Pietro Ruffo: “Non è vero che l’essere umano ha distrutto la Terra. Anzi, abbiamo lasciato tracce stupende”
Pietro Ruffo racconta con il linguaggio dell’arte contemporanea i più recenti studi dell’antropologia. Che ci consegnano un ritratto del genere umano tutt’altro che crudele e distruttivo

Immaginate di prendere in mano i 13,8 miliardi di anni di vita dell’universo e schiacciarli, strizzarli fino a farli entrare in una piccola scatolina dello spazio di un anno soltanto. Ciò che uscirebbe fuori da questa proporzione è tutt’altro che intuitivo: anzi, ha del clamoroso. Se il nostro cosmo esistesse da soli dodici mesi infatti, oltre undici di questi sarebbero trascorsi prima ancora che sulla Terra mettessero piede i primi dinosauri. E noi Homo sapiens? Arriveremmo «solo pochi minuti prima dei fuochi d’artificio di Capodanno».
Questo divertente e istruttivo esperimento mentale è stato ideato dall’archeologa inglese Rebecca Wragg Sykes, autrice qualche anno fa del celebre libro Neandertal, e tra tutti i lettori che lo hanno sfogliato sembra averne colpito in particolare uno: Pietro Ruffo, 47 anni, romano, di professione artista contemporaneo. Nasce così l’ultima mostra che ha esposto fino a un paio di settimane fa al Palazzo delle Esposizioni a Roma e intitolata, eloquentemente, L’ultimo meraviglioso minuto.
«Ogni mio lavoro parte da una serie di letture su argomenti che mi appassionano: in questo caso, l’evoluzione dell’essere umano e del pianeta», spiega Pietro Ruffo. «Mentre leggo, da buono studente, prendo appunti sotto forma visiva, di disegno, ritaglio. E nella mostra espongo proprio questi appunti, come se mettessi la mia scrivania in verticale».
Questi appunti presi a penna, poi esplosi su tutta la grandezza della sala del piano nobile del Palazzo, trasportano il visitatore dritto in una realtà che nessun occhio umano ha mai potuto vedere: la Terra nella sua versione primordiale. «Circa 50 milioni di anni fa, l’80% delle superfici emerse si ritrovano coperte da una foresta tropicale, che ho disegnato con la mia Bic blu e che è diventato uno degli ambienti della mostra», racconta l’artista, con il suo tipico tono di voce pacato ma da cui traspare anche tutta la sua passione per questi temi.
![]() |
«In questo mitico giardino dell’Eden nasce la maggior parte delle specie animali e vegetali che conosciamo oggi», spiega Pietro Ruffo. «Da allora il clima è cambiato moltissime volte, condizionando anche il modo in cui siamo fatti: del resto, se le foreste africane non si fossero diradate noi non saremmo scesi dagli alberi e non avremmo assunto la posizione eretta per guardare l’orizzonte della savana».
La prima lezione importante che apprendiamo dal lavoro di Ruffo – e dagli studi antropologici che ci stanno dietro – è dunque che il nostro è un pianeta mobile, in continuo cambiamento talvolta anche casuale, e che è solo in virtù di una serie di queste coincidenze che sulla sua crosta si è venuto a creare, nel tempo, un microclima adatto alla vita del nostro genere umano. Un bel bagno di umiltà per noi Homo sapiens, che spesso pecchiamo dell’arroganza di ritenere di essere gli unici in grado di determinare, nel bene e nel male, le condizioni dell’ecosistema in cui viviamo.
«La nostra visione è antropocentrica e questo è normale, siamo esseri umani – sorride Pietro Ruffo – ma lo è talmente tanto che crediamo di poter influenzare addirittura un’intera era geologica. Volevamo battezzarla antropocene, fino a quando gli scienziati hanno chiarito, nel marzo scorso e dopo quindici anni di dibattiti, che questo non si può fare, per motivi tecnici».
«Noi, che appariamo solo all’ultimo minuto di questo anno cosmico, il 31 dicembre alle 23:59, siamo sicuramente attori del cambiamento, ma non dobbiamo pensare che stiamo distruggendo la Terra. Non potremmo farlo neanche se volessimo: i tempi e le forze in campo sono di scala incredibilmente superiore ai nostri. Tutt’al più stiamo mettendo a rischio la nostra possibilità di sopravvivenza su di esso e, se ciò accadesse, sarebbe ovviamente un grande peccato».

