Cosa vuol dire essere simpatici? Una riflessione filosofica sull’attitudine di porre domande
Enrico Liverani dell’associazione Filò – il filo del pensiero, riflette su cosa significa essere simpatici e sull’importanza sociale e relazionale di questa attitudine.

Tutti noi consideriamo la simpatia come una qualità socialmente importante, una virtù che teniamo sempre in considerazione nel giudicare gli esseri umani. Per simpatia non intendo solamente la capacità di far ridere e di divertire, ma di far star bene gli altri. Una persona è simpatica quando riesce a creare un clima di benessere, nel quale chi è presente si sente bene, a suo agio, e non vorrebbe andare via, vorrebbe anzi che quella situazione si prolungasse nel tempo.
Quando, però, proviamo a chiederci quali solo le proprietà della simpatia – in altri termini, cosa rende una persona simpatica –, è molto difficile riuscire a individuarle. Come accade per tutti gli altri comportamenti umani, tendiamo a riconoscere la simpatia di una persona in modo intuitivo, perché lo sentiamo, così come riconosciamo intuitivamente l’antipatia. Quello che mi propongo di fare in questo articolo è una breve analisi critica della nozione di simpatia.

Si potrebbero suggerire moltissime condizioni che rendono simpatica una persona: la capacità di ascolto, la gentilezza, l’atteggiamento umile e non soverchiante, la sobrietà dei modi, la scelta delle parole, il motto di spirito che sa distendere una situazione tesa, ecc. Sono indubbiamente tutti elementi importanti per definire una persona simpatica, ma in questo elenco viene trascurata una virtù fondamentale, ma non fondamentale nel senso di importante, quanto nel senso di condizione necessaria della simpatia: senza questa virtù, anche se tutte le altre sono presenti, una persona non può essere simpatica.
Sto parlando dell’attitudine di porre domande. Domande di qualsiasi tipo, sia personali e intime (‘Come ti sei sentito quando…?’, ecc.) sia narrative (‘Cosa ti è successo quella volta…?’) sia teoretiche (‘Cosa ne pensi di…?’). Qualunque sia la dimensione della domanda, la sua manifestazione è sempre un segno inconfondibile dell’interesse che gli altri nutrono per noi.
Se qualcuno mi pone una domanda, infatti, si sta volontariamente mettendo da parte e sta decidendo di mettere me in primo piano.
Escludendo da questa riflessione chi fa domande per ragioni professionali (giornalisti, procuratori, commissari di polizia, avvocati, insegnanti, ecc.), l’attività del chiedere mostra con chiarezza una predisposizione, un’attitudine psicologica ben precisa, che potremmo definire, innanzitutto, come la capacità di mettersi tra parentesi e di lasciare spazio all’altro (uno spazio mentale e uno spazio relazionale). Si tratta senza dubbio di qualcosa che assomiglia all’umiltà, ma non è solo quell’umiltà che ci rende poco ingombranti oppure quella che non vuole mettere in luce le proprie virtù. No, qui siamo di fronte ad un fenomeno relazionale diverso, più complesso e profondo.
Si tratta, piuttosto, di un atteggiamento di cura verso l’altro. Se qualcuno mi pone una domanda, infatti, si sta volontariamente mettendo da parte e sta decidendo di mettere me in primo piano; non per esaltarmi o, peggio, adularmi, ma per facilitare, tramite la sua arte del domandare, un processo di chiarificazione del mio pensiero (o del mio passato, nel caso di domande narrative, o delle mie emozioni, nel caso di domande personali). Chiedere serve proprio a questo, a guidarci verso la chiarezza, che significa anche verso la possibilità (ma qui, poi, dobbiamo fare tutto da soli) di saper compiere, conseguentemente a questo processo, delle scelte assennate.
Ovviamente ci sono domande autoreferenziali, cioè quelle domande che chiedono qualcosa sulla persona che pone la domanda (‘Cosa dovrei fare?’, ‘Cosa faresti al mio posto?’, ecc.). Sono domande assolutamente legittime, ci mancherebbe, ma hanno un’altra intenzione comunicativa rispetto a quella purissima e altruistica che ho appena descritto.
Anche se ci sono varie forme di cura, questa, che potremmo considerare di tipo dialogico, è una delle forme più alte e profonde, perché chi domanda si sta prendendo cura di quello che provo, che ho fatto o che penso.
Ecco perché ci risultano così simpatiche, gradevoli e amabili le persone che ci pongono domande. Ed ecco perché, ahimè, sono così poche le persone davvero simpatiche: perché sono poche le persone dotate di queste virtù epistemiche, come ci insegna un filone molto interessante della filosofia morale. Del resto, tutti noi siamo presi da una messe di impegni, preoccupazioni e pensieri e quasi mai ci troviamo nelle condizioni psicologiche di prenderci cura, tramite l’arte del porre domande, degli altri. Perciò, tutti noi risulteremo poco simpatici agli altri, non perché siamo scortesi, scorbutici o che altro, ma perché non riusciamo a trovare lo spazio (o, meglio, a decidere di trovare spazio) per gli altri.
Forse, riconoscere questa virtù (o la sua assenza) negli altri, ci ricorda quanto è necessario coltivarla per costruire rapporti autentici. In una parola, per essere simpatici agli altri.
Informazioni chiave
La simpatia non è solo far ridere
L’articolo sfata l’idea comune che la simpatia sia solo far ridere o mettere di buon umore. Essere simpatici significa creare uno spazio di benessere relazionale in cui gli altri si sentono accolti e valorizzati. È una qualità sottile, legata a come facciamo sentire le persone più che a quanto le intratteniamo.
L’arte di fare domande: il cuore della simpatia
Tra tutte le virtù associate alla simpatia (gentilezza, umiltà, ascolto), una emerge come fondante: la capacità di fare domande sincere. Domandare, nel senso profondo, significa mettere l’altro al centro, sospendere il proprio ego e creare un’occasione di chiarimento, comprensione e cura.
La simpatia come forma di cura (e rara virtù)
Fare domande autentiche è una forma dialogica di cura verso l’altro, ma anche una virtù epistemica: aiuta l’altro a riflettere su sé stesso. Proprio perché richiede tempo, attenzione e un certo disarmo emotivo, è così rara. Ecco perché le persone davvero simpatiche sono poche: perché poche sono disposte o capaci di mettere davvero da parte sé stesse.
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