tutte le abitazioni nella Striscia di Gaza sono state danneggiate o distrutte dalle ostilità in corso (fonte ONU).

Inoltre, circa il 57% delle infrastrutture idriche è stato distrutto o parzialmente danneggiato. La capacità di produzione idrica attuale è stimata al di sotto del 5% della produzione abituale e diminuisce progressivamente ogni giorno.

Insomma, l’entità del disastro realizzato dall’esercito israeliano è di dimensioni enormi. Senza parlare delle vittime, delle quali vi do solo un dato agghiacciante, reso noto dall’Unicef: sono stati uccisi oltre 13mila bambini, dallo scorso 7 ottobre.

Ma quindi che succede adesso? Come mai il governo israeliano ha scelto per il ritiro dell’esercito? Ci sono in realtà versioni diverse. Secondo la Casa Bianca, il ritiro parziale servirebbe riposare le truppe “sul terreno da quattro mesi” e non è necessariamente indicativo di nuove operazioni. 

Questo “necessariamente indicativo” però è un po’ sospetto. Ora ci torniamo. Il governo israeliano ha fatto sapere che l’abbandono dell’esercito non equivale a un cessate il fuoco, ma che anzi serve a preparare future missioni, inclusa la missione a Rafah. Rafah, dicevamo, è una città a Sud della striscia dove sono confluiti tutti gli sfollati e che Netanyahi ha detto varie volte di voler attaccare. 

In tanti hanno cercato di dissuaderlo, anche perché senza un altro luogo dove andare per le persone, un attacco militare a Rafah sarebbe equivalso a una carneficina ancora più estrema di quella già in atto.

Secondo la Tv israeliana, adesso il piano del governo sarebbe di iniziare l’evacuazione di Rafah entro una settimana e, processo che potrebbe richiedere diversi mesi, per poi attaccarla. L’emittente ha riportato a riprova di ciò che il ministero della Difesa di Tel Aviv starebbe pubblicando una gara d’appalto per l’acquisto di circa 40mila tende che saranno consegnate a organizzazioni internazionali, per realizzare una grande tendopoli in grado fdi accogliere mezzo milione di persone, a cui arriveranno gli sfollati da Rafah diretti a nord.

Secondo altre fonti, la mossa di Netanyahu potrebbe anche essere una risposta alle proteste dei giorni scorsi che chiedevano le dimissioni del governo e che a Tel Aviv hanno portato 100mila persone in piazza. Netanyahu ha aspramente criticato le proteste, dicendo che “In queste ore una minoranza estrema e violenta sta cercando di trascinare il Paese nella divisione”, e “Non c’è niente che i nostri nemici desiderino di più, che la divisione interna e l’odio gratuito ci fermassero poco prima della vittoria”. Ma potrebbe comunque aver in parte risposto alle loro richieste, come quella di un cambiamento nella gestione del conflitto e maggiore attenzione al rilascio degli ostaggi.

Certo, tutta questa operazione potrebbe anche nascondere un’altra motivazione. Ovvero il fatto che Israele si stia in realtà preparando a un conflitto con l’Iran. Dopo aver attaccato e distrutto il palazzo dell’ambasciata iraniana a Damasco, in Siria, si sono moltiplicati gli allarmi che prevedono una violenta reazione da parte del governo iraniano. Secondo l’intelligence americana, fra l’altro, sarebbe probabile veder succedere questo attacco entro la fine del Ramadan, cioè entro oggi. 

Netanyahu ha detto domenica che “Israele è pronto, in difesa e in attacco, a qualsiasi tentativo di colpirci, da qualsiasi luogo”. E pare che anche l’esercito degli Stati Uniti si stia preparando attivamente a un attacco “significativo” da parte dell’Iran su obiettivi israeliani – ma anche americani – nella regione. 

Torno a leggere sul Fatto Quotidiano che “Per gli alti funzionari americani, la rappresaglia di Teheran è ormai “inevitabile“. Un’opinione condivisa dalla controparte israeliana – che da giorni si prepara al peggio, richiamando i riservisti e chiudendo diverse ambasciate nel mondo, come a Roma”. 

Ora, sapendo che l’informazione sulla questione è abbastanza polarizzata, mi sono fatto un salto su Al Jazeera, che pure è piuttosto schierata sulla questione israelo-palestinese ma in modo diverso, per avere un altro punto di vista. E mi sono imbattuto in un lunghissimo articolo a firma di Aron Lund, che descrive la posizione dell’Iran, e che provo a riassumervi.

Un attacco come quello di lunedì è diverso dai precedenti condotti dalle forze armate israeliane in Siria, perché ha colpito una struttura diplomatica, sfidando direttamente la sovranità dell’Iran e uccidendo alcuni leader delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche.

