Il prezzo che paghiamo, il documentario che spiega quanto ci costa la crisi climatica
Il documentario “Il prezzo che paghiamo” sta girando in tutta Italia mostrandoci quali sono i costi della crisi climatica e le responsabilità delle industrie fossili.

In breve
“Il prezzo che paghiamo” è il titolo di un documentario che indaga sui costi causati dalle politiche energetiche fondate sulle industrie fossili.
- Il documentario vuole al tempo stesso fornire dati che chiariscano la situazione e stimolare il pubblico all’azione.
- Uno dei temi centrali è la responsabilità delle grandi aziende petrolifere rispetto ai cambiamenti climatici e ai loro effetti.
- Vengono proposti anche esempi di resistenza e possibili alternative su piccola scala alle energie fossili.
Qual è il legame fra le industrie fossili e la crisi climatica? È questa una delle domande – dalla risposta non scontata – che si pone il documentario “Il prezzo che paghiamo”, un reportage realizzato da FADA, un collettivo di giornalisti freelance nato con l’obiettivo di approfondire i temi attuali cambiando la prospettiva narrativa. Alla regia la giornalista Sara Manisera, anche lei giornalista indipendente, che si occupa da anni di questioni di genere, conflitti civili, migrazioni e ambiente, lavorando principalmente fra Medio Oriente e Italia. Il lavoro è stato prodotto da GreenPeace e ReCommon.
Dall’Emilia-Romagna alla Basilicata
Il punto di vista adottato dall’autrice de “Il prezzo che paghiamo” è innovativo perché va alla ricerca dei responsabili della crisi climatica in un tentativo di unire il giornalismo d’inchiesta alla giustizia climatica. Il viaggio parte dai territori colpiti dall’alluvione dell’Emilia-Romagna, con un’intervista a Maria, agricoltrice locale, per poi arrivare fino alla Basilicata, dove è presente il più grande giacimento petrolifero in terraferma di tutta l’Europa.
C’è un filo rosso che unisce Maria e la Basilicata ed è lo stesso che lega le industrie fossili alla crisi climatica: da una parte troviamo aziende che continuano a estrarre e vendere e petrolio, gas e carbone, la cui combustione provoca un aumento delle quantità di gas serra responsabili del cambiamento climatico; dall’altra troviamo le vittime di eventi estremi, spesso gente comune.
L’alluvione in Emilia-Romagna non è stata un’alluvione normale né un fenomeno ricorrente. Parliamo quindi di un’alluvione come “non normale”, laddove – secondo gli autori di World Weather Attribution – sono le precipitazioni cumulate nelle tre settimane prima dell’evento a rappresentare la miglior variabile per classificare la natura dell’evento stesso. Secondo gli studiosi, il volume delle piogge scese nei primi giorni di maggio in quella regione aveva dei valori estremi. Gli accademici sono molto cauti nell’attribuire le responsabilità di un singolo evento estremo solo ed esclusivamente alla crisi climatica e quello che viene spesso evidenziato è l’aumento sproporzionato delle quantità di anidride carbonica in atmosfera causata da attività umane, specialmente quelle legate alla combustione di petrolio, gas e carbone.
“Il prezzo che paghiamo”: racconto e denuncia
Il compito del documentario “Il prezzo che paghiamo” è quello di denunciare pubblicamente il ruolo delle aziende, le quali erano a conoscenza dell’impatto climatico delle loro attività già a partire dagli anni Settanta. In numerosi report veniva infatti evidenziata la correlazione fra l’estrazione dei combustibili fossili dovuta alle loro attività e l’innalzamento delle temperature.
