18 Ott 2022

Da Survival una guida per decolonizzare il linguaggio nella conservazione

Scritto da: Francesco Bevilacqua

Bracconaggio, nomadi, sovrappopolazione, pastori, riforestazione. Termini che usiamo spesso con leggerezza senza renderci conto che dietro alla loro diffusione ci sono logiche ben precise tese a plasmare l'immaginario. Per metterle a nudo, Survival ha lanciato una guida per decolonizzare il linguaggio nella conservazione e usare determinati concetti con più consapevolezza.

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Come ripetiamo spesso, uno degli obiettivi principali di Italia Che Cambia è cambiare l’immaginario, ribaltare assiomi culturali che vengono spesso dati per scontati, che influenzano pesantemente la percezione che abbiamo della realtà, ma che spesso non si basano su fatti o su elementi oggettivi, ma solo sulla libera scelta di prediligere un punto di vista piuttosto che un altro.

Componente fondamentale di questo approccio è il linguaggio. Pensateci: quanto contano le parole che usiamo per descrivere determinati fatti, persone, progetti, pensieri? Tantissimo. Un esempio su tutti, che ultimamente facciamo spesso: quando andiamo al sud siamo soliti dire “scendo”, per poi “risalire” al nord. Perché? Perché non ribaltare le mappe, cambiare la terminologia, decolonizzare l’immaginario? A maggior ragione laddove spesso queste parole – “scendo” e poi “risalgo” – non sono neutre e nascondono connotazioni negative e positive, “premiando” così l’uno o l’altro oggetto di discussione.

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A questo proposito, è lodevole l’iniziativa di Survival International, che ha lanciato nei giorni scorsi una nuova Guida, unica nel suo genere, che punta i riflettori su molte delle parole “neutre” o “scientifiche” utilizzate quando si parla di conservazione e cambiamenti climatici. Ancora oggi infatti, esattamente come in epoca coloniale, «il modello dominante di conservazione è quello della “Conservazione fortezza”, che prevede la creazione di Aree Protette militarizzate, in terre indigene, accessibili solo ai ricchi. Questa “conservazione” sta distruggendo la terra e la vita dei popoli indigeni», spiega Fiore Longo, responsabile della campagna di Survival per decolonizzare la conservazione.

La Guida per decolonizzare il linguaggio nella conservazione lanciata da Survival si rivolge a giornalisti, divulgatori, registi e attivisti. Mette a confronto molti termini familiari e rivela le storie nascoste dietro ad altri. Ecco qualche esempio: qual è la differenza tra “bushmeat” e “cacciagione”? Perché alcune persone che possiedono bestiame vengono definite “allevatori”, e altre “pastori”? Perché spesso pensiamo alla “wilderness” come a una natura vergine e selvaggia priva della presenza umana, quando in realtà si tratta quasi sempre di terre abitate, plasmate e gestite dagli esseri umani nel corso di millenni? Perché in Europa le persone possono vivere nei parchi nazionali mentre in Africa non possono farlo? 

La violenza e il furto di terra subiti da milioni di indigeni nel nome della conservazione derivano in gran parte da questi assunti

«Perché? Perché i miti che sostengono questo modello di conservazione permeano i testi scolastici, i media, i documentari sulla fauna selvatica, gli annunci pubblicitari delle ONG e tanti altri canali», prosegue Fiore Longo. «Le immagini della “natura” con cui siamo cresciuti e le parole che usiamo per descriverla modellano il nostro modo di pensare, le nostre politiche e le nostre azioni».

Per esempio, si parla spesso di “sovrappopolazione” in maniera neutra, come se fosse un elemento come molti altri da includere nelle analisi antropologiche e demografiche. In realtà, come fa notare Survival, il concetto di “sovrappopolazione” è ideologicamente e fondamentalmente razzista, specialmente se additato come una delle cause principali dei problemi ambientali al mondo.

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Così come è fuorviante parlare di “uso sostenibile delle risorse” senza specificare il contesto. I popoli che utilizzano le risorse naturali su piccola scala – ad esempio che tagliano legna per farne carbone – si vedono infatti vietare o criminalizzare i loro mezzi di sostentamento perché, erroneamente, vengono descritti come “arretrati” e “dannosi” per l’ambiente. D’altro canto, le attività delle grandi compagnie multinazionali del taglio del legno che collaborano con ONG della conservazione e che a volte operano all’interno e attorno ad Aree Protette vengono descritte come “gestione forestale sostenibile”. La disparità fra i due piani è evidente, ma il termine “uso sostenibile delle risorse” la fa passare sotto silenzio.

«Tendiamo a dare per scontato che queste parole e immagini corrispondano alla realtà, come se fossero neutre, oggettive o “scientifiche”. Ma non lo sono», conclude Survival. «Ci auguriamo che la nostra nuova Guida permetta alle persone di fermarsi a pensare alle parole e ai concetti che usiamo quando scriviamo o parliamo di questioni ambientali. La violenza e il furto di terra subiti da milioni di indigeni e da altre popolazioni locali nel nome della conservazione derivano in gran parte da questi assunti».

È possibile leggere e scaricare la guida qui.

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