1 Set 2023

Il greenwashing delle grandi del petrolio europee – #782

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Molte compagnie petrolifere sostengono di stare invertendo la propria produzione e di passare alle rinnovabili. Ma quanto c’è di vero in questi proclami? Ben poco, secondo la denuncia di Greenpeace sulle compagnie europee (fra cui ENI). Intanto un nuovo colpo di stato scuote il continente africano. Questa volta avviene in Gabon, ma le sue caratteristiche sono piuttosto diverse da quelli che abbiamo commentato di recente. Intanto il governo francese decide di mandare al macero milioni di bottiglie di vino pur di salvare il settore. Parliamo anche della tragedia ferroviaria in Piemonte e dell’ultimo attacco della giunta sarda alle coste, che prova nuovamente a certificare.

Parliamo di come i colossi del petrolio stiano provando grossolanamente a rifarsi l’immagine con le rinnovabili, ma come questa cosa non stia proprio funzionando. A smascherare il greenwashing di quella che viene chiamata la sporca dozzina ci pensa ancora una volta GreenPeace, con un report chiamato appunto “La sporca dozzina” – citando un celebre film – “Il greenwashing climatico di 12 compagnie petrolifere”. 

Il greenwashing in questione è quello relativo a dodici colossi del petrolio europei, fra cui ci sono alcune delle compagnie più grandi al mondo, fra cui Eni, Shell, BP e TotalEnergies. Dal rapporto emerge che nonostante i tentativi di greenwashing, nel 2022 solo lo 0,3% della produzione energetica totale delle dodici principali compagnie petrolifere europee proveniva da fonti rinnovabili.

Il rapporto analizza gli investimenti e le politiche energetiche delle dodici maggiori aziende petrolifere europee. Nonostante nel 2022 i profitti di queste aziende siano cresciuti in media del 75%, gli investimenti sono aumentati solo del 37%. Inoltre, appena un misero 7,3% degli investimenti è stato destinato alla produzione di energia sostenibile e a basse emissioni di carbonio, mentre il restante 92,7% è servito per alimentare il solito settore del petrolio e del gas fossile.

“Sebbene la crisi climatica sia sempre più grave – scrive Greenpeace – l’industria dei combustibili fossili continua ad aggrapparsi a un modello di business distruttivo. I piani di decarbonizzazione delle aziende fossili, oltre a essere inadeguati, si rivelano solo parole vuote: invece di investire davvero nell’energia rinnovabile di cui abbiamo bisogno, ci inondano di pubblicità ingannevoli infarcite di greenwashing. Continuare a investire in gas e petrolio è un crimine contro il clima e le generazioni future. I governi hanno la responsabilità di guidare la transizione energetica, incentivando le fonti rinnovabili e pianificando un rapido abbandono dei combustibili fossili”.

Nella puntata di ieri abbiamo accennato allo scandalo Pfas in Veneto, circa dieci anni fa. Oggi su Italia che cambia pubblichiamo un articolo di Susanna Piccin che raconta e fa luce su quella tragica vicenda. Ecco qualche estratto:

“Migliaia di persone hanno vissuto senza amore. Non uno senz’acqua”. Questa bellissima citazione del poeta Wystan Hugh Auden l’ha pronunciata pochi giorni fa il professor Andrea Rinaldo dell’Università di Padova nella Sala d’oro della city Hall di Stoccolma mentre riceveva il “Nobel dell’acqua”. È la prima volta che lo Stockholm Water Prize viene assegnato a un italiano.

La notizia non ha ricevuto grande spazio nell’agenda setting dei giornali, ma le istituzioni locali venete l’hanno giustamente valorizzata dimostrando orgoglio. Che cosa strana pensare che sono proprio le stesse istituzioni che hanno appena ricevuto un esposto in procura a carico loro per aver bloccato uno studio epidemiologico sui PFAS. E che cosa strana pensare che il Veneto è la Regione dove, per cinquant’anni, è avvenuto il più grande inquinamento idrico d’Europa, come lo ha definito il CNR.

