Emozioni social tra apocalisse e focaccia scrocchiarella: cosa ci sta succedendo?
Abbiamo parlato con Alberto Cossu, sociologo dei media, per capire come i social trasformano la nostra percezione della realtà, tra paura, rimozione e bisogno umano di leggerezza.

In questi tempi di confusione, venti di guerra e paura, il nostro rapporto con i social media si trasforma e adatta in modi che vogliamo provare a comprendere meglio. Per questo motivo abbiamo intervistato Alberto Cossu, cagliaritano, sociologo dei media e dei fenomeni digitali, i cui studi si concentrano sull’impatto delle tecnologie visive e sensoriali sulle nostre vite quotidiane e sui modi in cui ci raccontiamo il mondo – e la sua fine. Partiamo dalla cronaca.
In Sardegna infatti, a Teulada, all’interno del programma Joint Stars, è stata effettuata recentemente una simulazione sulle capacità della difesa aerea dello Stato italiano. È emerso che nel giro di 7 minuti, Cagliari potrebbe essere fatalmente colpita dai missili russi senza che questo possa essere in alcun modo impedito. Se questa notizia fosse uscita dieci anni fa, tutti avremmo pensato a un futuro distopico; ma nel panorama geopolitico attuale è semplicemente una notizia. Da utente media sui social, mi sono osservata nel processo per cui ho visto il post, ho aperto il link, ho letto, ho incamerato e poi sono andata avanti con il mio solito scrolling.
Alberto Cossu, cosa ci sta succedendo secondo te?
Andrei indietro a quando la stampa si è diffusa, facendo in modo che gli esseri umani avessero accesso alla realtà del mondo per la maggior parte attraverso i mezzi di comunicazione. I quali, come sappiamo, hanno delle logiche ben precise e che abbiamo studiato per molto tempo: parlo della TV e della stampa in primis. Siamo abbastanza avvezzi all’idea che – come dice bene il mio professore di giornalismo – le notizie non esistono in natura: esistono i fatti e le notizie sono un processo molto umano di newsmaking, in cui conta anche il potenziale del momento. In questo momento si sentono chiaramente i venti di guerra e quindi la notizia si innesta bene.

Si diceva un tempo, no? Le tre S per vendere le notizie: sesso, soldi e sangue. Questo credo rientri nel sangue o nella paura del sangue. È l’evocazione di una paura, e chiaramente la paura è anche uno strumento potente di governo dell’opinione pubblica, soprattutto in relazione a quella che è una minaccia esterna. La domanda “Chi è il cattivo?” è utilissima per il framing, come si dice nella teoria dei media, cioè per inquadrare e dare un senso alle cose.
Tutto questo processo di newsmaking poi si innesta con la nostra esperienza quotidiana. E la nostra vita quotidiana è legata al fatto che noi accediamo alle notizie anche e soprattutto attraverso le app e i social media. Per anni siamo andati avanti con Twitter e Facebook, due mezzi occidentali basati su un predominio del testo sul visuale. Ora invece le app principali sono Instagram e TikTok, e in particolare TikTok ha portato un cambiamento radicale: non ci offre più tanto quello che piace ai nostri contatti o alla nostra cerchia sociale, ma l’algoritmo si basa su qualcos’altro, ossia sui nostri interessi. Questa transizione ci porta a chiederci quanto il nostro alter ego algoritmico ci rispecchi.
Un video di una focaccia scrocchiariella accanto allo sterminio che sta avvenendo a Gaza dice qualcosa della piattaforma, dei loro metodi per tenerci legati, ma ci parla anche del fatto che sanno che, facendoci vedere solo focacce, ci perderebbero. E quindi uniscono elementi apparentemente non collegati che riflettono anche i nostri interessi. Quello che esplorerei è questa relazione tra i contenuti generati dalle piattaforme – in un’ottica anche commerciale – e quello che rivelano della nostra identità: cioè il fatto di essere persone naturalmente inclini ad avere quel mix per cui non si riesce a vivere solo di apocalisse.
Dispositivi con cui noi ci relazioniamo con in fondo, gli stessi bisogni umani e di sopravvivenza
Mi viene in mente un parallelismo con i racconti di mia nonna rispetto al periodo della Seconda guerra mondiale, al periodo in cui era sfollata nel centro della Sardegna e agli aneddoti su nuove amicizie e i cibi diversi che aveva sperimentato. Come dire: non si smette di essere persone, di apprezzare una cosa buona da mangiare, di creare rapporti umani. Possiamo in qualche forma dire che siccome la nostra vita adesso si svolge in parte nei social media c’è uno specchio di questo?
Sono d’accordo con questa prospettiva di continuità che guarda a un modo diverso di essere chiaramente con dei dispositivi, con dei mezzi completamente differenti, però con cui noi ci relazioniamo con in fondo gli stessi bisogni umani e di sopravvivenza. Cerchiamo col poco che abbiamo di fare qualcosa di interessante, ma comunque pensiamo ad altro. Cioè c’è un bisogno chiaramente psichico, secondo me, di internalizzare, razionalizzare, distogliere lo sguardo, perché penso che non si possa veramente solo contemplare l’abisso. C’è bisogno sempre di una risposta e questa risposta arriva anche attraverso una combinazione anche di frivolezza dei contenuti che consumiamo.