“Il Prezzo che paghiamo” è un esempio di giornalismo costruttivo, indipendente e soprattutto lontano dalle influenze dei colossi petroliferi
Eni, Total e Exxon Mobil sapevano da più di quarant’anni che le loro attività avrebbero causato cambiamenti significativi sul clima del pianeta e, nonostante questo, hanno continuato a estrarre, vendere e bruciare petrolio e gas a ritmi e volumi più consistenti del passato. Il loro business, nonostante le evidenze scientifiche e le politiche orientate verso una transizione energetica, non è mai cambiato e non cambia tutt’ora, premendo l’acceleratore per aggiudicarsi gli ultimi giacimenti rimasti. Lo dimostra lo stesso piano industriale del cane a sei zampe, che continuerà a puntare sul gas come cuore pulsante del suo business e ad aumentare la produzione del 3/4% annuo fino al 2028.
Non solo i colossi dell’industria fossile hanno ignorato deliberatamente i danni climatici prevedibili, ma hanno anche modellato la narrativa pubblica sui cambiamenti climatici attraverso disinformazione, pubblicità ingannevoli, lobbying e donazioni a partiti ed esponenti politici per ritardare l’azione climatica. Prima cercavano di negare il fenomeno, oggi attribuiscono le colpe agli esseri umani e ai loro comportamenti. Ma abbiamo davvero tutti lo stesso grado di responsabilità?
“Il prezzo che paghiamo” mostra i dati del report “Time to pay the piper: Fossil fuel companies’ reparation for climate damages” dei ricercatori Marco Grasso e Richard Heede, i quali focalizzano l’attenzione sulla responsabilità finanziaria delle aziende fossili per i danni al clima. Lo studio analizza il prezzo del risarcimento dei ventuno maggiori produttori di combustibili fossili in base alla loro operatività e alle loro relative emissioni dal 1988 al 2022 e sulla situazione economica delle popolazioni dei paesi in cui sono situate. L’analisi vuole verificare e contabilizzare l’obbligo morale e sociale, sancito alla COP di Rio 1992, che richiede il pagamento dei danni ambientali a chi inquina, il famoso detto “chi inquina paga”.

Lo studio nasce come punto di partenza per una discussione aperta sulla responsabilità condivisa per i danni climatici e in particolare l’obbligo finanziario del settore dei combustibili fossili nei confronti delle vittime del clima. Secondo lo studio, citando le prime tre della lista, Saudi Aramco dovrebbe risarcire 1100 miliardi di dollari, Exxon Mobil 478 e Shell 424 miliardi di dollari nel periodo 2025-2050 a causa delle loro emissioni climalteranti. L’immagine qui sopra mostra una panoramica dei miliardi di dollari che ogni anno da oggi fino al 2050 dovrebbe risarcire le grandi imprese a causa del loro impatto sul clima.
La resistenza all’industria fossile
È difficile colmare il vuoto informativo sul tema quando la maggior parte delle testate giornalistiche italiane riceve fondi da Eni. Non a caso il cane a sei zampe sponsorizza eventi culturali e sportivi come il festival di Sanremo e la Nazionale di calcio, due delle cose più seguite in Italia. A ridarci la forza di cambiare le cose è la stessa Maria che, nonostante abbia perso tutti i raccolti, ci tiene a mostrare alcuni dei pochi alberi rimasti in piedi, riconoscendo alle radici un atto di resistenza e di speranza. Così come Camilla, attivista lucana, che da quando ha costruito la prima comunità solare in Basilicata si sente meno sola ad affrontare i colossi petroliferi vicini di casa.
“Il Prezzo che paghiamo” è un esempio di giornalismo costruttivo, indipendente e soprattutto lontano dalle influenze dei colossi petroliferi. Ridare giustizia, anche solo attraverso delle immagini in sequenza, è il primo passo affinché l’opinione pubblica sia libera e consapevole in grado di affrontare la crisi ambientale con maggiori strumenti di analisi. Sono già tante la proiezioni organizzate in tutta Italia, ma se il documentario non è ancora arrivato nel luogo dove vivi, puoi organizzarne la proiezione scrivendo una e-mail a info@ilprezzochepaghiamo.it.
Vuoi approfondire?
Qui puoi consultare il calendario delle proiezioni completo e in continuo aggiornamento.
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