21 Set 2023

Glifosato, l’Europa a un bivio – #796

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La Commissione europea ha proposto il rinnovo per dieci anni dell’autorizzazione all’utilizzo del glifosato negli stati membri, pur con alcune limitazioni. Adesso la parola passa a un gruppo di esperti inviati dai vari stati e poi si andrà al voto. In questi giorni perciò molte associazioni ambientaliste stanno facendo appelli all’opinione pubblica e ai politici per bloccare il rinnovo. Parliamone. Parliamo anche degli emendamenti sulla caccia proposti al decreto asset e del fast fashion della catena Shein, oggetto della nuova puntata di Data Room, sul Corriere.

Torniamo a parlare di glifosato, l’erbicida sul quale da diversi anni va avanti una battaglia per la sua proibizione in quanto considerato probabilmente cancerogeno e dannoso per la salute umana e degli ecosistemi. Ne parliamo perché proprio in questi giorni l’Unione europea deve decidere se rinnovarne il permesso di utilizzo negli stati membri, e quindi sono giorni cruciali da questo punto di vista. Anzi, nello specifico, La Commissione Europea ha proposto agli Stati membri di rinnovare l’autorizzazione al glifosato, che è stata rinnovata l’ultima volta nel 2017 fino al 2022, poi prorogata di un anno e adesso è in scadenza a dicembre 2023.

In particolare il 12 e 13 ottobre ci sarà un incontro degli esperti degli stati membri per discutere la proposta della Commissione, e successivamente si andrà al voto per il rinnovo. Quindi in questi giorni stanno uscendo un gran numero di articoli di aprofondimento e anche di appelli di organizzazioni ambientaliste, su tutte GreenPeace, che chiedono a gran voce di bloccare il procedimento e non rinnovare l’autorizzazione. Ma cerchiamo di capire come stanno le cose. 

Partendo da capire che cos’è il glifosato, cosa sappiamo sulla sua pericolosità e come mai è così usato.

Il glifosato è l’erbicida più diffuso al mondo. È talmente diffuso che molti studi in diversi paesi ne hanno trovato tracce nel 99% dei campioni di urine umane analizzate. È il più diffuso sostanzialmente per tre motivi. Il primo è che funziona bene, per quello a cui serve, nel senso che è un diserbande cosiddetto ad ampio spettro, ovvero è come Attila, dove passa lui non cresce più l’erba tant’è che viene usato anche ad esempio per tenere i binari dei treni puliti da piante e erbe; il secondo è che quando è stato commercializzato dalla Monsanto (anni 70) era uno dei prodotti meno tossici, fra quelli che all’epoca erano in commercio. 

Il terzo è che alcune coltivazioni geneticamente modificate sono in grado di resistergli e quindi la Monsanto, leader mondiale nel campo degli Ogm, lo vendeva assieme alle sue coltivazioni in modo che gli agricoltori che usavano colture ogm potevano distribuirlo a pioggia, eliminando ogni erba infestante o pianta tranne quella resistente che desideravano coltivare. E di conseguenza aumentando la resa per ettaro e riducendo l’impegno per l’agricoltore.

A contribuire alla sua ulteriore diffusione c’è il fatto che nel 2001 è scaduto il brevetto di proprietà della Monsanto quindi adesso moltissime aziende lo producono e lo vendono. 

Ora, veniamo ai suoi effetti sulla salute umana. L’aspetto più discusso e studiato è la sua presunta cancerosità. Quello che sappiamo, e a scanso di equivoci vi cito un articolo riepilogativo pubblicato sul sito della è che “uno studio svolto con il glifosato somministrato ai ratti sembrava, nel 2012, averne dimostrato la cancerogenicità. Successivamente l’articolo è stato ritrattato per problemi di metodo e i dati non sono mai stati replicati in studi di qualità superiore.

Dopo attenta analisi delle prove disponibili, la IARC di Lione ha classificato il glifosato nel gruppo 2A, tra i probabili cancerogeni. Altri organismi come ECHA, EFSA, OMS e FAO hanno espresso giudizi meno netti, ma hanno previsto comunque misure di cautela, come il divieto di utilizzarlo in aeree densamente popolate o la necessità di riesaminare i livelli massimi di residui di questa sostanza che per legge possono essere presenti dentro e sopra gli alimenti.

Altri studi hanno poi collegato il glifosato, sempre con un certo margine di incertezza, ad altri disturbi. Ad esempio il glifosato potrebbe “danneggiare il sistema nervoso ed essere correlato a malattie neurologiche come il morbo di Parkinson, oltre a influire negativamente sul sistema ormonale”. 

