Elettroshock, o meglio, la terapia elettroconvulsivante in Sardegna tra realtà clinica e proteste
La decisione della Asl di Oristano di riconoscere la terapia elettroconvulsivante (TEC), ha riacceso il dibattito sulla salute mentale. Tra opinioni contrastanti e realtà clinica, ne parliamo con la tecnica della riabilitazione psichiatrica e ricercatrice Alessandra Perra. Attenzione, alcune informazioni potrebbero urtare la vostra sensibilità.
In breve
In Sardegna si torna all’elettroshock, ma a quali condizioni? Correndo quali rischi?
- L’Asl di Oristano ha proposto di affidare un nuovo incarico a uno specialista nella terapia elettroconvulsivante, ovvero l’elettroshock.
- Molti addetti ai lavori hanno espresso forti dubbi su questa decisione, dal rischio di tornare alla logica manicomiale all’effettiva libertà della scelta.
- Le ragioni presentate da chi sostiene questa decisione sono che il ricorso all’elettroshock avverrebbe solo dopo il fallimento di terapie riabilitative e farmacologiche e su libera scelta del paziente.
- Rispetto al contesto isolano c’è anche la questione delle priorità: c’è chi pensa che le poche risorse di cui dispone la sanità regionale debbano essere destinate ad altri servizi, come la presa in carico di base.
Nell’immaginario nutrito dal cinema, dalla letteratura e dalla realtà dei racconti di chi ha vissuto gli orrori della logica manicomiale sulla propria pelle, l’elettroshock è un bagliore che annienta. Alda Merini, tra le voci più importanti della poesia e della denuncia psichiatrica del ‘900, chiamava la pratica dell’elettroshock “le fratture”, perché “non servivano che ad abbrutire il nostro spirito e le nostre menti”. Anche per questo la levata di scudi successiva alla notizia della decisione della Asl di Oristano di istituire un nuovo incarico dirigenziale di “altissima professionalità” a uno specialista nella terapia elettroconvulsivante (TEC), in gergo elettroshock, non sorprende.
L’elettroshock indossa il marchio indelebile del manicomio, della coercizione, della negazione di diritti e identità. “È un residuo manicomiale”, ha infatti dichiarato a corredo della notizia Gisella Trincas, presidente dell’Associazione sarda per l’attuazione della riforma psichiatrica (Asarp) e dell’Unasam, unione delle cinquanta associazioni impegnate nelle regioni italiane. “I pazienti psichiatrici hanno bisogno di adeguati servizi sanitari”, ha aggiunto, mentre dall’altra parte la posizione di Antonio Mignano, direttore del dipartimento di salute mentale oristanese, è altrettanto netta: “La pratichiamo perché funziona – ha dichiarato – siamo medici e se fosse dannosa mai sottoporremmo un paziente a questa terapia che qui ha dato risultati eclatanti”.
Notizia prima e dichiarazioni poi che hanno suscitato un dibattito sui temi della salute mentale e dell’accesso alle cure nell’Isola – gaudio e giubilo!, si potrebbe aprioristicamente dire data la scarsa attenzione solitamente riservata a queste tematiche –, e che ha portato anche alla nostra redazione una lettera di commento alla notizia, della quale condividiamo un estratto.

“L’elettroshock che viene somministrato oggi – ci scrivono – ha ben poco a che vedere con quello dei tempi di Basaglia. Si tratta di procedure controllate, che hanno degli effetti collaterali ma possono rappresentare una speranza quando tutto il resto è stato tentato senza successo. Si tratta di speranze in più, di possibilità in più, non in meno. Non costituiscono un obbligo per nessuno. Ma se possono portare un po’ di luce, in alcuni casi, siano benvenute”.
Le riflessioni nate in redazione dopo la lettura della lettera ricevuta e l’analisi di alcune delle opinioni espresse in merito online hanno evidenziato alcuni aspetti: in termini generali non si conosce la TEC e ciò che è mediamente noto su tale terapia non riguarda la sua applicazione odierna. Il consenso è sicuramente poi uno dei pilastri della discussione, ma non solo. Elemento forte è il fatto che la comunità che vive esperienze di sofferenza o bisogni legati alla salute mentale, necessita di servizi. E forse la TEC non è la prima nella lista.
Da elettroshock a elettroconvulsivante
A offrire un contributo utile alla comprensione della TEC nella pratica clinica contemporanea è Alessandra Perra, ricercatrice e tecnica della riabilitazione psichiatrica. «Oggi i metodi di applicazione della terapia elettroconvulsivante sono ben lontani dagli immaginari alimentati dal cinema, come in “Qualcuno volò sul nido del cuculo”», esordisce. «L’elettroshock prima veniva fatto in un contesto di non sicurezza e monitoraggio del paziente, era un’esperienza traumatica con forti rischi per la salute. Oggi invece tutto questo non è presente e risulta un trattamento di provata efficacia per soprattutto quelle depressioni cosiddette resistenti: vi si ricorre con il consenso della persona laddove le ulteriori pratiche previste dalle linee guida, come la psicoterapia o gli antidepressivi, non hanno funzionato».

