25 Lug 2023

Tobilì si racconta: la cucina come luogo di mediazione culturale e di riscatto

Quanto spesso ci dimentichiamo di chiederci quale sia la storia del piatto che stiamo mangiando e di chi ce l’ha preparato? Eppure, è proprio lì che si cela l’anima di una cucina. Lina Capasso, responsabile della logistica e dell’organizzazione di eventi all’interno della cooperativa sociale Tobilì, e Fabio Crusco, direttore del ristorante La cucina di Giufa’, ci raccontano come hanno reso il cibo uno strumento di riscatto per gli ospiti dei centri d’accoglienza per i migranti.

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Campania - Il cibo non è mai semplicemente cibo. Questo perché ogni pietanza racconta una storia, quella del paese da cui proviene quel tipo di tradizione, quella di chi l’ha inserita nel menù, quella del cuoco che cucina per noi e, infine, in un certo senso, entriamo a far parte di una certa narrazione anche noi che mangiamo.

E di storie di vita la cooperativa sociale Tobilì ne ha davvero tante da raccontare. Preferisce farlo non con le parole, ma attraverso una ricerca accurata di sapori, ingredienti e profumi che appartengono alle tavole di diverse culture, aromi che ricordano una casa che non è stata sempre accogliente, da cui si è stati costretti a scappare per motivi politici, culturali, per vissuti di violenza e sopraffazione.

Seduti ai coloratissimi tavoli de La Cucina di Giufa’, Lina Capasso, responsabile della logistica e dell’organizzazione di eventi all’interno di Tobilì, e Fabio Crusco, direttore del ristorante che rappresenta il fulcro dell’attività della cooperativa, mi hanno spiegato cosa significa inserirsi in quel punto della storia in cui tutto cambia, il punto di svolta che permette agli ospiti dei centri accoglienza di riscattarsi come individui e risignificare la parola “casa”.

Tobilì
Le attività che portate avanti con Tobilì sono numerose e variegate, tutte incentrate sulla cucina. Come raccontereste la storia della vostra realtà?

Lina: Tobilì è una storia pensata per riscattare lavorativamente, perché il lavoro nelle nostre società ti dà un ruolo e un’identità, quando non ne hai uno è come se non ci fossi, quasi come non esistessi. Soprattutto se poi provieni da un circuito di immigrazione, di tratta, di asilo politico, situazioni drammatiche di guerra, con tutti gli stereotipi che accompagnano questi scenari.

Si è pensato che un’attività come la cucina potesse essere il fulcro dell’occupazione di persone che arrivano dai circuiti di cui parlavo. LESS Onlus, la cooperativa madre, si occupa di questo, fa accoglienza, e Tobilì ha pensato che in questi circuiti potessero esserci persone già con una preparazione, magari di origine, in grado di portare la loro storia.

È intorno al 2017 che da un gruppo di persone, intorno a questo cocktail bar, si sviluppa Tobilì, che poi è diventata altro, è cresciuta, la sua idea è proprio andata avanti e si è sviluppata. La cucina di Giufa’ è la nostra vetrina sulla città, che sarà presto riorganizzata, ma ci sono diverse altre attività di cui ci occupiamo, come la gestione della mensa della Stazione Zoologica di Napoli.

Qual è il percorso che compiono le persone che vengono a lavorare qui?

Lina: LESS Onlus è impegnata in prima linea nell’accoglienza e nell’assistenza ai migranti e, più in generale, nella lotta alle povertà sociali. Nell’ambito di queste attività, dà una fondamentale importanza alla formazione al lavoro, perché non c’è un’alternativa, occorre trovare a queste persone un impiego affinché venga dato loro il permesso di soggiorno. Solo così possono uscire da quei circuiti malati del crimine e della mafia. Il nostro scopo con Tobilì è evitare che finiscano in quelle fila, trovar loro a tutti i costi anche solo un’opportunità lavorativa, poi se la giocheranno loro.

