7 Mar 2023

Ucraina: cos’è la “soluzione coreana”? – #683

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Torniamo a parlare del conflitto in Ucraina, con la possibile presa di Bakhmut da parte dell’esercito russo e la ventilata soluzione coreana. Parliamo anche di incendi, di quello tragico che ha coinvolto un campo profughi rohingya, in Bangladesh, e il report sulle emissioni legate agli incendi nel mondo nel 2021, e infine dell’impatto ambientale della filiera del collagene.

Molti giornali raccontano negli ultimi giorni un fronte specifico della battaglia in Ucraina, ovvero quello che ruota attorno alla cittadina di Bakhmut. Bakhmut è una cittadina dell’Ucraina orientale su cui da mesi si concentrano gli sforzi militari della Russia. Al momento è circondata su tre lati e negli ultimi giorni si è cominciato a parlare per la prima volta della possibilità che l’esercito ucraino si ritiri dalla città. 

Secondo l’Institute for the Study of War (ISW), citato dal Post, “è probabile che l’esercito ucraino decida di mettere in atto una «ritirata in combattimento», cioè che decida di arretrare lentamente cercando di infliggere più perdite possibili ai russi. L’assalto dell’esercito russo contro Bakhmut è compiuto soprattutto da reclute inesperte, e secondo la maggior parte delle analisi militari le perdite affrontate per conquistare la città sono molto più alte dalla parte dei russi”.

Tattiche e dettaglia parte, come mai questa cittadina è ritenuta così importante? Ha una qualche valenza strategica? Sì e no. O meglio, più simbolica che strategica. Vi leggo qualcosina dall’articolo del Post e qualcos’altro da un articolo di Pierre Haski su France Inter, tradotto su Internazionale.

Scrive il Post: “Oltre che militarmente azzardata, un’eventuale conquista russa di Bakhmut sarebbe anche strategicamente poco rilevante. La cittadina si trova sulla strada che porta alle più importanti città ucraine di Sloviansk e Kramatorsk, e dunque è un passaggio obbligato se l’esercito russo vuole avanzare, ma non ha particolare valore strategico.

“Inoltre, come ha detto al New York Times un analista militare, «la realtà è che se i russi infine conquistano Bakhmut stanno conquistando delle rovine. È una cittadina con un’importanza strategica minima, e senza infrastrutture ancora in piedi capaci di sostenere una forza di occupazione. Che i russi abbiano investito così tanto per conquistarla dice molto della loro scarsa strategia in guerra». Nonostante questo, la conquista di Bakhmut potrebbe essere per la Russia la prima vittoria in mesi di guerra, e avrebbe probabilmente un grosso valore simbolico”.

Abbastanza allineata anche l’analisi di Pierre Haski, che afferma: “In una guerra destinata a durare, come lo è quella in Ucraina, spesso alcune battaglie assumono una dimensione che va oltre la loro reale importanza. Ne è un esempio lo scontro in corso a Bakhmut, una città oggi in rovina situata nell’est dell’Ucraina.

La conquista di Bakhmut, annunciata come imminente dai russi insieme al possibile ritiro degli ucraini, ha ormai un carattere simbolico più che strategico. Il prezzo per la vittoria, così come quello pagato dagli ucraini per difenderla a ogni costo, è enorme. Eppure al momento nessuno può dire quale sarà l’impatto reale della battaglia sul proseguimento della guerra”.

Più avanti Haski si chiede: “Perché Bakhmut è diventata così importante? Per capirlo bisogna tenere presente che in questo momento sono in corso due guerre. La prima oppone i difensori ucraini agli invasori russi, mentre la seconda è interna al fronte russo: da una parte abbiamo i soldati della compagnia militare privata Wagner e il loro capo Evgenij Prigožin, dall’altra l’esercito regolare guidato dal capo dello stato maggiore Valerij Gerasimov”.

Insomma, secondo il giornalista francese la conquista della cittadina potrebbe essere particolarmente importante anche nella guerra che si sta combattendo all’interno dell’esercito russo, fra forze armate regolari e la ormai celebre compagnia privata fatta di mercenari Wagner.