Oltre ai possibili/probabili danni per la salute umana, sempre GreenPeace evidenzia come ci siano altrettanti danni per gli ecosistemi. 

Il glifosato infatti, insieme ai suoi prodotti di degradazione, si accumula inoltre nel terreno, danneggiando gli organismi che vivono nel suolo e compromettendo l’assorbimento di micronutrienti utili a difendere le piante dalle malattie. In Italia è una delle principali cause di contaminazione delle acque e interferisce con l’equilibrio ecologico di fiumi e laghi.

E poi – sostiene ancora GreenPeace – non danneggia solo le erbe infestanti, ma tutto l’ambiente circostante, compresa la fauna selvatica: uccelli, anfibi, insetti e lombrichi. Diversi studi avvertono che, alle concentrazioni che spesso si trovano nell’ambiente, questo erbicida può interagire con il microbiota intestinale delle api, rendendole più vulnerabili alle malattie, nonché influire sul loro sistema nervoso e sulla riproduzione.

Insomma. Pur prendendo tutte queste ricerche con i rispettivi margini di errore e di incertezza, possiamo dirci tranquillamente che proprio bene non fa (giudizio espresso in termini altamente scientifici). 

Per questi motivi Alcuni stati già oggi hanno leggi molto restrittive sul suo utilizzo: la Francia si è prefissa di ridurne l’uso per poi eliminarlo completamente nel giro di pochi anni, mentre l’Olanda ne vieta la vendita ai privati per uso casalingo.

Ora, come vi dicevo, la Commissione propone il rinnovo dell’autorizzazione, in scadenza il 15 dicembre, per altri 10 anni. Questa proposta arriva in seguito a una valutazione positiva da parte dell’agenzia Ue per il regolamento degli agenti chimici (Echa) e dell’autorità Ue per la sicurezza alimentare (Efsa). Il regolamento di esecuzione è stato inviato agli Stati membri. La discussione con gli Stati inizierà domani (venerdì) con l’obiettivo di approvare il regolamento in ottobre.

La proposta della Commissione prevede il divieto dell’uso della sostanza per il disseccamento del raccolto, pratica già oggi proibita in alcuni Paesi Ue e non Ue grandi produttori di cereali. Per altri usi in pre-raccolta, starà allo Stato membro decidere se sono in linea con le buone pratiche.

Per ridurre la dispersione della sostanza la Commissione propone fasce tampone nei campi di almeno 5-10 m, fra colture in cui è usata e altre in cui non lo è. Gli Stati membri dovranno inoltre garantire che l’uso di prodotti fitosanitari contenenti glifosato sia ridotto al minimo o vietato in parchi e giardini pubblici.

Come vi dicevo, in questi giorni stanno fioccando i comunicati e le campagne da parte delle organizzazioni ambientaliste. Il punto chiave su cui ruotano queste campagne è il mancato rispetto del principio di precauzione. Ovvero: in casi come questi un dubbio ragionevole sul fatto che una sostanza faccia male dovrebbe essere una ragione sufficiente per vietarla. peraltro come ricordano le associazioni il principio di precauzione è previsto dal regolamento europeo sui pesticidi 1107/2009.

Ora, io capisco che non sia semplice eliminare di colpo il glifosato dalle nostre coltivazioni. Ci vedo due rischi: il primo è quello di vedere sostituire il glifosato con qualche sostanza più nuova, di cui magari ancora non si conoscono gli impatti negativi sulla salute e gli ecosistemi. Il secondo è che ciò non avvenga, ma che ciò, in terreni ormai resi semisterili da l’uso eccessivo della chimica, si traduca in un calo della resa agricola, e quindi anche un aumento dei prezzi.

Questo per dire che proibire il glifosato mi pare una scelta buona e giusta ma per renderla efficace va fatta all’interno di una più ampia strategia di transizione verso l’agricoltura naturale e a basso impatto. Ora, sarei scorretto se dicessi che in Europa questa cosa non sta avvenendo per niente, nel senso che tutta la strategia farm to fork, all’interno del Green deal servirebbe proprio a questo. Probabilmente va rivista in alcuni aspetti, e non mancano le criticità, come la crescente desertificazione e il picco dei fosfati. Comunque, intanto osserviamo come si comporta l’Europa di fronte al glifosato. Che già come scelta, qualche indicazione ce la dà.