Non sono brava con i riassunti, ma provo a sintetizzare ciò che è avvenuto in provincia di Vicenza negli anni ’60: la fabbrica Miteni, con sede a Trissino (VI), produce composti chimici sintetici quasi indistruttibili – i PFAS appunto –, sviluppati per resistere all’acqua e al calore. Hanno proprietà antiadesive e impermeabili e vengono tutt’ora usati nell’industria in moltissimi settori: prodotti in teflon, imballaggi alimentari, tessili, Gore-tex, automobili, persino nel filo interdentale. Miteni riversa le scorie chimiche della sua produzione in quella che è la seconda falda acquifera più grande d’Europa, che scorre esattamente sotto la sua sede.

Quando lo scandalo scoppia, la portata del disastro è enorme: almeno 700 chilometri quadrati di territorio compromessi, 350mila cittadini coinvolti. Viene istituito lo stato di emergenza, vengono divise zone rosse e arancioni e trovati livelli di PFAS nel sangue dei cittadini, dai bambini agli anziani, mai visti prima di allora. Tassi di mortalità elevati per tutte le malattie correlate a queste sostanze tossiche che penetrano nel sangue e nei tessuti e lì si accumulano per anni diventando una bomba a orologeria”.

L’articolo però non è solo di denuncia, tutt’altro: racconta anche un programma molto bello che si sta diffondendo nelle scuole, creato dal movimento no Pfas, che sta diffondendo cultira di prevenzione e cambiamento:

Nel febbraio 2018, durante l’assemblea generale, il movimento NO PFAS ha decretato la nascita del Gruppo educativo/culturale che aveva il compito di relazionarsi con il mondo scolastico per dare ai giovani gli strumenti culturali e morali per far fronte alle grandi problematiche del territorio inquinato in cui vivono. In cinque anni i volontari del progetto hanno raggiunto 32 scuole secondarie di primo e secondo grado di 5 province del Veneto – con richiami negli anni da parte di 11 istituti che hanno voluto riprogettare percorsi sui PFAS –, incontrando quasi 7000 studenti e 1000 adulti fra insegnanti e genitori.

Al di là dei numeri, sono il contenuto e il metodo didattico, affinati col tempo, a colpirmi nel racconto della professoressa Albiero: un percorso che richiede la collaborazione dei docenti – imprescindibili, come sempre – e che dura mesi. Non è la solita lezione frontale a 300 studenti riuniti in aula magna, ma un percorso che ricerca la relazione con i ragazzi e che coinvolge due classi per volta, una quarantina di ragazzi circa. Inizialmente un test online sonda le conoscenze degli studenti sull’argomento, ma anche i loro bisogni e le loro aspettative riguardo al progetto.

Da quello che emerge il programma viene modulato in base alla classe e vengono poi consegnate delle schede che richiedono ai ragazzi di fare, nell’arco di un mese, delle ricerche scientifiche su alcuni argomenti. C’è poi l’incontro dal vivo con gli esperti, cioè medici ISDE – Associazione Medici per l’Ambiente, esperti Arpav, consulenti dei tribunali, geologi, professori dell’Università e altri ancora.

E da qui, la magia: dopo aver fornito solo dati scientifici incontrovertibili, quello che il progetto fa è stimolare i ragazzi a essere cittadini attivi, chiedendo loro di proporre e fare iniziative per diffondere quello che hanno appena appreso. Leggo nella descrizione del progetto: “Uno dei nostri obiettivi è innescare negli studenti un processo di autocoscienza e di consapevolezza, necessario alla crescita dell’autonomia intellettuale (il nostro obiettivo è conoscere per capire e agire). Solo quest’ultima dà loro strumenti critici per confrontarsi con una concezione di vita distruttiva per l’uomo e per l’ambiente, oggi dominante, subordinata al solo profitto e al mercato, espressa dal cosiddetto pensiero unico”.

E i ragazzi stupiscono per creatività, proponendo e realizzando filmati divulgativi, lezioni tra pari, giochi per informare, indagini tra la gente al di fuori della scuola, domande ai candidati sindaci, giornalini e petizioni. Trovate tutto qui, in questo articolo-resoconto della professor Albiero nel blog sito del movimento NO PFAS”.

Qualche giorno fa commentavamo della crescente instabilità del continente africano, agitato da tensioni interne e spinte esterne. Ecco. Mercoledì c’è stato un nuovo colpo di stato, questa volta in Gabon. L’esercito del paese ha deposto il presidente Ali Bongo Ondimba e successivamente ha annunciato di aver nominato il generale Brice Oligui Nguema come nuovo leader di un governo di transizione per il paese. 