Come reagirà l’Iran?, si chiede il giornalista. La risposta è abbastanza complessa perché non c’è una reazione che convenga realmente all’Iran adesso. Secondo l’analisi, il governo di Teheran non ha nessun interesse a intraprendere un conflitto diretto con Israele né tantomeno con gli Usa, e preferirebbe mantenere quella sorta di guerra per procura, fatta attraverso gruppi armati come gli Houthi dello Yemen, Hamas della Palestina, Hezbollah del Libano, e fazioni di milizie sciite come Kataib Hezbollah in Iraq, oltre al governo di Bashar al-Assad in Siria. 

Attualmente, però, il Leader Supremo Ali Khamenei ha detto pubblicamente di voler vendicare l’attacco all’ambasciata e da qui il dilemma: non rispondere direttamente, limitandosi ad alimentare azioni indirette, come fatto finora, ma perdendo un po’ la faccia, oppure rispondere in maniera diretta e violenta, con il rischio di scatenare una guerra regionale in un momento già bollente e con la posta in gioco già molto alta?

Secondo il giornalista di Al Jazeera, è probabile, che il governo iraniano si accontenterà di un’altra risposta poco convincente o di un insieme di risposte, cercando di colmare le lacune troppo visibili nella sua postura di deterrenza con una retorica infuocata. Insomma, che farà la voce grossa, ma pochi fatti.

A me però sorge anche un’altra domanda. Israele si accontenterà? E cosa faranno gli Usa? Perché un’azione come la distruzione dell’ambasciata è una azione per la quale non vedo altra spiegazione se non un allargamento del conflitto. E se il governo di Israele vuole allargare il conflitto, non è detto che la cosa finisca qui. 

Un altro scenario che sta preoccupando i media occidentali è quello attorno alla centrale nucleare di Zaporizhzhia. Ieri tre droni esplosivi hanno colpito l’edificio di contenimento di uno dei sei reattori, facendo alzare l’allarme collettivo.

Come al solito, ci sono state accuse reciproche fra Governo ucraino e russo su chi sia stato a colpire la centrale, che è la centrale nucleare più grande d’Europa e fra le 10 maggiori al mondo, e sorge nell’omonima regione ucraina attualmente controllata dall’esercito russo. 

Il suo perimetro ha già subito diversi bombardamenti anche se nessun attacco ha mai causato fin qui fughe radioattive. Ma ieri l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), ha sottolineato come questi attacchi aumentino significativamente il rischio di gravi incidenti nucleari. I sei reattori della centrale sono spenti da settembre, grazie alle pressioni dell’Aiea sulla Russia per garantire la sicurezza dell’area, ma se il sito venisse attaccato c’è ancora il rischio di incidenti nucleari di proporzioni enormi.

Ma quindi, chi è stato? Il Guardian riporta entrambe le versioni dichiarando, in maniera molto deontologicamente corretta, di non essere riuscito a verificare indipendentemente le due versioni. La versione russa è che sia stato l’esercito ucraino ad attaccare, mentre i servizi segreti di Kiev affermano di essere estranei ai fatti e che da tempo la Russia mette in scena false operazioni militari per far ricadere la colpa sull’Ucraina, colpendo le proprie stesse posizioni. Di nuovo: impossibile stabilire chi è stato. 

Altre due notizie molto riprese dai giornali relative alla situazione in Ucraina sono un fantomatico piano di Donald Trump per risolvere il conflitto in 24 ore e l’appello del premier ucraino Zelensky per avere più aiuti, appello che suona un po’ come una mezza resa.

Sul piano di Trump, annunciato dall’ex Presidente in un’intervista in cui ha letteralmente detto “potrei risolvere il conflitto in Ucraina in 24 ore”, pensavo sinceramente che fosse una boutade trumpiana. E invece pare che Trump stia già lavorando a una specie di piano di pace, che consisterebbe sostanzialmente nel fare pressioni sul governo di Kiev, ad esempio bloccando gli aiuti militari, affinché sia disposto a negoziare e ceda a Putin la Crimea e il Donbass. Ora, al di là del piano in sé, di cui si può parlare, personalmente non mi fido di Trump, perché è matto. 

Lato ucraino, invece, Zelensky ha lamentato di nuovo tre problemi, seri. Il primo: servono altri soldati, la media di quelli impegnati è sui 40 anni. Il secondo: i raid russi condotti con le bombe plananti creano danni enormi, spazzano via ogni cosa malgrado non sia troppo precise; è un martellamento continuo, attuato con migliaia di ordigni lanciati da caccia. Il terzo: le scorte dell’artiglieria sono insufficienti, i reparti devono selezionare la risposta e questo favorisce gli occupanti.

