15 Ott 2018

I campi per il restauro degli ecosistemi. Un movimento per salvare la Terra

Scritto da: Diego Galli

Dal 28 al 30 settembre si è tenuto presso l’altipiano andaluso vicino Murcia, prescelta per il progetto pilota degli Ecosystem restoration camps, la prima edizione del Re-generation festival, un evento celebrativo internazionale dedicato al restauro ecologico degli ecosistemi, un metodo che potrebbe mitigare i cambiamenti climatici.

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È come ritrovarsi in uno degli avamposti del salvataggio del pianeta Terra. Appare ridicolo dirlo aggirandosi per i 5 ettari del primo campo di restauro ecosistemico, qui sull’altipiano andanluso vicino Murcia, dove i risultati di un anno di lavoro sono appena visibili. Ma questo cambiamento può avvenire solo così. Non pianificato dall’alto. Non con risultati prevedibili. Non con la certezza di un prodotto finale. Ma ispirati da un futuro emergente in migliaia di luoghi nel mondo tra persone che neanche si conoscono. È un richiamo di un futuro possibile che parla ai nostri cuori e ci chiama a prenderci cura del pianeta, e quindi di noi stessi. La scienza ci dice che è possibile. Il suolo biologicamente vivo, l’agriecologia, la riforestazione possono sequestrare carbonio dall’atmosfera, aumentare le precipitazioni, arrestare la desertificazione e in sostanza, su una scala sufficiente, mitigare il cambiamento climatico.

 

“Lavorare insieme per restaurare la terra. Una cosa che dobbiamo fare su scala planetaria. Non possiamo aspettare 20 anni. Dobbiamo farlo ora”. John Dennis Liu, ispiratore del progetto di apertura degli ecosystem restoration camps in tutto il mondo, lo descrive così ai partecipanti del primo Re-generation festival: “La scintilla di un movimento che celebra la nostra capacità di rigenerare noi stessi, le nostre comunità, i nostri paesaggi e le nostre economie”. Ci sono già richieste di aprire campi in Kenya, Nepal, Messico, Olanda e California.

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Rigenerare l’ecosistema significa mitigare il cambiamento climatico
È l’altro modo per mitigare il cambiamento climatico. Uno si basa sulla riduzione delle emissioni. L’altro, complementare, sul sequestro del carbonio presente nell’atmosfera da parte dell’ecosistema. Secondo il famoso Project Drawdown, la più comprensiva raccolta di soluzioni su base scientifica per arrestare il cambiamento climatico, “le soluzioni di restauro ecosistemico hanno il maggiore impatto mitigante” nel settore dell’uso della terra. Questo settore ha la potenzialità di ridurre la CO2 di 149,6 gigatoni entro il 2050.

 

C’è anche un impatto economico quantificabile di questo lavoro. L’ecosistema fornisce infatti servizi essenziali senza i quali gran parte dei processi su cui si basa la sopravvivenza umana e anche l’attività economica non sarebbero possibili. Si pensi all’acqua. O al cibo. Negli ultimi 40 anni l’erosione del suolo ha reso quasi un terzo delle terre coltivabili nel mondo improduttive. Secondo uno studio, la degradazione degli ecosistemi causa perdite tra i 21 e i 72 triliardi di dollari all’anno. Per avere un termine di paragone, il prodotto interno lordo mondiale del 2012 era pari a 85 triliardi.

 

L’ultimo rapporto IPBES  ha stimato che il degrado del suolo attraverso le attività umane ha un impatto negativo sul benessere di almeno 3,2 miliardi di persone, raggiungendo il 10% del prodotto lordo globale annuo in termini di perdita di biodiversità e servizi ecosistemici. Secondo il direttore esecutivo del Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite, Achim Steiner, “la mancata gestione dei beni naturali sta tagliando via lo sviluppo di un fattore che fa sembrare un’inerzia la recente crisi economica”.

 

Per questo il Governo di El Salvador ha lanciato la proposta di un Decennio delle Nazioni Unite per il ripristino degli ecosistemi 2021-2030. “Un decennio dedicato a promuovere la riabilitazione di ecosistemi degradati, danneggiati e distrutti contribuirebbe ad accelerare la corsa contro i cambiamenti climatici e la perdita di biodiversità”, ha affermato Erik Solheim, responsabile di ONU Ambiente.

 

La rigenerazione richiede un approccio sistemico

Quando ho iniziato a partecipare alle attività di restauro ecologico del Re-generation festival, mi aspettavo di piantare alberi. Avevo visto il meraviglioso film di Wim Wenders “Il sale della terra” che documenta il progetto di riforestazione effettuato nella tenuta agricola del fotografo Sebastião Salgado. Ma non è stato così. Quelli che abbiamo contribuito a piantare erano principalmente piante aromatiche e arbusti.

