Sgarbi, la depressione e l’importanza dell’autenticità
La depressione dichiarata da Vittorio Sgarbi apre uno spunto di riflessione che va oltre la sua figura pubblica. Cosa accade quando crollano le maschere che abbiamo indossato per una vita?

Negli ultimi mesi si è parlato molto di Vittorio Sgarbi. Le accuse, le polemiche, il clamore mediatico che da sempre lo circonda. Ma fra le tante dichiarazioni, una ha colpito per la sua natura insolita: Sgarbi ha detto di essere depresso. Non l’ha urlato, non lo ha gridato come le sue consuete provocazioni. Lo ha detto quasi in sordina e questa cosa, in un tempo in cui tutto diventa rumore, merita almeno un momento di ascolto.
Questo non significa assolvere Sgarbi. Non significa dimenticare o sminuire i comportamenti, le parole e le offese che hanno segnato la sua lunga carriera pubblica. Ma significa provare a guardare oltre il personaggio e cogliere un segnale che va ben oltre la sua storia personale. Se dietro la sua depressione infatti ci fosse qualcosa che riguarda tutti? Mi riferisco al crollo delle maschere che ci siamo messi addosso, individualmente e collettivamente.
Pier Pietro Brunelli, psicoterapeuta esperto di narcisismo patologico, descrive bene questa dinamica. Il narcisista non vive mai radicato in sé stesso. Esiste solo nello sguardo degli altri, nel bisogno costante di conferme. Una costruzione fragile, che regge finché reggono i riflettori. Ma quando arrivano la vecchiaia, il declino fisico, la perdita di influenza o semplicemente l’avvicinarsi della morte, questa impalcatura comincia a cedere. E quello che resta spesso è un vuoto. Un vuoto che può spalancarsi in una depressione profonda.

Brunelli parla di una “ferita narcisistica” originaria che spinge le persone a costruire identità di facciata per difendersi dal dolore. Ma queste difese con il tempo si trasformano in prigioni. È quello che probabilmente sta accadendo anche a Sgarbi, che si trova oggi di fronte al conto di un’intera esistenza giocata sul personaggio. Ma il punto non è lui. Il punto è che questa dinamica riguarda molti di noi, in un’epoca in cui il narcisismo è diventato un tratto collettivo.
Abbiamo costruito una società che vive di immagine, che scambia l’apparenza per sostanza, che celebra la superficie e rimuove tutto ciò che è profondo, difficile, doloroso. Eppure, ci sono momenti nella vita in cui non possiamo più fuggire. Momenti in cui siamo chiamati a spogliarci di tutto e a stare di fronte a noi stessi, senza schermi. Lo ha raccontato bene Daniela Muggia, tanatologa, che ha dedicato la sua vita ad accompagnare le persone nell’ultimo tratto dell’esistenza. Nel video e nell’articolo che le abbiamo dedicato su Italia che Cambia, Daniela ci ha mostrato come il confronto con la morte possa essere un’occasione di verità.
Non solo la fine di qualcosa, ma l’inizio di un modo diverso di vivere, più essenziale, più autentico. La società delle maschere non è una novità dei nostri tempi. Luigi Pirandello, già un secolo fa, parlava di questa dinamica in Uno, nessuno e centomila: l’impossibilità di essere davvero se stessi e la condanna a esistere solo negli occhi degli altri. Vitangelo Moscarda scopre di non essere mai stato una persona sola, ma di aver vissuto frammentato in infinite proiezioni altrui. È il dramma dell’identità scissa, che oggi vediamo moltiplicarsi nei social, nelle vite esibite e nelle identità performative che costruiamo per essere accettati.

Anche Italo Svevo, nella Coscienza di Zeno, ci ha mostrato un personaggio che vive giustificandosi, raccontandosi alibi e costruendo versioni di sé per sopravvivere a una realtà che lo mette costantemente in discussione. Zeno Cosini è l’uomo che cerca di essere “altro”, senza mai accettarsi per ciò che è. È un destino che ci riguarda da vicino: la sensazione di non essere mai all’altezza di un’immagine ideale, costantemente rincorsa e mai raggiunta.
A questa riflessione si aggiunge quella di Byung-Chul Han, filosofo sudcoreano che nella Società della trasparenza e nella Società della stanchezza descrive un’epoca in cui siamo diventati imprenditori di noi stessi. Dove tutto è narcisisticamente esposto e il fallimento di una prestazione coincide con il fallimento dell’identità. Non siamo più solo osservati: ci osserviamo da soli, giudici spietati della nostra continua rappresentazione.
Togliersi la maschera, anche se doloroso, può essere liberatorio
In questo quadro, la depressione di chi crolla non è solo un fatto individuale. È il sintomo di un sistema che ci chiede di esistere solo se vincenti, giovani, produttivi, ammirati. La vecchiaia, la malattia, la vulnerabilità diventano tabù. Lo racconta la stessa Daniela Muggia, spiegando quanto la nostra cultura sia povera di strumenti per accompagnare i momenti di passaggio e quanto il tabù della morte renda difficile anche il semplice atto di essere autentici.
Ma togliersi la maschera, anche se doloroso, può essere liberatorio. È quello che vediamo ogni giorno nei racconti che pubblichiamo su Italia che Cambia: persone che, dopo crisi profonde, hanno scelto di cambiare strada. Di rimettere al centro le relazioni vere, la responsabilità personale, la cura di sé e degli altri. Non è facile, ma è possibile.
Il caso Sgarbi può essere letto come un simbolo. Non della fine di un uomo, ma del crollo di un sistema basato sulla finzione e sull’immagine. E forse come l’opportunità di guardare noi stessi con maggiore onestà. Di accettare la fatica di essere autentici in un mondo che ci chiede costantemente di apparire. Per questo, anche quando non stimiamo una persona, possiamo scegliere di non giudicare, ma di comprendere. È un esercizio difficile, ma è il primo passo per costruire quel cambiamento che ogni giorno raccontiamo e sosteniamo.
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