«Mi unisco alla Global Sumud Flotilla perché non posso restare in silenzio». Intervista al pacifista Marco Loi
Da Villaputzu a Gaza passando per Tunisi: Marco Loi, pacifista sardo, racconta la sua scelta di unirsi alla Global Sumud Flotilla.
Iniziare l’anno nuovo di settembre con buoni propositi, come quello di rompere un assedio – o almeno provarci – prendendo parte alla più grande missione civile internazionale via mare mai vista. Anche dalla Sardegna c’è chi si dirige verso Gaza, dentro quell’arcipelago mobile di resistenza e solidarietà umana che è la Global Sumud Flotilla. Si salpa insieme da 44 Paesi, con 300 tonnellate di aiuti umanitari raccolti per i gazawi; ma nel bagaglio ci sono anche speranze, determinazione, rabbia che spinge all’azione e soprattutto, una consapevolezza che – come la rotta – è collettiva.
Il doversi incontrare «per unirci al popolo palestinese oppresso, contro il genocidio». Marco Loi – pacifista sardo e membro della Global Sumud Flotilla – il perché della sua partenza dal porto di Cagliari lo racconta così. L’intervista avviene via chat e inizia all’arrivo a Tunisi. Un dialogo fatto di risposte brevi, concise e dirette che trova spazio notte e giorno nelle fugaci pause tra organizzazione e training pre-partenza, spalmate nelle 48 ore che precedono la salpata odierna per Gaza.
A cosa serve il training che state seguendo a Tunisi?
A evitare le violenze dei militari in caso di abbordaggio. Quello del 2 settembre è stato teorico e psicologico, il giorno successivo quello fisico. Ci impegna buona parte della giornata.

Chi c’è in questo momento a Tunisi?
Siamo qualche centinaio di persone da molti paesi europei e un po’ da tutto il mondo, di varie età. Non conosco i numeri esatti, siamo una flotta composta in totale da circa 700 persone.
Persone militanti? O attiviste? Marco Loi, lei in questo caso come si definisce?
Io mi sento pacifista, attivista per la nonviolenza. Contro i soprusi e gli abusi.
Qual è l’umore generale? Qua ci sono orgoglio, gratitudine ma c’è anche preoccupazione: il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir ha presentato al governo di Netanyhau un piano per fermare la Global Sumud Flotilla che prevede arresti per gli attivisti – verranno trattati come fossero terroristi, ha dichiarato – con una detenzione prolungata nelle prigioni israeliane di Ketziot e Damon.
Siamo coscienti dei rischi e consideriamo le minacce – di essere arrestati e non solo, purtroppo – un segno di debolezza. Stiamo uniti tutti sotto la bandiera dell’umanità. E l’umore sale, anche perché nel 2025 non si può essere considerati come terroristi portando alimenti e medicinali. Terrorista è chi si impone con la forza fuori da tutte le leggi civili e umane.
Ritorniamo a casa: dalla Sardegna è partito solo lei?
Verso la Global Sumud Flotilla, sì. Insieme a me ci sono un pacifista di Berlino e un pacifista del Belgio. Siamo partiti domenica e arrivati a Tunisi alle prime ore di martedì 2, abbiamo fatto 35 ore di navigazione col mare tutt’altro che calmo. Con noi all’andata dal porto di Cagliari c’erano anche il comandante e il marinaio dell’imbarcazione che stiamo utilizzando, che non potendo andare a Gaza si sono offerti di portare la barca fino a Tunisi per poi ritornare a Roma, regalando il loro tempo e la loro professionalità per la causa.

Perché la scelta di partire?
Per rompere l’embargo illegale, portare loro sostegno e aprire un canale che serva a far arrivare gli aiuti al popolo palestinese oppresso. Ho scelto di partire perché non riesco a vivere sereno nella mia cara Sardegna mentre bambini, donne, uomini, civili subiscono il loro stesso genocidio davanti agli occhi di tutti noi. Nel mio piccolo ho voluto da un lato contribuire, dall’altra anche dissociarmi dalle violenze, rappresentando quella parte di popolazione che come me soffre nel sapere ciò che accade in Palestina e vuole continuare a dire basta. Uno dei motivi principali che ha spinto tanti a imbarcarsi è mostrare la solidarietà dei popoli contro i soprusi, dissociandosi dalle scelte dei governi silenti.
La Global Sumud Flotilla è colei che deve rompere l’assedio. Come immaginate l’arrivo?
Non c’è un arrivo immaginario, soprattutto perché molto purtroppo dipenderà dalla situazione che troveremo. Le barche sono allestite nella tutela delle leggi per preservare la sicurezza di tutti i pacifisti a bordo, ma il rischio di essere fermati – e non solo – c’è. Il silenzio però è molto più pericoloso.

Nelle varie interviste e approfondimenti realizzati come Sardegna Che Cambia in merito a quanto accade in Palestina, è emerso sempre il tema della complicità. Il sentirsi corresponsabili quindi, non solo in quanto occidente coloniale ma soprattutto perché isola non in guerra ma di guerra. Cresciamo insieme al 65% del demanio militare italiano, al più grande poligono sperimentale e di addestramento militare in Europa, alla cosiddetta fabbrica di bombe Rwm, alle esercitazioni militari internazionali; si trova tutto in Sardegna. Sono convivenze che pesano nel momento in cui si deve scegliere se salpare per una missione civile internazionale o no?
Ovviamente come sardo mi piacerebbe che la mia Isola esportasse la sua cultura e non strumenti di morte. Devo dire però con sincerità che non mi sento tanto complice, principalmente perché i miei genitori mi hanno insegnato fin da piccolo di aiutare le persone in difficoltà. Mi sentirei davvero complice se restassi in silenzio, questo sì.










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