Poco prima i sostenitori di Nguema lo avevano festeggiato in strada, in una grossa manifestazione a favore dei golpisti. Il presidente Bongo, nel frattempo, ha pubblicato online un video in cui ha chiesto ai suoi «amici in tutto il mondo» di «fare rumore» per sostenerlo.

Sebbene quello in Gabon sia l’ultimo di una lunga serie di colpi di stato africani (dal 2020 sono stati rovesciati da militari 6 governi, oltre al Gabon ci sono Burkina Faso, Mali, Guinea, Ciad e Niger e tanti altri sono stati tentati) secondo il Post questo è un colpo di stato “piuttosto diverso dagli altri degli ultimi anni”.

Leggo: “All’apparenza, in Gabon ci sono molti elementi di continuità con gli altri colpi di stato avvenuti finora in Africa, a partire dal fatto che anche il Gabon, come tutti gli altri paesi coinvolti, è un’ex colonia francese (diventata indipendente nel 1960) che ha mantenuto strettissimi legami con la Francia e che ospita un piccolo contingente di truppe francesi (circa 400 soldati)”.

“Qui però cominciano le differenze. Anzitutto la posizione geografica: se i golpe si erano concentrati finora negli stati del Sahel (la fascia che si trova nella parte sud del deserto del Sahara), il Gabon si trova invece più di mille chilometri più a sud, in un’area geograficamente e culturalmente molto diversa”.

E sebbene il Sahel sia un’area enorme ed eccezionalmente complessa, i colpi di stato avvenuti nella zona hanno alcuni elementi in comune. Per esempio (e con molte semplificazioni), tutti i paesi sono stati colpiti negli ultimi anni da una violenta insurrezione di gruppi jihadisti, alcuni dei quali affiliati ad al Qaida e allo Stato Islamico. Per aiutare i governi locali a contrastare l’insurrezione, la Francia aveva inviato nel Sahel migliaia di soldati in lunghe e complicate missioni militari, che nel tempo avevano suscitato un forte sentimento antifrancese, soprattutto tra i ranghi dell’esercito.

In Gabon questi elementi non ci sono. Il paese non è interessato da insurrezioni jihadiste e il colpo di stato non sembra particolarmente motivato da sentimenti antifrancesi. Al momento i militari che hanno preso il potere in Gabon non sembrano interessati a cancellare gli accordi economici e di difesa stretti con la Francia, come avvenuto per esempio in Niger e in altri paesi del Sahel.

Dalle informazioni a disposizione, la causa del colpo di stato in Gabon sembra soprattutto la stanchezza nei confronti di Ali Bongo, che governa il paese in maniera dittatoriale dal 2009. Prima di lui il paese era stato governato da suo padre, il presidente Omar Bongo, che aveva preso il potere nel 1967: la famiglia Bongo governa il Gabon da 56 anni.

Ali Bongo, in particolare, aveva subìto un ictus nel 2018 ed era ritenuto da molti inadatto a governare il paese. Secondo le prime analisi, la sua insistenza a candidarsi per un terzo mandato alle elezioni dello scorso fine settimana è stata uno dei fattori che hanno provocato la rivolta dell’esercito: dopo che per l’ennesima volta Ali Bongo aveva dichiarato di aver vinto i due terzi dei voti in elezioni in tutta evidenza truccate, l’esercito è intervenuto. Questo non significa ovviamente che l’esercito del Gabon debba essere considerato una forza democratica, ma che il colpo di stato ha motivazioni soprattutto legate agli scontri di potere interni.

Anche per questo, la reazione della Francia è stata molto differente rispetto per esempio al recente colpo di stato in Niger.

Come ha raccontato Le Monde, mentre la Francia ha attaccato con durezza la giunta golpista del Niger, finora ha mantenuto una certa neutralità con il Gabon: ha chiesto un «ritorno all’ordine costituzionale» ma non ha chiesto, come era invece avvenuto in Niger, il ritorno al potere del presidente Ali Bongo. Al momento la Francia non ha annunciato la sospensione degli aiuti per la cooperazione e lo sviluppo in Gabon, come invece era successo in Niger subito dopo il colpo di stato.