Comunque a proposito di suolo, agricoltura e utilizzo di pesticidi e fertilizzanti vi annuncio che la nuova puntata di A tu per tu, scelta dagli abbonati, di settembre parlerà proprio di questo partendo dalla domanda “Pesticidi, qual è la situazione reale? E come fare a mangiare senza avvelenarsi?”

A – non c’entra nulla, ma visto che siamo in tema – è uscita sabato scorso la nuova puntata di INMR+, il podcast di approfondimento mensile che conduco, per abbonati. Tema? Cosa sta succedendo ad Auroville, la comunità intenzionale più famosa al mondo, che rischia di naufragare.

Da un regolamento europeo a una proposta di legge, in Italia, legata al tema della caccia. In pratica alcuni senatori di maggioranza hanno presentato degli emendamenti nell’ambito del Disegno di Legge di conversione del Decreto “Asset”.

Detta così suona un po’ complicata, provo a spiegarvi. Il decreto Asset e investimenti è un decreto nato per intervenire appunto su asset e investimenti statali ma in cui ci va a finire un po’ di tutto. Per intenderci è quello che include le limitazioni per le compagnie aeree low cost.

Al momento questo decreto è al vaglio delle Commissioni ambiente e agricoltura del Senato, dove sono arrivate 500 proposte di emendamento, ovvero proposte di modifica. Alcuni di questi emendamenti hanno sollevato l’attenzione (e anche direi l’indignazione) di molte associazioni ambientaliste italiane perché renderebbero la caccia più libera e fuori controllo:

  • uno di questi faciliterebbe l’utilizzo delle munizioni in piombo, vietate da una normativa europea, che sono altamente tossiche per persone, animali e ambiente. 
  • mentre un altro cancellerebbe ogni forma di controllo della caccia, sia sul piano scientifico, attraverso la cancellazione dell’obbligo di richiedere i pareri ISPRA sui calendari venatori; sia sul piano istituzionale e giudiziario, consentendo alle Regioni di decidere liberamente quali specie animali dichiarare cacciabili e impedendo ai giudici di sospendere la caccia anche in casi di particolare gravità ed urgenza. 

Sono emendamenti che, secondo WWF, LAV, Legambiente, Lipu e altre sigle ambientaliste “puntano a distruggere i pilastri della tutela della salute e della biodiversità”. Leggo ancora dal comunicato: “E’ grave per il Paese e per le istituzioni parlamentari voler sfruttare l’esame di un provvedimento che si occupa di tutt’altro come il Decreto Legge “Asset” per introdurre norme che mettono a rischio la salute pubblica e che aprono alla distruzione della nostra biodiversità. 

E’ altrettanto grave che le istituzioni della Repubblica espongano tutti i cittadini, cacciatori compresi, al rischio di essere avvelenati e si schierino dalla parte di chi vuole violare la legge eliminando le norme che danno fastidio, piuttosto che sostenere l’azione di chi, come le associazioni ambientaliste, garantisce la legalità. 

Altrettanto assurdo che le associazioni venatorie preferiscano continuare ad avvelenare i loro stessi cacciatori e a far contaminare l’ambiente, solo per evitare che i loro associati spendano qualche euro in più per acquistare nuove munizioni atossiche e per far contenta la lobby delle armi che vuole smaltire le vecchie e velenose munizioni al piombo. 

Queste scellerate modifiche – concludono le associazioni – espongono l’Italia a plurime violazioni dei regolamenti e delle direttive europee, con elevatissimo rischio di condanne della Corte di giustizia europea e multe salate da pagare a carico di tutti i cittadini italiani. 

Le associazioni rivolgono quindi un appello al Governo e al Parlamento affinché esprimano parere contrario a tale follia e chiedano il ritiro degli “emendamenti avvelenati”. 

Noi, ovviamente, ci aggiorniamo.

Ultima notizia del giorno, è uscita l’ultima puntata di Dataroom, il format di data journalism curato da Milena Gabbanelli sul Corriere, che stavolta fa i conti in tasca al fast fashion, in particolare a quella che è diventata ormai il simbolo di questa concezione distorta e ambientalmente devastante di moda, Shein.

La premessa di tutto il ragionamento, come spiega l’articolo, è che “Quando una T-shirt viene venduta a 3 euro e un abito a 7 euro vuol dire che c’è un «prezzo» che viene scaricato su qualcun altro.