 

I volontari del festival piantano arbusti al suono del Bandoneon del bolognese Carlo Maver

 

Anche i primi volontari del Campo altipiano avevano la stessa aspettativa. Ma quando hanno scavato le prime buche e analizzato il terreno, gli esperti internazionali che hanno offerto consulenza al progetto li hanno sconsigliati. C’era poca diversità, pochi microrganismi nel terreno, e senza di essi gli alberi non potevano crescere. Occorreva rispettare il processo naturale di successione delle specie vegetali, come ha spiegato Felipe Pasini  del progetto brasiliano Life in Sintropy durante il festival. La vitalità biologica del suolo, infatti, è la chiave di tutto. La vita procede in modo sistemico e olistico. La biodiversità, i processi simbiotici, la collaborazione tra specie vegetali e animali è quello che ha reso il pianeta Terra adatto alla vita. Il nostro approccio funzionale, meccanicistico e produttivista è ciò che la sta distruggendo. Si dice che secoli fa uno scoiattolo poteva attraversare la Spagna da sud a nord saltando da un ramo a un altro. Oggi l’intero paesaggio della costa andalusa e del suo entroterra è arido, privo di alberi, inadatto alla vita. Un paesaggio desolato dove un tempo c’erano foreste.

 

Il luogo dove si tiene il primo campo internazionale di ristorazione ecologica, progetto pilota di una visione assai più grande, era un campo di orzo. Fa parte della proprietà di un giovane agricoltore innovatore, Alfonso Chico de Guzman, che ha deciso di mettere a disposizione 5 ettari dei suoi terreni per questo progetto. Decenni di passaggio di macchine agricole pesanti hanno lasciato il suolo duro come cemento. Qui la terra viene arata circa 4 volte all’anno per rimuovere l’erba. Il manto erboso che non viene rimosso dai trattori, viene mangiato dalle pecore, lasciando una polvere di sottile terra superficiale, pronta ad essere trasportata via dal vento o dalle piogge. L’acqua non penetra ed evapora, rendendo questo territorio estremamente arido, e il suolo povero di elementi nutritivi per la vegetazione. L’unico modo di intervenire in un terreno simile è rispettando la successione ecologica, e partire non dagli alberi, ma dalle piante che possono fare da apripista e preparare il terreno.

 

Il progetto si è allora concentrato sull’arricchire il suolo. Hanno scavato fossi livellari, i cosiddetti swales, in diagonale rispetto all’inclinazione del terreno, in modo da catturare l’acqua e farla assorbire dal terreno. Si sono procurati compost e ne hanno ricavato un compost tea con cui hanno irrigato il terreno. Hanno sperimentato miscele di bio fertilizzanti, la coltura di microrganismi indigeni, e inoculi di micorrize, le strutture costituite dall’unione simbiotica tra funghi del terreno e radici delle piante. Hanno poi seminato 30 specie di fiori pollinatori e altre erbe e arbusti. “Le funzioni delle specie miste di colture di copertura sono varie”, si legge nel rapporto annuale del campo. “Nel loro insieme formano una rete di radici che si intrecciano attraverso l’argilla, il limo e la sabbia creando una maglia più stabile.

È già visibile la differenza tra il suolo brullo arato e il suolo in via di rigenerazione dell'ecosystem restoration camp

È già visibile la differenza tra il suolo brullo arato e il suolo in via di rigenerazione dell’ecosystem restoration camp


Questa è una protezione inestimabile contro l’erosione. La crescita fornisce ombra che riduce l’evaporazione e una sorta di ritenzione idrica verde, poiché l’acqua è trattenuta nella biomassa”. Infine, hanno fatto pascolare 1000 pecore per un giorno e mezzo in modo da concimare il terreno e aumentare la diffusione dei semi attraverso le feci del gregge.

 

Con l’arrivo della stagione delle piogge, e del momento in cui le piante dirigono la loro energia verso le radici, sono pronti a piantare i primi alberi. Sperimenteranno l’unione tra mandorli e piante aromatiche come timo e rosmarino, che crescono bene in questo clima, insieme a piante che fissano l’azoto nel suolo, orzo che fa biomassa, e animali da pascolo che continuano a migliorare il terreno.

 

Dagli altipiani cinesi a Facebook, passando per l’Italia

Per quanto si tratti di un progetto ancora limitato nella sua estensione, è incredibile apprendere che sia nato da un gruppo Facebook. Era l’11 luglio 2016, poco più di due anni fa, quando un documentarista di origini cinesi, John Liu, ha aperto il gruppo “Ecosystem restoration camp”  che oggi conta 16 mila membri. John Liu era stato incaricato nel 1995 dalla Banca Mondiale di documentare un progetto di restauro ecologico finanziato dal governo cinese nell’altipiano del Loess. Vedere la rigenerazione di un ecosistema estremamente degradato su un territorio grande quasi tanto il Belgio fu un’esperienza trasformativa per Liu, che iniziò a dedicarsi a diffondere la conoscenza delle potenzialità del restauro ecologico attraverso diversi film, uno dei quali, Green Gold, ha invito il Prix Italia nel 2013.