Insomma, l’esercito ucraino non sembra riuscire più a tenere piede all’avanzata russa, e immagino che con o senza Trump, a un certo punto sarà inevitabile dover decidere fra cedere a compromessi con Putin (il che vuol dire sedersi a un tavolo e cedere parte del territorio) oppure alzare l’asticella del conflitto e prevedere un impegno diretto da parte di truppe Nato. Con esiti imprevedibili. 

È pur vero che in tutto ciò, anche fare concessioni troppo generose a Putin potrebbe innescare una dinamica simile a quella della seconda guerra mondiale, in cui la paura di un’estensione del conflitto fece sì che la Germania nazista potesse attaccare piuttosto impunemente diverse nazioni vicine.

Insomma, anche la Pace va costruita e pensata bene, con la testa, e con meccanismi precisi. 

In tutto ciò, le tensioni crescenti con la Russia hanno fatto, forse, passare in secondo piano un episodio che non c’entra con il conflitto in Ucraina ma che ha scosso la Russia negli ultimi giorni. 

In pratica l’aumento dell’acqua dei fiumi che nascono negli Urali, dovuta al rapido scioglimento delle nevi per via dell’ondata di caldo record di cui parlavamo pochi giorni fa, sta causando una serie di allagamenti. Addirittura in un caso è crollata una enorme diga vicino al confine con il Kazakistan, e una intera città, Orsk, è stata allagata. 

Riporta il Guardian che più di 10.400 case sono state allagate in 39 regioni diverse del Paese. Il governo russo ha dichiarato domenica un’emergenza federale sulle aree colpite dalle inondazioni. Questo giusto per dire che mentre noi giochiamo a fare la guerra, la crisi climatica continua a battere colpi possenti.

E come diceva qualche giorno fa il climatologo Luca Mercalli a Che tempo che Fa, potremmo risolvere la guerra in 10 minuti, se ci mettessimo d’accordo. Ma lo stesso non vale per il clima. Quindi, ecco, la faccio facile, ma perché magari non ci concentriamo tutti assieme nel risolvere i problemi veri, invece di sbatterci un sacco per crearne di nuovi? Che ne dite?

Avevo questa notizia nel cassetto da un po’ perché mi sarebbe piaciuto farci una puntata dedicata, ma non voglio lasciar passare troppo tempo. E allora parliamone. Non so se vi è mai capitato, di fronte a guerre e notizie tragiche che magari hanno fatto vacillare in voi la fiducia nel genere umano di guardare speranzosi verso le stelle implorando l’aiuto di qualche specie alinea. 

Tipo “Extraterrestre portami via”, come cantava Eugenio Finardi. Ecco, se vi è capitato, può essere che abbiate sbagliato direzione. Perché il Telegraph, ripreso in Italia da Repubblica, racconta che la nuova frontiera delle indagini governative sugli Ufo, anzi sugli Uap, fenomeni aerei non identificati, si sta spostando verso le profondità marine.

Leggo: “Su questi fatti indagano la Nasa, il Pentagono con la sua unità specifica, la divisione Aaro, e però presto stando a quanto riporta il Telegraph, l’argomento potrebbe spostarsi dal cielo alle profondità marine. La nuova direzione arriva dall’ex direttore del Noaa (National Oceanic and Atmospheric Administration), Timothy Gallaudet, che sposta il focus della ricerca dallo Spazio al mare, e dagli Ufo agli Uso, ovvero gli oggetti sommersi non identificati. 

Gallaudet, ex contrammiraglio della Marina Usa, ha intervistato e raccolto le testimonianze di diversi operatori marittimi, marinai, sommergibilisti in un lavoro di inchiesta lungo diciotto mesi. Gli episodi narrati a Gallaudet, racconta il Telegraph, concordano sulla presenza di veicoli marini e sommersi non identificati, a volte osservati muoversi a grande velocità come nel caso dell’episodio documentato nel 2019 nelle acque a sud di San Diego. In quel caso venne osservato un oggetto muoversi velocemente e poi immergersi in acqua.

In particolare, Gallaudet punta a portare avanti il suo lavoro utilizzando un sottomarino telecomandato per investigare nel dettaglio su una specifica anomalia rilevata sui fondali marini davanti alle coste californiane. Che dire, sono davvero curioso di vedere cosa ne viene fuori.

Genitorialità, cammini nei parchi, santuari animali. Il cambiamento passa, come diciamo spesso, dal costruire relazioni diverse con noi stessi, con chi ci sta attorno (figli in primis), ma anche con le altre specie animali e ancor più in generale con tutti gli ecosistemi. Ecco quindi che in quest’ottica gli articoli di oggi su ICC hanno una particolare coerenza. Ho chiesto come al solito a Daniel di introdurceli.

Audio disponibile nel video / podcast

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