Migrazioni ambientali: uno spettacolo racconta il dramma di chi scappa dai cambiamenti climatici
Cosa accade quando il teatro incontra i deserti, le alluvioni, i mari che avanzano? Davide Niccolini ha portato sul palco le storie delle migrazioni ambientali.

In breve
Le migrazioni ambientali sono reali, ma invisibili. Uno spettacolo le racconta:
- A Genova è andato in scena Hotspot. La storia di chi fugge, uno spettacolo che porta alla luce storie di chi scappa non da guerre, ma da catastrofi ambientali.
- La scenografia racconta il trauma delle migrazioni ambientali attraverso un’estetica povera e alienante.
- Vengono trasposte anche la difficoltà di comunicazione, dovute ai dialetti locali dei migranti, che ostacolano l’integrazione.
- Hotspot è nato all’interno del corso Terramare e rappresenta un teatro che non si limita a sensibilizzare, ma che forma, interroga e trasforma lo spettatore.
Fuggire non è solo partire. È l’inizio di una nuova narrazione. Davide Niccolini, attore diplomato al teatro Stabile di Genova, ci guida nel cuore di Hotspot. La storia di chi fugge, uno spettacolo che non rappresenta, ma attraversa le storie di esodi, anche quelli meno visibili: quelli delle migrazioni ambientali. Frutto del corso di teatro ambientale Terramare, giunto quest’anno alla sua nona edizione, lo spettacolo non è solo un viaggio tra confini e campi profughi. È una discesa nelle faglie della contemporaneità, dove la scena presta la voce a chi non ha più una terra da abitare. Lo abbiamo intervistato per capire come si scrive l’urgenza del presente.
Qual è stato il punto di partenza per la creazione del copione di “Hotspot. La storia di chi fugge”?
Il punto di partenza è stata la proposta ricevuta da Giovanni Di Stefano e Daniele Salvo, di Legambiente Giovani Energie, che mi hanno chiesto di riportare all’attenzione un tema già affrontato anni fa dal gruppo Terramare: quello delle isole sommerse. Abbiamo costruito una narrazione “agìta” sul palco, che si muovesse a partire da una vicenda immaginaria ma realistica: un gruppo di persone provenienti da isole non specificate approda in un altro Paese, dove vengono accolti.
Sappiamo bene che la crisi ambientale causa lo scioglimento dei ghiacciai, l’innalzamento del livello dei mari e la progressiva scomparsa di molte isole. Ma questo è solo il punto di partenza, già noto. Quello che invece resta nell’ombra sono le conseguenze sociali di questi eventi. Ed è proprio da qui che siamo partiti ad affrontare varie tematiche. Cosa accade davvero nei luoghi dove vengono accolti i rifugiati?

Ci siamo documentati e abbiamo scoperto che le procedure ricordano, per certi versi, quelle carcerarie: vengono scattate fotografie, assegnati numeri identificativi, distribuiti braccialetti con codici, raccolte le impronte digitali, effettuati colloqui. È un sistema freddo, alienante, che mette a dura prova la dignità delle persone.
Un altro nodo centrale che emerge in modo netto dallo spettacolo è la barriera linguistica.
Sì, spesso queste persone parlano dialetti locali difficili da comprendere e questo ostacola qualsiasi forma di integrazione o di semplice comprensione reciproca. È un tema che abbiamo voluto mettere in evidenza anche sul palco, sottolineando quanto la mancanza di un linguaggio condiviso renda ancora più isolante l’esperienza del migrante. Abbiamo scelto anche di inserire momenti più caricaturali, farseschi, per alleggerire un po’ la tensione.
Sono emersi anche aspetti più tecnici e poco conosciuti, come quello legato alla Convenzione di Ginevra del 1951.
Personalmente, prima di questo lavoro, non sapevo che tale convenzione non riconoscesse lo status di rifugiato climatico, perché nel 1951 il problema non esisteva o quantomeno non era ancora stato definito. Il punto è che da allora quel testo non è mai stato aggiornato. Così chi oggi è costretto a fuggire per motivi ambientali non può dichiararlo apertamente, perché non sarebbe legalmente riconosciuto. È costretto quindi a mentire, a inventarsi motivazioni legate alla guerra o ad altri conflitti, perché solo quelle garantiscono il riconoscimento dello status di rifugiato.

