Il cantautore Niccolò Agliardi: “Vi racconto la storia della moglie che ha perdonato l’assassino del marito”
Nel suo podcast il cantautore Niccolò Agliardi ha dato voce alla storia di Lucia, vedova che ha perdonato e accolto come un figlio l’assassino di suo marito.
In breve
Perdono, pentimento, giustizia riparativa e libero arbitrio i temi di cui parla Niccolò Agliardi nel podcast “L’abbraccio che ripara”.
- Nel podcast che conduce, il cantautore Niccolò Agliardi ha raccontato la storia di una donna, Lucia, e del giovane rapinatore che ha ucciso il marito di lei.
- Attraverso la giustizia riparativa la vedova ha perdonato e accolto come un figlio l’assassino del marito.
- Oltre alle difficoltà interiori, Lucia ha dovuto affrontare anche quelle incontrate nel suo ambiente di riferimento, quello dell’attivismo antimafia.
- Questa vicenda stimola profonde riflessioni sul senso della giustizia, sulla redenzione e sul perdono.
- Tali riflessioni possono essere utili non solo per ripensare il modello carcerario italiano, ma anche come strumento di autoanalisi per ciascuno di noi.
I protagonisti del racconto che vi propongo oggi sono quattro. Gaetano, detto Mimmo, guardia giurata tragicamente uccisa durante un tentativo di rapina a Napoli, in una notte dell’ormai lontano 2009. Antonio, 17enne, condannato a ventidue anni di carcere proprio come responsabile di quell’omicidio. Lucia Montanino, vedova di Mimmo, che attraverso la giustizia riparativa ha incontrato Antonio e ha trovato la forza di perdonarlo, addirittura di accoglierlo come un figlio. E infine Niccolò Agliardi, cantautore, compositore, scrittore, che questa straordinaria storia vera di umanità l’ha raccontata e fatta conoscere a molti – compreso il sottoscritto – attraverso il podcast L’abbraccio che ripara – Perdonare un delitto.
«Non mi considero un podcaster, nel senso che non svolgo questa attività in maniera seriale», mi spiega Niccolò Agliardi. «La mia unica esperienza precedente risaliva al podcast “A domani”, in cui per la prima volta mi sono misurato con questo strumento, per raccontare una storia che mi aveva molto colpito e che aveva ottenuto un successo inaspettato. Nei mesi successivi gli ascoltatori mi hanno proposto quasi settimanalmente delle altre vicende di cui mi sarei potuto occupare. Ma quella giusta l’ho incontrata una sera, dopo un concerto, grazie a una signora che me l’ha fatta conoscere mentre mi riaccompagnava in stazione».
Che fosse la storia giusta l’ha capito perché è stata capace di toccare – parlando di un musicista, la metafora è fin troppo scontata – una sua corda molto personale: «Il mio percorso privato mi ha portato a diventare papà affidatario. Conosco la fatica di accogliere in casa una persona che, fino a quel momento, ha avuto una vita agli antipodi rispetto alla tua. Quindi scoprire che una donna ha deciso di diventare addirittura la madre dell’assassino di suo marito mi è sembrata la faccia più estrema di questo fenomeno».

E poi ad aleggiare su tutta questa vicenda c’era un tema ancora più grande, quello del perdono, con il quale più volte Niccolò si è misurato: «Mi sono sempre domandato quanto sia effettivamente salvifico, in grado di depurare l’animo umano, di ricollocare le vite sui loro binari. Penso al perdono più famoso, quello di Gesù, e mi dico che a lui non andò benissimo. Una risposta definitiva io non la so dare, ma in compenso raccontando questa storia ho capito qualcosa di più: che il perdono non è visibile e soprattutto non è necessario, è sempre una scelta».
