1 Luglio 2025 | Tempo lettura: 4 minuti

Contro la brutalità, il linguaggio è resistenza: scrivere come si cura, parlare come si accoglie

Le parole non sono neutre: possono curare o ferire, costruire ponti o innalzare muri.

Autore: Michela Calledda
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Viviamo dentro un tempo sfigurato. Un tempo in cui ogni giorno accadono cose così violente, così ingiuste, così assurde che il cuore fatica a stare al passo e la mente arranca. Ci svegliamo con le notizie di un nuovo bombardamento, un’altra nave bloccata, un’altra legge punitiva, un’altra donna uccisa. E mentre fuori piovono macerie, dentro cresce un tumulto che ha fame di sfogo. Vorremmo gridare, urlare tutto, scrivere senza filtri. Invece a volte bisogna respirare e scegliere. Anche – soprattutto – le parole.

Perché le parole non sono mai innocue. Non sono semplici strumenti con cui raccontare la realtà. Sono materia viva che la plasma, la costruisce, la legittima. Le parole sono politica prima ancora della politica. Sono esse a stabilire cosa può essere detto e cosa no, chi merita umanità e chi viene disumanizzato, quali vite valgono e quali possono finire nell’indifferenza. Non è un caso se ogni guerra comincia sempre con una battaglia per il linguaggio. Prima ancora di sparare, si costruisce il nemico: lo si svuota di volto, lo si priva di storia, lo si riduce a sagoma. Le parole diventano arma: “terrorista”, “invasore”, “feccia”, “infedele”. Poi vengono le bombe e sembrano solo la logica conseguenza.

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Immagine di repertorio Canva

Il linguaggio, la prima linea

Anche oggi, in questo tempo segnato da una “guerra mondiale a pezzi”, il linguaggio è la prima linea. È nel modo in cui raccontiamo ciò che accade a Gaza, a Rafah, nei CPR italiani, nelle carceri, nelle scuole abbandonate. È nel tono con cui si parla di povertà, di migrazioni, di salute mentale, di resistenza. È nel sarcasmo livido di certi giornali, nella semplificazione velenosa dei talk show, nella retorica dell’odio che si fa senso comune.

Scegliere parole pulite, attente, non è buonismo. È una forma di militanza. È dire: non voglio somigliare a chi semina disprezzo. Non voglio partecipare al gioco della riduzione, del nemico facile, dell’ingiustizia spiegata in due righe. Non voglio scrivere come si spara. La frustrazione che ci abita è reale e sarebbe legittimo darle voce. Ma tra la voce e lo sfogo c’è una differenza enorme. Lo sfogo è immediato, viscerale, reagisce al colpo. La voce invece è qualcosa che si costruisce: che attraversa il pensiero, la storia, la coscienza. Scrivere in questo tempo è, allora, un atto di resistenza contro il rumore.

Neutralità è complicità

Non si tratta di parlare in modo neutro – perché la neutralità, in tempi ingiusti, è solo un altro nome per la complicità. Si tratta piuttosto di trovare un modo per dire la verità senza somigliare alla violenza che vogliamo combattere. Di usare le parole per aprire, non per chiudere. Per accogliere, non per cacciare. Per comprendere senza giustificare, per denunciare senza disumanizzare.

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Immagine di repertorio Canva

C’è un’eco forte oggi di ciò che Gramsci chiamava “pessimismo dell’intelligenza e ottimismo della volontà”. Sappiamo che il mondo è attraversato da forze enormi, che lo scontro è feroce, che chi domina ha strumenti smisurati. Ma c’è ancora qualcosa che possiamo scegliere: come stiamo nel mondo, come lo raccontiamo, con chi ci schieriamo. E le parole sono una parte fondamentale di questa scelta.

Le parole sono anche quello che resta. Quando i corpi tacciono, quando i libri vengono bruciati, quando i notiziari non raccontano, a salvarci – spesso – sono le parole conservate da chi ha saputo custodirle. Penso ai diari clandestini dei prigionieri, alle lettere dei partigiani, ai racconti dei profughi, alle testimonianze degli ultimi. Lì, nel linguaggio, è rimasta viva la possibilità di un altro mondo.

Per questo oggi bisogna scrivere come si cura. Parlare come si accoglie. Dare alle parole la possibilità di essere ponte e non solo recinto. Il mondo non ha bisogno di altre urla, ma di voci. Non ha bisogno di chi fa clamore, ma di chi sa tenere accesa una luce di senso. Non c’è rivoluzione che non sia anche linguistica. E in tempi di guerra, scegliersi le parole è scegliersi il mondo.

Questo articolo fa parte della rubrica “Tutto il mondo è paese” a cura di Michela Calledda della Libreria La Giraffa di Siliqua.