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Quando pensiamo ai safari probabilmente ci vengono in mente leoni disposti a cerchio intorno alle jeep, elefanti che bevono dalla piscina del lodge, giraffe che camminando quasi sfiorano la macchina e – perché no? – magari qualche zebra che riusciamo anche a coccolare. Ecco, no. I safari etici non sono questi. I safari non sono una check list di animali da spuntare come un elenco della spesa al supermercato. I safari sono esperienze immersive in natura durante le quali, se siamo fortunati, possiamo avvistare anche qualche animale. Ma così come non pretendiamo di avvistare orsi, aquile reali e cervi quando andiamo a passeggiare in montagna, allo stesso dovremmo vivere i safari.
E parlo da etologa, che di lavoro gli animali li osserva e che più di chiunque altro desidera avvistarli e poterli ammirare. Ma parlo soprattutto da guida safari certificata con più di 1000 ore di esperienza: ci sono giornate in cui riusciamo a incontrare tanti animali carismatici – elefanti, giraffe, leoni, rinoceronti – e altre invece in cui essi non sono visibili. Vuol dire che quel giorno la savana è noiosa? Che è stata un’esperienza da buttare? Assolutamente no! Basta fermarsi, spegnere il motore della jeep e osservare il brulicare della natura intorno a noi: uccelli, insetti, meravigliosi ungulati, piante, fiori, rapaci.
Vi sembra “nulla” questo? È la nostra aspettativa a essere sbagliata, non la natura. Aspettativa che ci creiamo guardando contenuti sui social o documentari. Ma la realtà di un vero safari etico è un’altra. I safari devono innanzitutto essere un contributo alla conservazione faunistica e ambientale, che deve poter beneficiare delle entrate turistiche nei parchi e dell’indotto dell’industria turistica per il sostegno alle popolazioni locali e alla salvaguardia.
È bene ricordarci che, quando facciamo un safari, così come una qualsiasi altra escursione in natura, siamo ospiti dell’ecosistema e non stiamo visitando uno zoo, per cui dobbiamo sospendere ogni pretesa e apprezzare le piccole cose che possiamo vedere e incontrare, le emozioni che possiamo vivere, la sensazione sulla pelle del vento caldo africano, gli odori, i colori della terra, le tracce e i segni degli animali.
Tutti questi aspetti ci permetteranno di sentirci tutt’uno con la natura e una guida competente sarà in grado di farci comprendere le interconnessioni tra gli animali, le piante e gli elementi naturali. Così, anche se non saremo in grado di avvistare il leone, l’avremo sentito e percepito in ogni traccia, ogni comportamento anti predatorio degli impala, ogni discorso sull’ecosistema e sull’equilibrio della biodiversità che ascolteremo. Questo è un safari: è un’immersione educativa, non una raccolta di cartoline.
Ma quindi come si fa a riconoscere, scegliere o creare un safari etico? Partiamo dal presupposto che una guida safari locale, in media guadagna intorno ai 300/400 euro al mese e quindi farà di tutto per ottenere la mancia dai partecipanti. Purtroppo la maggior parte dei turisti internazionali lega l’elargizione della mancia all’abilità della guida di far avvistare più animali possibili, il più vicino possibile, magari in comportamenti degni di un documentario di National Geographic. Questo porta le guide a disturbare gli animali che si stanno accoppiando o stanno combattendo, le mamme con i piccoli o i predatori durante la caccia.
Molte guide si avvicinano eccessivamente agli animali, li inseguono e si approcciano a loro non rispettandoli, rischiando una reazione aggressiva – e lecita! – dell’animale stesso o invadendo la sua comfort zone. Quello che dobbiamo fare al momento della prenotazione è quindi comunicare la nostra etica alla guida prima di intraprendere il safari. Rendere chiare le nostre intenzioni e i nostri requisiti etici invoglierà la guida a comportarsi in modo dignitoso nei confronti degli animali e noi saremo parte del cambiamento, mostrando alla guida e agli eventuali altri ospiti la possibilità di fare safari in modo consapevole ed etico. Allora la nostra presenza sarà un valore aggiunto educativo al tour, alla guida e al resto del gruppo.
In ogni caso è sempre bene ricordarsi che, poiché il safari deve essere un’esperienza immersiva ed educativa, bisogna evitare di fare self drive, cioè di noleggiare un’auto e di guidare noi in autonomia all’interno della riserva. Preferiamo sempre guide certificate, meglio se sono direttamente guide o ranger del parco o affiliate al parco e non singoli operatori che si auto promuovono nei lodge o nelle agenzie. La garanzia che sia una guida formata e certificata – e quindi con preparazione scientifica, divulgativa, di primo soccorso e si spera anche etica – è maggiore se lavora per la riserva stessa.
Meglio scegliere piccole riserve private e non i grandi parchi nazionali, dove c’è il rischio di trovarsi immersi in un’autostrada di turisti che spesso non rispettano il benessere degli animali, accerchiandoli e disturbandoli con rumori e smog. Ricordo ancora che al Kruger, in Sudafrica, c’erano addirittura i gruppi Whatsapp ufficiali in cui tra macchine ci si avvisava della presenza di animali mandando le coordinate.
Ricordatevi che un animale si può osservare solo da una distanza di minimo 30 metri e che nessuna guida può disturbarlo, avvicinarlo con il cibo o andare fuori strada calpestando la vegetazione. Attenzione ad avvicinarsi troppo rischiando di disturbare le femmine con i piccoli, i predatori che stanno cacciando o mangiando, gli animali che si stanno accoppiando e i maschi in calore. Cerchiamo di non alterare l’etologia degli animali: se un animale modifica il suo comportamento perché ci vede, vuol dire che ci siamo comportati male e di sostenibile in questo c’è poco.
In questo mio post al ritorno dal viaggio che ho condotto in Mozambico ho voluto sfidare i preconcetti e ho voluto parlare di safari senza mostrare foto di animali, non perché non ne abbiamo incontrati – li abbiamo visti praticamente tutti e anche più di del solito – ma perché ho voluto fare capire quanto i safari fatti bene siano molto di più che una collezione di foto. I partecipanti al viaggio erano talmente immersi nell’esperienza che, mentre osservavamo gli animali e facevamo etogrammi sui loro comportamenti, si dimenticavano anche di accendere la macchina fotografica! Ecco cosa mi ha reso felice davvero: vedere turisti che erano talmente presi dalla spiegazione e dalla natura che non pensavano alla “cartolina” da postare sui social.
In questo viaggio parte del ricavato è servito a comprare fototrappole, macchine fotografiche e GPS per il biologo della conservazione del parco affinché possa monitorare i grandi carnivori. Non c’erano piscine, il “lodge” erano cinque tende davanti a un fiume, l’acqua della doccia si scaldava con brace e legno e la notte si potevano udire ippopotami e iene intorno al campo tendato e tu, umano, ti sentivi davvero ospite della natura. Tu, turista, avevi davvero la sensazione di essere a casa degli altri animali, senza arroganza, imposizioni e pretese. Ecco cosa dovrebbe essere un safari: un viaggio in cui torni più consapevole, con la memory card vuota forse, ma il cuore pieno.
Per saperne di più consulta la nostra Guida al (vero) benessere animale.
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