Tobilì
Da sinistra a destra: Lina, Annamaria (cuoca) e Fabio

Noi individuiamo le persone con un’inclinazione al settore della cucina e della ristorazione, soggetti su cui sai di poter puntare, su cui investire, perché magari hanno dimostrato nel loro percorso che sono pronti a riscattarsi sul serio e che l’Italia non sia per loro solo un posto di passaggio ma un luogo dove costruire e radicarsi. Una volta individuate, Tobilì attinge alla sua rete sociale di imprenditori o canali istituzionali per l’attivazione di scuole di formazione ad hoc e tirocini formativi.

Da dove nasce l’idea di utilizzare la cucina come linguaggio di intermediazione culturale e come progetto di autoimprenditoria migrante?

Lina: Perché il cibo e la cucina sono cultura in sé. Il termine Tobilì significa proprio questo – “cucinare” – ed è una parola presa in prestito dalla lingua mali. La prima cosa attraverso cui una persona riesce a conoscere e a entrare in contatto con un’altra cultura, anche seduti sul divano di casa sua, è il cibo, che in questo momento storico è il centro di molte cose.

Il cibo crea cultura, abbatte stereotipi, ti fa entrare in contatto in modo immediato con un’altra realtà e da quello puoi conoscere una storia, puoi capirne la politica, perché il cibo è anche politica. E soprattutto riesce a fare questo: in un posto dove ad unire non è la lingua, il cibo – così come lo sport e la musica – può essere un importante veicolo per creare comunità. E poi il cibo è la massima espressione della cura. L’idea di Tobilì poi è quella di mischiarsi, la cosiddetta “fusion”, mettere insieme un po’ di culture che raccontino tutta la storia del Mediterraneo, che poi è un’unica storia con millenni di tradizioni.

Tobilì
Oggi ci troviamo nel vostro ristorante, La cucina di Giufa’, cosa rende unico questo luogo? Cosa dovremmo aspettarci entrandoci?

Fabio: Le persone che vengono qua a cena molto spesso entrano non conoscendo la situazione e il progetto. E io cerco di guidarli nella situazione della cooperativa Tobilì, in quello che stanno mangiando, nella connessione tra quello che c’è nel piatto e chi l’ha preparato in cucina. Alla fine, fanno un percorso e vanno via con un qualcosa in più che fondamentalmente è l’esempio del nostro lavoro.

Lina: Si parla tanto ultimamente di “esperienza”, è una parola che rende bene l’idea, perché il momento di condivisione del cibo stando a tavola è un’esperienza. Se hai provato un’esperienza positiva, quel ricordo ti rimarrà per sempre e ti farà pensare alla storia che c’è dietro, alle persone che sono qui, che lavorano con grande difficoltà, ma con grande impegno, per portare avanti una cosa che non è semplice perché costa una fatica immane. Ma non lo stai facendo per te stesso, per il tuo profitto personale, questa è la straordinarietà di una cooperativa sociale. Tu non lavori per arricchire te stesso, lavori per creare condizioni migliori che non siano personali ma collettive.

Pensando a La cucina di Giufa’ come la vetrina di Tobilì, come si è evoluto nel tempo questo progetto e che direzione prenderà nell’immediato futuro?

Fabio: È nata l’esigenza col tempo, essendo cresciuti, di fare dei lavori per allargarci; quindi dai primi di settembre sicuramente il locale sarà pronto e ci saranno più posti a sedere. Perché Tobilì è nato come cocktail bar, poi col tempo si è trasformato. Il discorso del food ha preso sempre più piede e ovviamente non riuscivamo, con questi pochi tavoli, a garantire un servizio adeguato.