Continuiamo a parlare di Francia ma con una notizia molto diversa. Ce la racconta Rebecca Manzi su GreenMe. In pratica la produzione di vino francese ha superato quest’anno di molto la domanda del mercato e questo ha convinto il governo, per evitare un crollo dei prezzi e una crisi del settore, a riacquistarne un bel po’ per arginare il crollo del prezzo e per liberare le cantine dei produttori, per poi praticamente gettarlo al macero. 

Che non è proprio vero, nel senso che non viene tecnicamente buttato ma viene distillato per realizzare alcol per usi non alimentari, ma se consideriamo che il vino ha poco più del 10% di alcol, si capisce che buona parte del prodotto finisce al macero.

La procedura utilizzata si chiama distillazione d’emergenza, e fa persino parte di un programma speciale dell’Ue, che finanzia questa cosa per buona parte, e non solo in Francia. La Francia ha attinto la cifra maggiore dal programma, 160 milioni di euro (+ altri 40 messi dal governo, per un totale di 200 complessivi della misura) ma anche altri governi hanno fatto richiesta o la stanno valutando, Italia compresa. 

Ora, ci sono vari aspetti interessanti in questa notizia. Innanzitutto, perché succede? Leggo: “Questo fenomeno è causato da diversi motivi, tra cui i cambiamenti nelle preferenze dei consumatori, l’aumento dei prezzi e la diminuzione della richiesta con un aumento di contro del consumo di birra artigianale”. unito anche a un’annata particolarmente florida per il vino. 

Assurdità del mercato, un anno in cui i raccolti sono abbondanti diventa una maledizione per i produttori, che preferiscono gettare al macero il vino per diminuire la discrepanza fra domanda e offerta. Senza considerare il fatto che il frutto di una coltura spesso molto impattante e monoculturale come il vigneto viene sprecato così.

Questo avviene perché nel sistema attuale è la domanda a guidare l’offerta, e non il contrario. Fino a qualche decennio fa la maggior parte delle persone mangiava a seconda dell’offerta (quindi l’offerta determinava la domanda), ovvero mangiava (o beveva) quello che c’era a disposizione. Ringraziando il cielo se c’era abbondanza di qualsiasi cosa. Nell’epoca del sovraconsumo e dello spreco alimentare, il mercato è guidato in ogni suo aspeytto dalla domanda e quindi si mangia quello che ci va, in qualsiasi momento dell’anno. poco importa se fuori stagione, ecc. E la offerta si deve adeguare. Con però queste asurdità.

Che poi, questa misura è solo l’ultima di una serie che il governo francese sta tentando per arginare la crisi del settore. Per affrontare questa situazione, il ministero dell’Agricoltura Marc Fesneau aveva già annunciato a giugno un finanziamento di 57 milioni di euro per l’abbattimento di circa 9.500 ettari di vigneti nella regione di Bordeaux. Inoltre altri fondi pubblici sono a disposizione per incoraggiare i viticoltori a cambiare tipo di coltivazione, ad esempio passando alla coltivazione di olive.

Sull’abbattimento dei vigneti, al momento sospendo il giudizio, vorrei approfondire la questione, per capirla meglio. Per capire cosa ha immaginato il governo al loro posto, se ha immaginato qualcosa.

Chiudo dandovi qualche numero. Solo l’eccedenza di vino francese di quest’anno è di 3 milioni di ettolitri di vino, paragonabili a circa 400 milioni di bottiglie. 400 milioni di bottiglie. 

Molti giornali di oggi titolano con la tragedia ferroviaria avvenuta. C’è stato infatti un tragico incidente questa notte sulla linea ferroviaria che da Torino collega Milano alla stazione di Brandizzo. Pochi minuti prima di mezzanotte la motrice di un convoglio regionale ha travolto alcuni operai che si trovavano al lavoro lungo la massicciata. Cinque di loro sono morti . Altri due operai, che lavoravano a poca distanza dal punto dell’investimento, sono rimasti illesi e non feriti come era sembrato in un primo momento. 

In motli si chiedono come sia stata possibile una cosa del genere e la procura di Ivrea, competente per territorio, ha aperto un’inchiesta per disastro ferroviario colposo e omicidio colposo plurimo. 