 

In un articolo su Permaculture News intitolato “Riflessioni su centri vocazionali di formazione per il restauro ecologico” scriveva: “Gradualmente sono arrivato a vedere il restauro ecologico come la grande opera del nostro tempo – la singola cosa più importante che tutte le persone che sono vive oggi devono capire e fare insieme. La conclusione cui sono giunto è che abbiamo bisogno di costruire Centri di formazione professionale per il restauro ecologico in ogni continente per fungere da avanguardia per il restauro della Terra”.

La copertina del gruppo Facebook è l’immagine dell’altipiano del Loess prima e dopo le attività di restauro ecologico

La copertina del gruppo Facebook è l’immagine dell’altipiano del Loess prima e dopo le attività di restauro ecologico


L’idea prende forma proprio in Italia, quando John Liu viene invitato da Giuseppe Tallarico  a un corso di permacultura in Toscana nel maggio 2016. I due maturano il progetto insieme al docente del corso, Rhamis Kent ed ai corsisti. L’idea iniziale è quella di aprire una cooperativa con 1000 soci, un’organizzazione guidata dai suoi membri. La forma giuridica che prenderà il progetto sarà alla fine quello di una fondazione. E proprio l’italiano Giuseppe Tallarico, presidente della World Permaculture Association (in questo video girato sull’altipiano spiega in italiano obiettivi e natura del progetto), ad avviare i lavori di progettazione permaculturale del sito insieme all’americano Daniel Halsey ed a condurre con Rhamis Kent il primo corso pratico informale nel novembre 2017, fornendo al contempo la prima valutazione tecnica sullo stato delle attività di restauro e sulle future azioni da intraprendere.

 

Il resto è storia recente: “Insieme, molte persone che non si conoscevano prima si sono riunite, hanno co-creato e registrato una Fondazione senza scopo di lucro chiamata Ecosystem Restoration Camps Foundation nei Paesi Bassi. Abbiamo riunito organizzazioni che credono in questo per collaborare. Abbiamo riunito molti importanti restauratori in tutto il mondo in un consiglio consultivo. Abbiamo iniziato ad allenare noi stessi e gli altri ad assumere questo enorme compito”.

 

Oggi è possibile per chiunque divenire un membro di questa fondazione, e così facendo contribuire alla crescita dei campi restauro ecosistemico nel mondo.

John Liu spiega il progetto degli Ecosystem restoration camps a un gruppo di partecipanti al Re-generation festival

John Liu spiega il progetto degli Ecosystem restoration camps a un gruppo di partecipanti al Re-generation festival


La strategia dei 4 ritorni

Il campo insiste all’interno del consorzio Alvelal, che con il suo milione di ettari situati sull’altipiano andaluso è il più grande progetto di restauro ecologico in Europa. L’associazione è stata fondata nel 2013 sulla spinta di un progetto della Fondazione Commonland, che promuove un approccio alla rigenerazione dei territori definito dei 4 Ritorni: Ispirazione, Capitale sociale, Capitale finanziario e Capitale naturale.

 

Come si legge sul loro sito, “con i 4 ritorni, 3 zone e un lasso di tempo di 20 anni, abbiamo mirato a fornire un quadro pratico per realizzare la transizione verso un’economia basata sul ripristino del paesaggio e della produzione naturale, invece che sul loro ulteriore degrado”.

 

Il territorio dell’altipiano è stato scelto proprio per le sue caratteristiche. Degrado ecologico, spopolamento, alta disoccupazione, ma allo stesso tempo la presenza di alcuni prodotti locali di eccellenza, come la più grande area di mandorla biologica coltivata nel mondo e l’eccellente agnello segureño con indicazione geografica protetta, e soprattutto di un gruppo di agricoltori pronti a scommettere sull’agricoltura rigenerativa, piuttosto che vedere il loro territorio divenire una landa desolata.

 

E’ stata proprio la presenza di una rete forte nel territorio a portare Willem Ferwerda, fondatore di Commonald, a scegliere questo territorio per il progetto europeo dei “4 ritorni”, coinvolgendo gli attori locali in un processo co-creativo basato sull’approccio sistemico della “Teoria U” elaborato da alcuni professori del MIT di Boston. La coesione del gruppo promotore era visibile nel dibattito promosso durante il Re-generation festival sui progetti portati avanti da Alvelal.