Tobilì

Resterà comunque un locale molto intimo, perché l’idea di questo locale è di venire qui rilassati, tranquilli, lontani dalla confusione. Le persone che vengono molto spesso entrano che non si conoscono e se ne vanno che sono amiche. Quindi l’idea è di continuare in questo senso, di dare la possibilità alle persone anche di conoscere altre persone oltre la nostra realtà: come ideale ci piace perché crea comunque connessioni, che è la cosa che fondamentalmente noi vogliamo fare.

Lina: Nella crescita di Tobilì, durante il viaggio si sono aggiunte persone con una maggiore esperienza rispetto alla cucina e quindi abbiamo portato anche questo all’interno del locale. Il menù è caratteristico, mantiene la sua identità, continuiamo ad avere una linea ideologica precisa, quella di accorciare le distanze, e quindi proponiamo la specialità marocchina, quella mediorientale, la cucina napoletana, il tutto con una connotazione ben precisa.

Fabio: Che è appunto la “fusion” dei prodotti del Sud Italia. Quindi della Campania in primis, ma del Sud Italia in maniera un po’ più allargata, con tutti i prodotti del Medio Oriente. Qui si può assaggiare l’hummus di ceci, che è tipico mediorientale, con il polpo del Golfo di Napoli, oppure il couscous con i totanetti allo zenzero. O ancora, adesso stiamo facendo uno gnocco di patate con la colatura di alici e le verdure. Puoi trovare sempre un piatto che ti racconti una storia, che può essere un viaggio raccontato da un ingrediente.

In posto dove ad unire non è la lingua, il cibo – così come lo sport e la musica – può essere un importante veicolo per creare comunità.

Lina: C’è molta attenzione alla stagionalità, nel senso che il menù viene cambiato sempre, a seconda della stagione in maniera diversa. Non replichiamo il menu dell’anno scorso, ma è proprio una scelta politica di Tobilì, si propone una cosa adatta a quel periodo. È un modo di educare le persone a tavola.

Fabio: Si cercano verdure se possibile biologiche, utilizziamo solo il nostro olio, che in questo momento è il Ravece del beneventano oppure il Ferraro della Costiera Sorrentina.

Lina: Noi lo utilizziamo anche per la mensa perché Tobilì fa una determinata scelta, entra in una realtà pubblica come la Stazione Zoologica di Napoli per fare una differenza, perché ormai sta diventando anche una questione culturale, deve essere così.

Non possiamo mangiare le fragole a Natale. Questo ci ha portati alla distruzione, a non poterci fare il bagno al mare perché ci sono 40° e al massimo in quell’acqua posso cuocerci le uova [ride, ndr]. Questa cosa la stiamo dicendo in tutte le salse, ma non è sufficientemente chiaro. È una scelta difficile dal punto di vista imprenditoriale, perché devi rientrare in un costo con una certa qualità, devi proporre preparazioni stagionali, appetitose, buone, sane, cose sempre fresche e mai congelate.

Tobilì

Fabio: Un’altra cosa legata all’ambiente è il fatto che noi non usiamo plastica, in nessun modo. Io qui ho tutte cose di vetro, anche all’acquario e quando facciamo i catering con Tobilì portiamo la porcellana e il vetro, ci è capitato di fare un catering per 400 persone con un furgone pieno di bicchieri e di piatti.

Per quanto riguarda anche la scelta dei prodotti, ci sono collaborazioni che avete stretto negli anni di cui mi vorreste parlare?

Fabio: Sì, ci sono delle cooperative sociali che si occupano sia di produzione e coltivazione su cui possiamo contare con Tobilì. Mi viene in mente Fattoria Zero, che si occupa dell’integrazione di persone con problemi mentali e tossicodipendenze, che producono il Provolone del Monaco, ma fanno anche i nostri pelati biologici.

E poi ci sono Le Terre di Don Peppe Diana, che fanno appunto sia il vino sia la nostra mozzarella, che abbiamo alla mensa e al ristorante.  Tutto questo in una terra in cui c’era la mafia e quindi è un valore aggiunto fondamentale.

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