Intanto apprendo da un editoriale in video di Lucio Caracciolo, direttore della rivista di geopolitica Limes, che negli Usa, negli ambienti vicini al Penmtagono e all’amministrazione, sta prendendo piede un’ipotesi – è al momento questo, un’ipotesi, prendiamola per quello che è – chiamata soluzione coreana. 

A parlarne è stato lo storico americano Stephen Kotkin, autore di una monumentale biografia di Stalin e molto influente oltre che esperto di questione russa, in un’intervista al The New Yorker, periodico progressista piuttosto vicino alle posizioni dell’amministrazione Biden.  

Ma in cosa consisterebbe questa soluzione coreana? Come spiega Caracciolo, e come dice il nome, l’idea trae spunto da come venne gestita la guerra in Corea scoppiata nel 1950, durata tre anni e conclusasi, nei fatti, nel 53 con americani e cinesi che dopo un bagno di sangue capiscono che non possono andare molto oltre, e indicono una tregua, con tanto di linea smilitarizzata che divide le due coree, che nei fatti dura ancora oggi. 

L’idea della soluzione coreana per l’Ucraina è stata lanciata  qualche mese fa da un ormai centenario Henry Kissinger, un repubblicano doc, ma sembra iniziare a convincere anche l’ala progressista.

Questo tipo di approccio prevede di dividere i contendenti, tracciare una linea sul fronte (che difatto coincide con il posizionamento delle forze in campo) e mantenerla a tempo indeterminato. In questo caso i 4/5 dell’Ucraina resterebbero fortemente connessi all’Europa, mentre la porzione del Donbass e la Crimea, circa il 17-20% del territorio (lo stesso che nei fatti è in guerra già dal 2014) resterebbe controllato dalla Russia.

Vediamo chi potrebbe avere vantaggi da questa soluzione: innanzitutto ha il vantaggio di poter essere presentata come provvisoria, quindi potrebbe lasciare tutti un po’ scontenti ma rendere questo scontento accettabile in virtù di una proclamata provvisorietà. Caracciolo utilizza una frase che mi ha colpito per descrivere questo tipo di vantaggio. Al tempo stesso permetterebbe alle due parti di respirare. Ma perché gli Usa sarebbero fautori di una soluzione di compromesso del genere? Secondo Kotkin la motivazione principale è che gli Usa non hanno voglia di continuarla e non hanno nemmeno i mezzi, i mezzi materiali, le armi. Si parla di una produzione americana di circa 15mila proiettili di artiglieria all’anno, mentre l’Ucraina ne consuma 90mila. 30mila li fornisce l’Europa, il resto presumibilmente gli Usa. Se la situazione continua così, si ritroveranno con i magazzini vuoti. 

Inoltre questa guerra, nell’ottica di Washington, è ritenuta secondaria rispetto al conflitto principale, che è quello con la Cina. Il confronto vero oppone Usa e Cina e si risolve a Taiwan. Gli Usa hanno un piano preciso per armare Taiwan che sta subendo molti ritardi per via del conflitto in Ucraina (Caracciolo parla di un ritardo di 4 anni sulla tabella di marcia, dato che non sono riuscito a comprendere né a verificare, visto che il conflitto in Ucraina dura da un anno – a meno che non si intenda il precedente conflitto nel Donbass, dal 2014). 

Applicare la soluzione coreana significa riconoscere, dal punto di vista dell’amministrazione Usa, che Taiwan è più importante del Donbass, mentre adesso stanno impiegando molte più risorse per difendere il Donbass, drenandole da Taiwan. 

Ovviamente ci sono anche diverse criticità e limiti a questo piano (ammesso che sia un piano): Innanzitutto sarebbe difficile presentare questa soluzione come una vittoria dell’Ucraina. Inoltre, oltre all’instaurarsi di un confine provvisorio e di una fascia smilitarizzata, ci dovrebbe essere qualche forma di garanzia internazionale che stia al di sotto del livello Nato (in questo scenario non sarebbe previsto un formale ingresso di Kiev nella Nato), e la soluzione probabilmente più congeniale per gli Usa sarebbe che l’Ucraina entrasse immediatamente dentro l’Ue, senza negoziati. Cosa che però è molto distante da come avvengono attualmente gli ingressi nell’europa, con negoziati che possono durare decenni e che prevedono regole molto stringenti ad esempio sulla trasparenza, la corruzione ecc. Inoltre far entrare l’Ucraina in Europa significherebbe che sarebbe principalmente l’Unione a farsi carico della ricostruzione del paese.