Un tema che si interseca col diritto alla scelta in condizioni di sofferenza profonda, «dibattito che interroga la comunità scientifica e la società nel suo insieme e che – osserva Perra – non ha ancora trovato una sintesi condivisa». Quello che la Asl di Oristano in una nota diffusa con alcune “precisazioni sulla Terapia elettroconvulsivante” ha chiarito, è come “garantire questa terapia vuol dire poter contare su una ulteriore opzione di cura: il servizio psichiatrico di Oristano è, come tutti gli altri, proiettato principalmente sull’intervento riabilitativo e farmacologico”.
Sempre l’azienda oristanese – unico centro isolano di applicazione della TEC – ha sottolineato che “la procedura si effettua dopo aver condiviso tutte le informazioni necessarie con il paziente e i familiari, quindi su base volontaria, e previa firma di un consenso informato che può essere ritirato in qualunque momento. Il servizio TEC […] non è stato potenziato né rilanciato, ma solo formalmente riconosciuto dall’azienda: non è atteso perciò un aumento del numero di trattamenti rispetto al passato”.
L’avviso di selezione della Asl pubblicato il 10 giugno, alla voce “Tipologia di incarico e descrizione”, spiega che “l’incarico comporta il possesso di una elevata autonomia professionale e rappresenta un punto di riferimento di altissima professionalità per l’acquisizione, il consolidamento e la diffusione di competenze tecnicoprofessionali per le attività svolte nella suddetta struttura o di strutture tra loro coordinate, nell’ambito di specifici settori disciplinari”. Sempre la Asl ha precisato che considerare la TEC non significa “negare l’investimento delle risorse della salute mentale”, ma è proprio il tema delle priorità – tra interventi terapeutici, organizzazione dei servizi e cultura della salute mentale – a restare al centro del dibattito.
Le prese di posizioni ideologiche sono fondamentali per garantire i diritti
Cultura dominante
Accanto alla cronaca, emergono interrogativi più profondi. Per la dottoressa Perra, c’è un discorso «diverso» da fare che riguarda «come la cultura incentiva certi campi della ricerca e della sanità anziché altri e il ruolo che in questo scenario devono avere gli interlocutori politici come le associazioni: loro sono garanti di quella cultura che sostiene l’azione civile, che la salute mentale non debba essere affrontata solo nei luoghi sanitari ma si debba lavorare sulle determinanti sociali che sono le vere cause – in termini di esordi – delle patologie psichiatriche».
L’iter da percorrere è univoco: «Lavorare su scelte condivise, non ci può essere una scelta paternalista sul diritto alla salute. Ma le prese di posizioni ideologiche sono fondamentali per garantire i diritti. A chi eventualmente dice “io ho utilizzato la TEC e mi sono trovato bene”, bisogna chiedere se è stato libero di scegliere, se è stato messo nelle condizioni di attuare un processo di scelta condivisa e consapevole. Sono aspetti del codice deontologico che non possono venire meno, il consenso è necessario in ogni caso. Quello che noi dobbiamo fare è lavorare sulla responsabilità dell’individuo alla scelta».
E poi c’è la questione delle priorità. In Sardegna, come riporta l’Azienda ospedaliero-universitaria di Cagliari, nel biennio 2021/22 il dato sui casi di depressione risulta essere il più alto in Italia. Anche “quando si puntano i riflettori sulla diffusione dei disturbi mentali, la Sardegna si colloca nella fascia alta di prevalenza annuale per quanto riguarda le principali patologie”. «Ora – commenta Perra – in un’ottica di scarsità di risorse, in termini generali quanto ha senso investire in un bisogno minimo in termini di richiesta, quando abbiamo dei servizi che dovrebbero garantire i LEA [Livelli Essenziali di Assistenza ndr] ma nella realtà non riescono a occuparsi delle persone neanche attraverso una presa in carico di base?».

A diffondere i dati sulla TEC è la stessa Asl di Oristano: nel 2023 il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura ha trattato sette persone, nel 2024 sei persone, nel 2025 due persone per sedute di mantenimento. Un paziente su cento viene trattato con TEC. Ma il nodo vero non è solo la TEC: è la direzione verso cui si muove la sanità pubblica – anche – in ambito psichiatrico.
Per Perra, quello che serve sono «fondi per i centri di salute mentale che non riescono a coprire tutti i territori, l’incremento di psicologi, psichiatri e terapisti della riabilitazione psichiatrica». E rilancia: «Deve essere anche una battaglia ideologica. Siamo in un periodo storico molto complesso, dobbiamo domandarci in che tipo di cultura viviamo noi e come questa incentiva le decisioni politiche. Quando le destre avanzano gli strumenti di coercizione in salute mentale sono più utilizzati – ricordiamoci sempre che nei manicomi non ci finivano solo i cosiddetti pazzi, ma anche gli oppositori politici. Il ritorno a termini di coercizione, sicurezza, controllo, in questo periodo storico, non sarebbe quindi un caso. Bisogna esserci».
La sintesi è una chiamata alla partecipazione umana. «Un tempo l’elettroshock era utilizzato per lobotomizzare le menti, veniva compromessa la capacità cerebrale della persona; oggi non è più così. La questione più dirompente è però l’evitare oggi di ricorrere culturalmente – quindi anche in termini di decisioni politiche – a interventi che sono marginali, così come ad esempio puntare solo sugli psicofarmaci. Sappiamo che le determinanti sociali sono la base – conclude la dottoressa Alessandra Perra – sarebbe quindi meglio che ovunque si investisse sulla prevenzione e su un diritto alla cura attento e reale».










Commenta l'articolo
Per commentare gli articoli registrati a Italia che Cambia oppure accedi
RegistratiSei già registrato?
Accedi