Un peccato, appunto. E qui arrivo alla seconda lezione che mi ha colpito nella mostra di Pietro Ruffo. L’artista capitolino non si limita a dedicare la sua esposizione all’ultimo giro dell’orologio universale in cui compaiono i nostri simili, ma aggiunge un aggettivo che ha dell’emblematico: «Meraviglioso». L’essere umano esisterà pure da una manciata di secondi, ma in questo minuscolo spazio di tempo non si è solo limitato a consumare le risorse naturali, tagliare gli alberi, inquinare i fiumi ed estinguere molte specie.
Sarebbe un grave errore non considerare anche i contributi positivi straordinari che il sapiens è stato in grado di creare, nella sua tutto sommato breve vita: «Secondo alcuni antropologi, i sapiens – come i progenitori Neanderthal – si differenziano dalle altre specie per la spiritualità. Siamo in grado non solo di dialogare sulle questioni concrete, ma anche di creare un pensiero astratto: questo ci ha resi capaci di collaborare in gruppi più grandi, tanto da porci in cima alla catena alimentare».
«Collaboriamo non solo per cacciare, ma anche per costruire artefatti meravigliosi, sempre legati alla spiritualità: se facciamo un excursus mentale delle architetture che ricordiamo – da Stonehenge alle piramidi ai templi greci e romani alle chiese rinascimentali – nessuna di queste è civile. Non servivano a difenderci dal caldo, dal freddo, dalla pioggia o dalla grandine, bensì a concretizzare un’idea trascendente. Se siamo riusciti a creare insieme queste cose così straordinarie, secondo me saremo anche in grado di adottare comportamenti diversi per sopravvivere sulla Terra».
insomma, nella visione di Pietro Ruffo – che, lo confesso, è anche la mia – l’umano fa danni non intenzionalmente, per crudeltà, come si è creduto per troppi decenni e come buona parte dell’opinione pubblica, fomentata in questo senso dalla narrazione distorta e catastrofistica dei media, continua a credere ancora oggi. Egli sbaglia perché è impegnato in una sperimentazione creativa, è costantemente alla ricerca di nuove soluzioni per sopravvivere e svilupparsi: in questo perenne laboratorio incontra anche degli inevitabili errori, ma poi ne apprende le lezioni, migliorando di volta in volta le sue capacità di agire per il bene.

«L’antropologia è una scienza sempre più esatta, ma io la amo perché è molto interpretativa e soggettiva. I documenti scritti sono difficili da leggere, figuriamoci quelle poche ossa dei Neanderthal che possediamo. Negli anni ’70, quando gli orrori della Seconda guerra mondiale e dell’Olocausto erano passati da poco, Jared Diamond sosteneva che siamo diventati ciò che è perché ha ucciso e sterminato tutte le altre specie. Questa tesi, avvalorata a lungo, piano piano però è stata messa in discussione, in particolare nell’ultimo decennio grazie a studiosi come Rebecca Wragg Sykes, con cui ho collaborato per realizzare questa mostra, e Rutger Bregman».
Oggi stiamo iniziando a renderci conto che l’essere umano è quello che è perché è solidale. Proprio come sostenne un’altra famosa antropologa, Margaret Mead, il primo segno di civiltà nella storia fu un femore rotto e ricalcificato, cioè protetto e curato da qualcuno. L’esatto contrario del resto del regno animale dove, se ti spacchi una zampa, sei fregato. Ed ecco allora che giungiamo al vero punto della nostra chiacchierata, alla straordinaria attualità di questo discorso che solo apparentemente parla di momenti storici lontanissimi dai nostri: «L’aspetto affascinante è che, attraverso le congetture sui reperti di centinaia di migliaia di anni fa, in effetti, parliamo di ciò che siamo noi oggi».
Secondo alcuni antropologi, i sapiens si differenziano dalle altre specie per la spiritualità
È una sorta di profezia che si auto-avvera, come dicono gli inglesi: se ci convinciamo che la natura umana sia irrimediabilmente crudele, cattiva, competitiva, allora tenderemo a comportarci anche noi di conseguenza. Se invece prendiamo atto che noi Homo sapiens non siamo solo distruttivi, ma possediamo anche uno straordinario potenziale innovativo, collaborativo, creativo, allora è più probabile che riusciremo a trovare un modo per risolvere insieme i nostri problemi.
Persino quelli che noi stessi abbiamo creato: «Il pianeta sta benissimo, non reagisce contro di noi né ha bisogno di essere salvato», rimarca l’artista. «Anzi, la falsa pretesa di salvare il pianeta non ci porta da nessuna parte. Quello che dobbiamo fare davvero è adottare comportamenti più virtuosi, inventare nuovi sistemi, modificare la nostra sensibilità: come in effetti le nuove generazioni stanno già facendo. Ma anche se ci dovessimo estinguere a breve, e spero di no, nel nostro minuto avremmo comunque lasciato delle tracce stupende», conclude Pietro Ruffo.
Commenta l'articolo
Per commentare gli articoli registrati a Italia che Cambia oppure accedi
RegistratiSei già registrato?
Accedi