Eppure i problemi ambientali sono strettamente legati a quelli economici, politici, sociali. Ma restano fuori dal quadro giuridico.
Raccontare tutto questo è stato per noi un modo per accendere una luce su ciò che non si vede, su ciò che non si dice. E soprattutto su ciò che andrebbe cambiato.
I problemi ambientali d’altronde si intrecciano inevitabilmente con molte altre questioni sociali, culturali e politiche.
Sì. Per esempio, se l’innalzamento del livello del mare rende invivibile una piccola isola o una porzione di terra, le persone che ci abitano sono costrette a spostarsi, anche solo di pochi chilometri. Ma anche un piccolo spostamento può generare forti tensioni con le popolazioni autoctone della zona in cui arrivano. Nascono così nuovi conflitti, non più solo ambientali ma sociali, legati alla convivenza, all’accesso alle risorse, all’identità.
Molte persone si trovano costrette a dichiarare motivazioni false per giustificare la loro fuga: dicono di essere scappati dalla guerra, quando in realtà sono stati spinti via da un disastro ambientale. Ma è l’unico modo per ottenere accoglienza e protezione, perché le motivazioni climatiche non sono ancora riconosciute. A quel punto ci siamo chiesti: cosa accade a un gruppo quando deve scegliere tra dire la verità e raccontare una menzogna per sopravvivere? È un po’ come ne Il signore delle mosche: il gruppo può unirsi, disfarsi, trovare un equilibrio oppure cadere nel caos. Anche in questo caso è stato interessante esplorare le dinamiche interne, i meccanismi psicologici e collettivi che portano a prendere certe decisioni.
Per le storie che compongono lo spettacolo avete integrato elementi documentaristici nella drammaturgia?
Il testo è nato da zero, dalla classica pagina bianca, ed è stato scritto da me insieme a Simone Morini, uno dei partecipanti al progetto. Per costruirlo ho dovuto documentarmi molto, cercando di esplorare tutto ciò che poteva emergere da una storia come questa, anche perché in rete non si trova poi così tanto materiale sul tema. Alcuni riferimenti importanti sono stati un podcast e un libro che parlava delle isole Kiribati, da cui abbiamo tratto diverse suggestioni.