Nelle ore successive all’incidente sono arrivate alcune informazioni in più. Come ha precisato Rfi, gli operai, addetti alla manutenzione ferroviaria, lavoravano per conto di una ditta appaltatrice esterna, la Sigifer, ditta che si occupa di manutenzione ferroviaria, ma aveva la certificazione di sicurezza scaduta il mese scorso. Anche se non so quanto questo possa avere influito, onestamente. 

Il treno che ha ucciso gli operai era vuoto e non in servizio commerciale ed è passato, pare, a una velocità di 100km/h. Inizialmente si era detto 160, ma il dato è stato presto rivisto. 

“Ma come è potuto avvenire un incidente così grave? Perché il treno viaggiava a 100 km/h? Si chiedono i giornalisti del Corriere della Sera. “ L’inchiesta della Polfer e della Procura di Ivrea dovrà chiarire questi aspetti. I primi accertamenti punteranno all’esame dei documenti e dei fonogrammi, quei messaggi trasmessi via telefono e trascritti su moduli cartacei, secondo opportune regole per permettere la verifica successiva. Qualcosa potranno dire le immagini delle telecamere: l’area del binario 1 (dove è avvenuto l’impatto) è sotto l’occhio della videosorveglianza i cui filmati verranno analizzati. Sul luogo del disastro sono interventi anche carabinieri, vigili del fuoco e uomini dello Spresal dell’Asl.

Comunque, dai primi accertamenti della Polfer, il passaggio dei vagoni, impegnati in uno spostamento logistico, era previsto e autorizzato. Solitamente, quando si devono eseguire lavori sulla linea, questa viene «interrotta» con un provvedimento scritto di «nulla osta». Le indagini dovranno dunque chiarire che cosa non ha funzionato nella comunicazione tra l’impresa impegnata nei lavori stessi e Rfi.

Questo è quello che sappiamo finora. Oltre al cordoglio delle vittime, molti giornali si soffermano con interviste e ricostruzioni sull’identità e la storia dei cinque operai uccisi. Personalmente e come ICC preferiamo sorvolare su questi dettagli, non perché siano irrilevanti, ma per rispetto delle vittime e dei loro cari.

In chiusura spostiamoci in Sardegna, dove una serie di articoli, uno del manifesto, un altro del Fatto Quotidiano denunciano il piano cementificatore della giunta uscente. Scrive Manlio Lilli: “Il bersaglio grande della giunta di centrodestra guidata da Christian Solinas è il Piano paesaggistico regionale. 

L’assessore all’Urbanistica Aldo Salaris, come ha scritto il Manifesto, ha inviato al ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano una richiesta di modifica della normativa che protegge la costa tra le più belle del mondo perché – dice Salaris – “la Sardegna ha bisogno di una nuova pianificazione del territorio“. 

Il ministero valuterà la bozza partita da Cagliari e risponderà a fine settembre. Nell’attesa, però, la Regione non ha perso tempo e ha già iniziato la sua battaglia sotterranea all’arrembaggio dei litorali. 

In un emendamento alla manovra finanziaria regionale – presentato dallo stesso assessore Salaris – è uscito fuori anche un faraonico regalo agli alberghi di lusso: si prevedono incrementi volumetrici delle strutture ricettive situate nelle zone F, anche nella fascia dei trecento metri dalla battigia. Questo significa che i nuovi alberghi a cinque stelle potrebbero ottenere un incremento volumetrico del 25 per cento, mentre per quelli già esistenti sarà del 15 per cento, ma senza aumento dei posti letto. 

Al momento il testo è stato approvato in commissione a maggioranza e con il voto contrario delle opposizioni e quindi approderà in consiglio regionale. Le due strade – le modifiche al piano paesaggistico e l’emendamento per cementificare – vanno insieme perché la Corte costituzionale ha sempre respinto le riforme urbanistiche rimandando proprio al Piano paesaggistico, che resiste – nonostante i tentativi finora andati a vuoto – dal 2006.

Insomma, sembra che Solinas ci voglia riprovare sferrando questo attacco doppio. La sua legge precedente era stata fatta a pezzetti nel 2022 e praticamente respinta quasi in toto dalla Corte Costituzionale. Molte associazioni per fortuna si stanno mobilitando per fermare questo nuovo attacco, che potrebbe aprire la strada a nuovi ecomostri in riva al mare.

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