11 Nov 2013

Ilva, a Taranto il dolore non muore mai

Scritto da: Daniel Tarozzi

Taranto - Il dolore non muore mai. L’ho visto negli occhi di Piero Mottolese, un ex–operaio dell’Ilva che ha lavorato […]

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Taranto - ilva taranto1Il dolore non muore mai. L’ho visto negli occhi di Piero Mottolese, un ex–operaio dell’Ilva che ha lavorato per anni con amore e passione per la sua fabbrica e che oggi ha tracce di piombo nelle urine e nel sangue, ha visto morire o ammalarsi parenti e amici, ha problemi fisici di tutti i tipi, vede male, sente male, ha dolori ovunque.
Piero è un uomo forte, di 60 anni, a modo suo bello. Lo incontriamo in un piazzale e dopo un minuto sta piangendo, con estrema dignità. Piange perché pensa a quello che gli è capitato, agli incidenti sul lavoro, al mobbing subìto.
Ci porta nei pressi degli stabilimenti e ci spiega come funziona la fabbrica, quali sono le sue esalazioni più pericolose, quali gli effetti sulla salute. Ci mostra la polvere rossa – a suo dire veleno – sparsa sulle strade, sulle case, ovunque. Ci mostra il quartiere Tamburi, cresciuto ad un passo dalla grande fabbrica, in cui abitanti bevono, mangiano e respirano prodotti contaminati dal polo industriale.
Lui si è comprato una casa, con i soldi guadagnati facendo l’operaio. Una casa vicino all‘Ilva. Pur non lavorandoci più, quindi, subisce la beffa tremenda di viverci a stretto contatto. Di notte non dorme, ascolta il grande mostro che respira e riconosce ogni suono, ogni lamento. Di giorno la fotografa, la riprende, ne è ossessionato.
Piero è in pensione, ma non è mai uscito veramente dalla fabbrica. Un giorno, qualche anno fa, ha raccolto un pezzo di formaggio di un amico pastore e lo ha fatto analizzare. Si è scoperto che era contaminato da diossina. Ha quindi firmato un esposto alla procura insieme agli attivisti di PeaceLink. La Asl ha ordinato dei controlli e ha confermato il problema diossina. Nel frattempo il pastore è morto per un tumore al cervello.
Il dolore non muore mai. L’ho visto negli occhi di Piero Mottolese, un ex–operaio dell’Ilva che ha lavorato per anni con amore e passione per la sua fabbrica e che oggi ha tracce di piombo nelle urine e nel sangue, ha visto morire o ammalarsi parenti e amici, ha problemi fisici di tutti i tipi, vede male, sente male, ha dolori ovunque.
Piero è un uomo forte, di 60 anni, a modo suo bello. Lo incontriamo in un piazzale e dopo un minuto sta piangendo, con estrema dignità. Piange perché pensa a quello che gli è capitato, agli incidenti sul lavoro, al mobbing subìto.
Ci porta nei pressi degli stabilimenti e ci spiega come funziona la fabbrica, quali sono le sue esalazioni più pericolose, quali gli effetti sulla salute. Ci mostra la polvere rossa – a suo dire veleno – sparsa sulle strade, sulle case, ovunque. Ci mostra il quartiere Tamburi, cresciuto ad un passo dalla grande fabbrica, in cui abitanti bevono, mangiano e respirano prodotti contaminati dal polo industriale.
Lui si è comprato una casa, con i soldi guadagnati facendo l’operaio. Una casa vicino all‘Ilva. Pur non lavorandoci più, quindi, subisce la beffa tremenda di viverci a stretto contatto. Di notte non dorme, ascolta il grande mostro che respira e riconosce ogni suono, ogni lamento. Di giorno la fotografa, la riprende, ne è ossessionato.
Piero è in pensione, ma non è mai uscito veramente dalla fabbrica. Un giorno, qualche anno fa, ha raccolto un pezzo di formaggio di un amico pastore e lo ha fatto analizzare. Si è scoperto che era contaminato da diossina. Ha quindi firmato un esposto alla procura insieme agli attivisti di PeaceLink. La Asl ha ordinato dei controlli e ha confermato il problema diossina. Nel frattempo il pastore è morto per un tumore al cervello.
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