Una scelta – quella di perdonare l’omicida del suo coniuge – che per Lucia, pur essendo scaturita dal profondo del suo animo, si è rivelata tutt’altro che semplice e scontata, anzi è stata oggetto di moltissimi, comprensibili ripensamenti: «Ricordiamoci che lei stessa era un’attivista all’interno delle associazioni che raccolgono le vittime innocenti dei crimini di mafia. Quindi accogliere Antonio, un figlio della camorra, significava, anche agli occhi delle persone che come lei partecipano a questi collettivi, andare a braccetto proprio con uno di quelli contro cui combattono, uno di quelli che uccidono le loro madri, padri, mogli, mariti, figli, amici. Ci vogliono molto coraggio, libertà, indipendenza, forza di volontà per affrontare non solo il dolore, ma anche il dissenso degli altri».
Personalmente, in questo dissenso vedo i sintomi di un forte pregiudizio culturale. Mi spiego. Siamo abituati a pensare che il modo migliore per contrastare il male sia ripagarlo con la stessa moneta, cioè combatterlo con la forza. Eppure mettere alla gogna il colpevole, farlo soffrire nella convinzione che ciò gli permetta di espiare le sue malefatte, produce un sicuro effetto collaterale: infliggere altro dolore, invece di attenuarlo. E se invece lo curassimo con il suo antidoto, con il suo esatto contrario, cioè l’amore?

È proprio questo l’ideale che porta avanti la giustizia riparativa, quella teoria giuridica che punta, cioè, a spingere il condannato a rimediare concretamente, attivamente ai danni commessi. Invece di contraccambiare un gesto negativo con altra negatività, veicola valori positivi; invece di restare paralizzata nel passato, guarda al futuro; invece di infliggere nuove sofferenze, punta a rimarginare le ferite.
Niccolò Agliardi tratta a lungo questo tema nel suo podcast, anche perché è stata proprio la giustizia riparativa a favorire il primo incontro tra Luisa e Antonio: «C’è da fare una netta distinzione tra perdono umano e giuridico», precisa l’autore. «La giustizia riparativa riguarda pochissimo il perdono: semmai c’entrano la riconciliazione, la mediazione, il tentativo di affrontare il trauma da un altro punto di vista, di alleviare due grandi dolori al fine di ripristinare sia il reo che la vittima all’interno della società. Però bisogna stare attenti: il perdono non può essere la risposta sociale a qualsiasi misfatto, altrimenti rischia di passare il concetto dell’impunità».
Ovvio: come abbiamo detto il perdono non può essere dovuto, né tantomeno automatico, al contrario può avvenire solo a fronte di un percorso da parte del colpevole, fatto di assunzione della responsabilità, redenzione, riparazione del danno per quanto possibile. Eppure i dati ci insegnano che la durezza delle pene non riesce quasi mai a generare quell’effetto dissuasivo che noi ci aspetteremmo. Dunque non sarebbe più conveniente, prima ancora che più giusto, per la nostra società puntare più sul reinserimento dei condannati che sulla loro punizione – come del resto prevede, tristemente inapplicata, anche la nostra Costituzione?
«Personalmente sono un grande sostenitore del libero arbitrio», sostiene Niccolò Agliardi. «Sono sempre più convinto che ciascuno di noi sia il fabbro del proprio destino. Sta a noi decidere di restituire il bene che abbiamo ricevuto, o comunque metterlo in circolo anche se ne abbiamo ricevuto poco. Quindi può anche esistere il caso in cui la società prova a rimediare, a rattoppare, a educare, eppure il singolo decide di continuare a delinquere. Parlo da padre: in una famiglia, come nella società, esistono delle regole. Ai figli, che devono crescere e spesso sbagliano, bisogna dare un perimetro con confini definiti».

Niccolò butta lì quasi per caso, in mezzo al discorso, un paragone che io però trovo bellissimo, quello tra la giustizia sociale e quella familiare. Pensateci: il padre o la madre, quando i figli sbagliano, li puniscono, li correggono, ma non per questo smettono di amarli. A me piacerebbe tantissimo vivere in una società che tratti i suoi cittadini che delinquono con l’amore del buon genitore, invece che come scarti umani da buttare in un cassonetto.