Ecco, questo è il quadro. Considerate che è ancora fantapolitica, sono solo idee che si fanno strada nella realtà. Il che, conoscendo la potenza delle idee nella nostra specie, non è una roba da poco, ma siamo ben lontani da uno scenario del genere nella sua forma concreta. 

Non ho un commento particolare su questa cosa, non so dire se è uno scenario positivo o negativo. Vi condivido solo una frase in particolare che mi ha colpito nel video di Caracciolo:  “Molto spesso le guerre finiscono con dei compromessi sporchi più che con delle paci giuste e contrattualizzate”.

Cambiamo radicalmente argomento e parliamo di incendi. Ci sono due notizie legate agli incendi che stanno toccando in manier abbastanza tangenziale alcuni giornali, ma che mi sembrano entrambe importanti, anche se molto diverse fra loro. La prima è un fatto di cronaca, tragico. Ve lo riporto nelle parole di Valentina Neri su Lifegate.

“Nella giornata di domenica 5 marzo, per cause ancora da accertare pienamente, un incendio è divampato in un campo profughi a Cox’s Bazar, nel golfo del Bengala, in Bangladesh. Per ora non si segnalano decessi. Circa 12mila persone di etnia rohingya, però, non hanno più un posto in cui stare.

I rohingya sono un gruppo etnico di religione musulmana che si è insediato fin dal VII secolo a Rakhine, stato birmano che confina a nord proprio con il Bangladesh. Sono considerati tra i popoli più negletti e perseguitati della storia. Il Myanmar infatti li rifiuta, privandoli di diritti fondamentali come quello di curarsi negli ospedali, andare a scuola, possedere dei terreni.

Questo lo posso confermare, sono stato in Myanmar anni fa, prima del colpo di stato, e pur sotto la giunta guidata da Aung San Suu Kyi (forse per via di qualche copromesso con i militari) continuavano ad essere perseguitati. Nel 2017 l’esercito birmano ha messo in atto un vero e proprio massacro, costringendo circa un milione di rohingya a scappare in Bangladesh. Si sono rifugiati proprio nella zona di Cox’s Bazar, dove tuttora vivono in condizioni precarie. Anche in termini di diritti civili, la situazione non è troppo migliore rispetto a quella subìta in patria: sono sottopagati, vittime dei caporali, non possono aprire scuole in autonomia.

La Bbc fa sapere che la polizia bengalese sta indagando sulle cause dell’incendio che si è rapidamente diffuso attraverso le bombole del gas delle cucine. Nell’arco di circa tre ore è stato domato, ma aveva già raso al suolo circa 2mila abitazioni. Si trattava di strutture precarie, costruite con bambù e teloni. Distrutti anche luoghi di culto, centri educativi, piccole attività commerciali. Un rappresentante della Federazione internazionale della Croce rossa e della Mezzaluna rossa ha spiegato alla Bbc che sono stati segnalati danni anche a infrastrutture idriche e altri servizi di base.

Non si tratta del primo episodio di questo tipo: tra il mese di gennaio del 2021 e il mese di dicembre del 2022 sono stati accertati 222 incendi nei campi rohingya, decine dei quali di origine dolosa. Tra i più gravi c’è quello di marzo 2021, con 15 morti e 50mila sfollati. 

Fra l’altro la Mezzaluna Rossa è la stessa organizzazione segnalatami da Federico venturini, ricercatore esperto della questione Curda, nella puntata di INMR+ sul Kurdistan fra quelle meritevoli di una donazione. Quindi se volete aiutare queste persone, così come se volete aiutare le popolazioni terremotate di Siria e Turchia, è un buon modo per farlo.