Se dal punto di vista della quasi frivolezza o quantomeno dell’espressione più completa dell’essere umano abbiamo inquadrato la funzione dei social, possiamo invece dire che per certi aspetti le piattaforme abbiano incentivato l’attivismo? O almeno una presa di posizione rispetto ai fatti del mondo?
Di sicuro è cambiato molto il sentimento rispetto alle piattaforme. Agli inizi di Twitter mi sono occupato molto di studiare le piattaforme dal punto di vista dell’attivismo politico. Parliamo del periodo delle rivoluzioni arabe, quando per esempio l’Egitto chiudeva Internet ai propri utenti e Twitter rese possibile l’invio di SMS che venivano trasformati in tweet. Possiamo dire che c’è quindi già una storia da raccontare. Potremmo addirittura andare ancora indietro e parlare di Genova, un’altra epoca in cui però quel tipo di diffusione orizzontale delle informazioni era autogestita, mentre adesso parliamo di piattaforme proprietarie e con scopi largamente commerciali.
Piattaforme che hanno delle policy – a tal proposito ricordo i policy meetings di Facebook a cui ho avuto modo di partecipare e durante i quali ebbi modo di chiedere come facessero a distinguere le organizzazioni autorizzate a parlare di un certo argomento dalle altre. La risposta fu che sarebbe bastato guardare la lista delle organizzazioni terroristiche stilata dagli Stati Uniti.
Quindi c’è chiaramente una continuità politica forte tra quello che queste piattaforme nel passato hanno fatto, decidendo chi silenziare in modo strategico, così come è successo dopo il 7 ottobre e fino a poche settimane fa. Si può parlare di una doccia fredda per chi si aspettava inizialmente che questi strumenti potessero essere dei potenziatori dell’attivismo.

Questo non è accaduto, i social si sono evoluti in un’altra direzione e questo secondo me è successo per due movimenti: uno è stato spinto dalla logica della piattaforme che sono diventate commerciali e devono quindi fare soldi e vendere pubblicità per cui i contenuti problematici in cui c’è della dialettica anche forte, funzionano dal loro punto di vista e quindi sono stati messi in evidenza. Dall’altro lato si potrebbe indagare e discutere se ci sia stato un cambiamento del sentire, cioè siamo cambiati noi rispetto all’utilizzo che ne facciamo.
Chiaramente la pandemia e l’esposizione mediatica a un’Apocalisse costante – tra l’altro in parte reale, visti i milioni di persone che sono morte – ha forse portato a pensare che ci potesse essere dell’altro e qui è nata un’ulteriore trasformazione che ci ha portato oggi al discorso su TikTok e alla nuova logica dei video apparentemente senza senso.
La seconda parte dell’intervista sarà pubblicata la prossima settimana.
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