«Mi viene in mente una persona in particolare a cui ho dato voce in questo racconto – prosegue lui sulla stessa linea –: il magistrato Riccio, donna, madre, di cui anche quando parla in termini giuridici si evince la dolcezza profondissima. Lei è esattamente di questo avviso, ma si scontra con un dato di fatto: esistono persone che, dopo aver compreso il delitto commesso, si pentono e chiedono perdono e altre che invece tornano a commettere altri delitti».
Come avrete ormai capito, Niccolò Agliardi esprime una posizione più cauta e sfumata della mia – merce rara e preziosa nell’epoca delle certezze irrevocabili e urlate ai quattro venti. Alle mie petizioni di principio contrappone i suoi dubbi, non solo umanamente giustificati, ma anche intellettualmente stimolanti. Dunque provo a rispondergli così: una percentuale di recidiva è sempre fisiologica e ineliminabile, ma i dati – ancora loro – ci dimostrano che il carcere non è lo strumento migliore per ridurla. Al contrario, addirittura la amplifica rispetto alle pene alternative: i condannati che hanno scontato almeno una parte della sentenza fuori dalla prigione infatti tendono a tornare a delinquere oltre tre volte meno degli altri (per la precisione il 16% contro il 68%).
«Hai ragione – conferma –, stiamo toccando concetti così alti e difficili da definire che non posso che risponderti in base a quello che ho scoperto e compreso attraverso questo mio viaggio nella storia di Lucia e Antonio. Come essere umano, anche io cambio idea e opinione in base a ciò che vivo. Inevitabilmente, raccontare il dramma, il dolore e la fatica di chi ha subìto lacerazioni così potenti mi ha fatto empatizzare con le vittime, non con i carnefici».
Non sarebbe più conveniente, prima ancora che più giusto, per la nostra società puntare più sul reinserimento dei condannati che sulla loro punizione?
Eppure – forse perché qualche lacerazione, più o meno intenzionalmente, nella mia vita l’ho inferta pure io – a me viene spontaneo empatizzare anche con coloro che sbagliano, che sono umani tanto quanto le vittime e spesso soffrono altrettanto. Niccolò non nasconde di avere subìto il «fascino» del perdono, un fascino che attraverso il suo podcast ha saputo raccontare magistralmente. Ma la sua rimane una visione più relativa, figlia probabilmente dell’animo inquieto dell’artista, unito a una mente che non smette di interrogarsi – che, pur senza conoscerlo, mi sembra di notare in controluce attraverso le sue parole.
«Considero il perdono un fenomeno straordinario, nel senso di “non ordinario”, che non può essere calendarizzato: come l’eclissi di Luna, l’aurora boreale, un mare stupendo sotto al tramonto, la nascita di un figlio», afferma. Su questo punto ci troviamo d’accordo. Sono tutti fenomeni straordinari quelli che elenca così poeticamente, ma che pure accadono ogni giorno nel mondo. Dunque, non potremmo anche tutti noi, con la stessa frequenza, darci la possibilità di perdonare nelle nostre vite quotidiane o almeno provarci?
«Per me perdono significa confronto», conclude Niccolò Agliardi. «Per mia fortuna, non credo che nessuno mi abbia messo nella condizione di dover perdonare alcunché. Qualche torto l’ho subìto, ma non credo per cattiveria, quanto più per errore, distrazione, mancanza di riconoscenza. Quindi se parlo della mia vita ridefinisco il perimetro: mi riferisco a piccoli inciampi, quindi anche a piccoli perdoni. In questo caso penso che l’avvicinamento più significativo nasca dal racconto delle reciproche posizioni e dal tentativo di capirsi. In questi termini può esistere la riconciliazione, un termine che ho imparato a usare, prima di ricorrere a quello solenne del perdono».










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