La seconda notizia sugli incendi non è un fatto di cronaca ma un report sugli incendi, anzi sulle emissioni ci CO2 collegate agli incendi nel 2021. Il dato, preoccupante, riportato da Rinnovabili.it, è che sono cresciute di parecchio, al punto da considerarlo un anno record delle emissioni legate agli incendi. 

Non vi sto a leggere i vari dati specifici, tipo le tonnellate di CO2 emesse in atmosfera, perché sono numeri che come al solito ci dicono poco. Ma mi interessa segnalare che purtroppo il problema degli incendi è un classico ciclo di retroazione positivo della crisi climatica, ovvero una specie di circolo vizioso attraverso il quale la crisi si autoalimenta: più aumentano le temperature e aumentano i fenomeni di siccità, più scoppiano incendi estesi e difficili da contenere, che a loro volta rilasciano anidride carbonica che va a peggiorare la ciris climatica e così via.

È per questo che dobbiamo essere velocissimi nel decarbonizzare la società prima che questi fenomeni vadano completamente al di fuori della nostra capacità di contenerli.

Un’altra cosa che dovremo fare in fretta, fra le tante altre, è liberarci del collagene. Il perché lo spiegano Elisângela Mendonça, Andrew Wasley e Fábio Zuker sul Guardian: “Decine di migliaia di bovini allevati in fattorie che danneggiano le foreste tropicali del Brasile vengono utilizzati per produrre collagene, l’ingrediente attivo degli integratori per la salute al centro di una mania globale per il benessere.

I legami tra la carne di manzo e la soia e la deforestazione in Brasile sono ben noti, ma poca attenzione è stata data all’industria del collagene in piena espansione, il cui valore è stimato in 4 miliardi di dollari (3,32 miliardi di sterline).

Il collagene può essere estratto da pesci, maiali e bovini. I suoi utilizzatori più evangelici sostengono che la proteina può migliorare i capelli, la pelle, le unghie e le articolazioni, rallentando il processo di invecchiamento. Oltre che dai marchi di bellezza e benessere, viene utilizzato anche dalle aziende farmaceutiche e da quelle che producono ingredienti alimentari.

Tuttavia, un’indagine condotta dal Guardian, dal Bureau of Investigative Journalism, dal Center for Climate Crime Analysis (CCCA), da ITV e da O Joio e O Trigo in Brasile ha scoperto che il bestiame allevato in fattorie che causano la deforestazione veniva lavorato in mattatoi che servivano le catene internazionali di fornitura del collagene.

Parte di questo collagene è riconducibile alla Vital Proteins, di proprietà della Nestlé, uno dei principali produttori di integratori di collagene bovino. La gamma di collagene di Vital Proteins è venduta in tutto il mondo, compresi gli Stati Uniti e il Regno Unito. Sebbene esistano studi che suggeriscono che l’assunzione di collagene per via orale possa migliorare la salute delle articolazioni e della pelle, la Harvard School of Public Health avverte che esistono potenziali conflitti di interesse, poiché la maggior parte delle ricerche, se non tutte, sono finanziate dall’industria o condotte da scienziati ad essa affiliati.

Le aziende produttrici di collagene non hanno l’obbligo di monitorare l’impatto ambientale. A differenza della carne di manzo, della soia, dell’olio di palma e di altri prodotti alimentari, il collagene non è nemmeno coperto dalla legislazione sulla due diligence che verrà adottata nell’UE e nel Regno Unito per contrastare la deforestazione.

Questo perché il collagene bovino viene descritto come un sottoprodotto dell’industria del bestiame, che in Brasile è responsabile dell’80% di tutta la perdita di foresta amazzonica. Ma “sottoprodotto” è un termine fuorviante, secondo gli attivisti perché prodotti non a base di carne, di cui la pelle e il collagene sono i più preziosi, rappresentano una importante fetta di ricavi per le aziende di bestiame.

E quindi, oltre a rimarcare come la domanda di carne sia collegata alla deforestazione, dovremmo parlare di domanda di carne, pelle e collagene. Quindi, in attesa di legislazioni e interventi più strutturali, dovremmo innanzitutto ridurre il più possibile questa domanda.

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