Fondamentale è stata poi la testimonianza di un’attivista, Fatemah Sultan, una giovane donna che lavora a stretto contatto con i rifugiati climatici nel centro Astalli di Trento. Abbiamo fatto una call con lei e ci ha raccontato moltissimo: dal conflitto linguistico alla dimensione più profonda dell’ingiustizia climatica. Fatemah ci ha fatto riflettere sul fatto che i problemi ambientali nascono spesso nel mondo occidentale, ma a pagarne le conseguenze sono soprattutto i Paesi in via di sviluppo, quelli dove vivono coloro che poi si trovano costretti a emigrare. Mentre noi no.
Nel frattempo io continuavo a studiare, leggere, cercare. È stato un lavoro molto arricchente anche dal punto di vista personale, che mi ha permesso di approfondire un argomento che, ammetto, conoscevo solo superficialmente. Torno a casa con un bagaglio di consapevolezza più grande, questo è certo.
Quali sono le scelte registiche che hai adottato per rappresentare la complessità del fenomeno migratorio?
Per quanto riguarda l’aspetto visivo e tecnico dello spettacolo – costumi, scenografia, trucco e luci – siamo partiti da zero, quindi è stato un lavoro completamente artigianale, costruito passo dopo passo. È stata preziosissima Giulia Ragno, una partecipante al corso, che mi ha affiancato come assistente e si è occupata sia della scenografia che dei costumi. Abbiamo scelto un’estetica semplice e povera, recuperando abiti dismessi che abbiamo strappato, rattoppato, macchiato: volevamo che raccontassero visivamente un vissuto, una fatica, una storia. Per il trucco abbiamo utilizzato materiali essenziali ma funzionali: colori, sporcature, sangue finto, tutto pensato per restituire fisicamente l’esperienza dei personaggi.
Raccontare tutto questo è stato per noi un modo per accendere una luce su ciò che non si vede, su ciò che non si dice. E che andrebbe cambiato
La scenografia voleva ricreare un ambiente alienante, quasi asettico, ispirato a uno spazio ospedaliero. Abbiamo scelto un linoleum bianco da stendere a terra e posizionato delle quinte per ridurre la profondità del palco. L’obiettivo era quello di realizzare una zona chiusa, claustrofobica, che restituisse quel senso di spaesamento. Anche per le luci abbiamo costruito un piano volto a creare un’atmosfera fredda, distante, che sottolineasse il disagio. Le luci cambiavano in modo netto nei momenti in cui i personaggi si rivolgevano direttamente al pubblico, creando uno straniamento funzionale alla narrazione.
La regia invece è nata in modo organico, quasi sempre durante le prove. A volte avevo delle idee precise già in mente, ma l’80% delle scelte registiche è emerso provando, ascoltando gli attori, rispondendo ai problemi e alle suggestioni che nascevano in sala. È un processo che da un lato è entusiasmante, dall’altro ti mette davanti alla classica domanda: “Ora come diavolo risolvo questa scena?”. Mi interessava molto lavorare sulla fisicità, inserire momenti corali e azioni, perché questi momenti più dinamici rispecchiano anche il mio approccio personale: come attore tendo a lavorare con il corpo, con l’energia. Non c’è stato un progetto registico rigido o prestabilito: tutto è nato dal fare.
Qual è stata la sfida più grande nel rappresentare le cause delle migrazioni ambientali, spesso meno visibili rispetto a guerre e conflitti?
La sfida più interessante è stata fare in modo di non cadere nella retorica brutta e banale. Abbiamo cercato di raccontare il mondo che i protagonisti hanno dovuto abbandonare, sempre con un po’ di distacco, cercando al tempo stesso di dare degli spunti concreti affinché il pubblico, una volta uscito da teatro, tornasse a casa conoscendo qualcosa in più. In un modo spero non flagellante per gli attori e conseguentemente per gli spettatori.

Quali reazioni avete osservato nel pubblico durante la rappresentazione?
Io ero in fondo al teatro e ho notato un pubblico estremamente attento, che non credo si aspettasse uno spettacolo del genere.
Avete in programma di portare lo spettacolo in contesti educativi o comunitari?
Quando lavori tanto su un progetto, poi è bello che abbia un po’ di vita. A settembre faremo una replica al parco di Casa Gavoglio e mi piacerebbe molto anche portarlo in altri contesti, magari nelle scuole superiori, con delle mattinèe per i ragazzi. Secondo me il teatro non è soltanto in sala, ci sono tantissime forme che possono aiutare a fare qualcosa in più e a raggiungere più persone.
Come immagini l’evoluzione di un teatro impegnato su questioni sociali e ambientali nei prossimi anni?
Io credo che questo tipo di approccio sarà sempre più presente. Non riesco a pensare il contrario, perché sto notando una crescente sensibilità e una maggiore attenzione verso le tematiche ambientali e sociali. Non immagino un futuro in cui queste cose andranno a diminuire, anzi. C’è anche un altro aspetto importante poi: la bellezza. Può sembrare banale, ma dove manca bellezza, lo strumento teatrale rischia di fallire.
Lo spettatore deve assistere a qualcosa di forte, che lo emozioni, che lo trasformi. Per questo mi auguro che accanto a educatori ambientali e a chi lavora nel sociale, ci siano sempre più artisti capaci di fare teatro, musica, letteratura. Serve un lavoro di squadra, dove le competenze comunicative si affianchino a quelle educative e sociali, per dare davvero forza al messaggio.
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