Partiamo dai costi di produzione: in Italia il costo medio orario nell’industria del tessile e manifatturiero è di 27 euro lordi. In Bulgaria di 5,4 euro, Romania 6,9 in Lituania 9. In Cina e Vietnam rispettivamente dai 4 ai 3 dollari. Per arrivare ai 2 dollari al giorno in Madagascar e Myanmar. Quasi tutti i grandi marchi da anni hanno delocalizzato una parte della produzione in questi Paesi, inclusi quelli del lusso, che si rivolgono a una clientela benestante. E li abbiamo più volte stigmatizzati, perché hanno sacrificato le aziende manifatturiere locali solo per avidità.

Fatta questa doverosa premessa, parliamo della moda usa e getta: l’azienda che si è accaparrata il 50% del mercato globale del fast fashion si chiama Shein.

Qui l’articolo descrive la nascita e la crescita vertiginosa della catena cinese, raccontando anche la sua strategia di marketing che ha come target i giovani e giovanissimi/e e fa un uso massiccio di influencer. Riuscendo a ottenere il risultato, paradossale, che “la cosiddetta Gen-Z, la generazione più sensibile ai temi legati alla sostenibilità ambientale e ai diritti dei lavoratori è anche la maggiore cliente di questo marchio che di trasparente non ha nulla: dalla struttura della società all’origine dei prodotti”.

L’articolo poi racconta il processo produttivo di Shein, a partire dallo sfruttamento della manodopera della minoranza degli Uiguri, in Cina, con lavoratori sono costretti a turni di lavoro di 17 ore al giorno, con un solo giorno libero al mese, e condizioni igieniche disumane, per produrre 500 capi al giorno con una paga è di 4 centesimi a capo. 

Inoltre si calcola che per realizzare una singola T-shirt di cotone sono necessari in media 2.700 litri d’acqua, un utilizzo massiccio di fertilizzanti chimici e diserbanti l’uso di coloranti azoici, largamente usati perché hanno colori brillanti e poco costosi, che possono però rilasciare ammine aromatiche potenzialmente cancerogene. Per questo il loro uso in Europa è vietato dal 2002. Ma Shein non produce in Europa. 

Molti suoi prodotti sono sintetici e il tessuto brillante è spesso il risultato di sostanze chimiche tossiche come piombo e pfas e, quando finiscono nell’ambiente, danneggiano interi ecosistemi e possono essere assorbiti dalla pelle. Un rapporto di Bloomberg ha evidenziato che i prodotti Shein contengono il 95,2% di microplastiche.

Verso la fine l’articolo allarga il discorso a dati più generali: “La Ellen MacArthur Foundation, uno dei più grandi enti internazionali che operano nel settore dell’economia circolare e della sostenibilità, ha provato a misurare la quantità di indumenti buttati: ogni secondo un camion carico di tessuti viene smaltito in una discarica o incenerito. Ogni anno, a livello globale, vengono generati 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili, di cui solo il 15% viene riciclato. 

È il naturale destino dei prodotti fast fashion a prezzi stracciati: bassa qualità, bassa durata, e rapidamente scartati. Più veloce è il ciclo di consumo, più pesante l’impatto ambientale. La moda, in generale, è responsabile del 10% delle emissioni globali di carbonio. E l’intera filiera di produzione del fast fashion, che va dalla coltivazione delle materie prime alla lavorazione, produzione, trasporto, vendita al dettaglio e allo smaltimento, è intensiva in termini di energia e risorse.

Ovviamente non è tutta colpa di Shein. Anche le produzioni massive di altri marchi fast fashion ben noti come Zara, H&M, Bershka e Pull and Bear generano enormi quantità di rifiuti tessili. 

Infine l’articolo cita le nuove norme europee del fast fashion, di cui abbiamo già parlato in passato ma che è utile ricapitolare. Si basano su 3 pilastri:

1) design ecologico: i tessuti dovranno rispettare standard più elevati in termini di sostenibilità;

2) informazioni chiare: i consumatori avranno accesso a dettagli sull’origine e la sostenibilità dei prodotti attraverso un «passaporto digitale»;

3) impegno aziendale: si esortano le aziende a ridurre la loro impronta di CO2 e a prendere decisioni rispettose dell’ambiente, e dei diritti dei lavoratori.

Ovvio che le regole europee agiscono sulle aziende europee. Noi però possiamo scegliere cosa comprare e cosa non comprare. E anche quando e quanto comprare. Su ICC abbiamo decine e decine di spunti per ridurre il proprio impatto legato al vestiario. Il consiglio generale, comunque, è comprare poco e di buona qualità.

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