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I primi passi sono stati fatti per implementare azioni rigenerative in 12 aziende agricole partner di AlVelAl (2.300 ettari), che include un monitoraggio degli interventi di agricoltura rigenerativa effettuati. Gli stessi volontari dell’Ecosystem restoration camp, si mettono a disposizione degli agricoltori del consorzio per condividere le conoscenze maturate attraverso la loro sperimentazione.

 

Uno dei risultati del piano di restauro è l’azienda “La almendrehesa”, un sistema di produzione integrato che combina alberi di mandorle con colture di oli aromatici, apicoltura e pascolo sostenibile delle specie di agnelli endemici. Questo ecosistema produce ricavi nello stesso tempo in cui riduce l’erosione, ripristina l’equilibrio idrico, migliora la biodiversità e abbellisce il paesaggio.

 

Parte del progetto è anche il tentativo di portare i prodotti della zona, un altipiano poco frequentato ma che si trova alle spalle della popolarissima costa andalusa, ad essere commercializzati sulla costa. Ad aiutare questo aspetto del progetto è la Fondazione TUI Care, creata dal popolare operatore turistico Tui Group.  Si tratta di un vero e proprio progetto integrato di rigenerazione territoriale. Un modello verso cui c’è sempre maggiore interesse, tanto che una delegazione di AlVelAl ha preso parte a un convegno in Portogallo promosso dai comuni dell’Alentejo di Mértola e Alcoutim, dove è stato presentato un progetto di rigenerazione basato sull’agriecologia, che coinvolge anche il già citato progetto brasiliano di agroforestazione Life in Sintropy.

 

Le potenzialità sono infatti enormi. Secondo le stime della Bonn Challenge promossa dalla Germania, il restauro ecologico di 150 milioni di ettari produce un valore di oltre 80 miliardi di dollari. Calcolando che esistono 1,5 miliardi di ettari di terra degradata nel mondo adatti a progetti di restauro ecologico, il potenziale rigenerativo di questo lavoro è enorme.

 

Si tratta di una linea di lavoro che sarebbe interessante fosse promossa anche in Italia, magari dalla Strategia nazionale Aree interne, che ha proprio l’obiettivo di rigenerare i territori rurali del Paese.

L’incontro tra agricoltori, produttori e partner internazionale del consorzio AlVelAl durante il Re-generation festival il 29 settembre 2018

L’incontro tra agricoltori, produttori e partner internazionale del consorzio AlVelAl durante il Re-generation festival il 29 settembre 2018


Il futuro che vuole emergere

Nel corso di questo primo anno di attività, ci racconta uno dei volontari dell’Ecosystem restoration camp, Jonathan Church, il progetto ha dovuto spesso cambiare direzione. Non solo non sono riusciti ancora a piantare alberi, ma hanno dovuto rinunciare a produrre tutto il cibo di cui avevano bisogno. Il forte vento dell’altipiano ha fatto volare le yurte che avevano costruito. Questo ha spostato gran parte del lavoro sulla costruzioni di strutture adeguate per consentire una vita agevole ai volontari, molti di quali vivono nel campo per diversi mesi.

 

“Ogni settimana ha portato nuove sfide – si legge nel rapporto annuale – che fossero le sfide logistiche del lavoro in un’area scarsamente popolata, sconosciuta e con scarse risorse, o le sfide interpersonali di avere uno stile di vita altamente comune, così estraneo alla maggior parte degli europei di oggi. Abbiamo imparato quanto sia vitale non trascurare nessun filone di sviluppo nei nostri sistemi, proprio come abbiamo appreso quanto sia vitale riportare a uno stato rigoglioso ogni elemento della dimensione non umana dell’ecosistema”.

 

Si tratta di imparare facendo. “Siamo la prima generazione che tenta questo”, dice Jonathan. È già incredibile che decine di persone da diverse parti del mondo decidano di dedicare mesi della loro vita, a titolo gratuito, vivendo in un clima difficile e lavorando a un progetto senza risultati assicurati.

 

Proprio come postula la Teoria U utilizzata dagli agricoltori del luogo per progettare la rigenerazione del loro territorio, occorre aprire la mente, il cuore e la volontà affinché il futuro che vuole emergere possa manifestarsi attraverso di noi.

 

“Diamo valore alle cose, non alla vita”, dice John Liu a margine del festival. “Dobbiamo capire come dare valore alla vita. L’aria ci viene da una relazione simbiotica con le piante. E l’umidità è parte del sistema. Se perdiamo gli alberi perdiamo il ciclo ecologico. Tutti abbiamo un ruolo da giocare. È un privilegio e una responsabilità”. Le sue parole sembrano nutrite di ottimismo. Ma forse è solo il possibile futuro del Pianeta che tenta di emergere.

 

Si ringraziano Giuseppe Tallarico, Jonathan Church, Raquel Luján Soto per l’aiuto nella scrittura dell’articolo.

 

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