Un’attivista racconta il suo viaggio in Cisgiordania, fra aggressioni dei coloni e speranze di pace
Dalle campagne di Scicli alla Cisgiordania. Emozioni ed esperienze del viaggio dell’attivista Anna Rotolo, tra sopraffazione e amore per la vita.
In breve
L’attivista siciliana d’adozione Anna Rotolo è stata recentemente in Cisgiordania per toccare con mano la situazione fuori dalla Striscia di Gaza.
- In molte zone, come quella di Masafer Yatta, sono presenti colonie illegali israeliane abitate da coloni molto aggressivi.
- I coloni occupano rapidamente zone esterne alla colonia posizionando container abitativi e compiono azioni di intimidazione e danneggiamenti ai danni degli agricoltori e dei cittadini palestinesi.
- I volontari occidentali hanno un ruolo importante: spesso fanno da scudi umani accompagnando i pastori nei pascoli o i bambini a scuola, proteggendoli dalle aggressioni dei coloni.
- Anna ha conosciuto anche l’associazione israelo-palestinese Standing Together, che si occupa di diffondere una cultura di pace e di dialogo.
- Soprattutto in Israele il problema è educativo: i bambini crescono tra commemorazioni di disgrazie, non c’è spazio per la gioia, in una costruzione ideologica che mantiene vivo il trauma e l’odio.
Vive a Scicli da dieci anni. Originaria del Piemonte, dopo qualche tempo a Milano ha scelto il sole e la terra del sud per una vita in campagna. Nel suo lungo girovagare, Anna Rotolo non ha mai smesso di interessarsi alla questione palestinese, a partire dal 1982 durante la prima intifada con Arafat. Nel tempo però ha perso il contatto con l’attivismo e solo dopo il 7 ottobre 2023 qualcosa si è risvegliato in lei: ha ricominciato a leggere, informarsi, a seguire fino a decidere di partire.
Dall’11 al 22 settembre, insieme ad Assopace Palestina, ha vissuto un’esperienza intensa, profonda e trasformativa oltre ogni aspettativa. Un viaggio in Cisgiordania per vedere davvero come stanno i Palestinesi fuori Gaza, quel territorio che non sembra rientrare tra gli accordi di pace, molto controversi, celebrati da una buona parte di mondo come il capolavoro diplomatico di Donald Trump.
Anna, una volta atterrata ad Amman insieme ai suoi compagni di avventura – circa 40 tra giornalisti, attivisti, medici e avvocati – ha raggiunto Betlemme, il campo base dell’intero viaggio. Da lì un susseguirsi di incontri e visite in un’agenda fitta tra campi profughi, villaggi, organizzazioni locali, ma soprattutto tanta resistenza e accoglienza e la dura realtà dell’occupazione israeliana, tra violenza sistemica e aggressività dei coloni.

Masafer Yatta: la resistenza quotidiana
«Uno dei momenti più significativi l’abbiamo vissuto nella zona di Masafer Yatta, non molto lontano da Hebron, che comprende diversi villaggi palestinesi. A Umm al-Khair ci siamo raccolti in cerchio nel luogo dove è stato assassinato Awdah Hathaleen, l’insegnante, attivista e giornalista che aveva contribuito al documentario premio Oscar “No Other Land”. Suo fratello ci ha parlato con sorprendente umanità: “Crediamo nella giustizia, non cerchiamo vendetta. In questa terra c’è posto per tutti gli uomini liberi”», racconta Anna.
Parole che hanno spiazzato i partecipanti e le partecipanti del viaggio che si aspettavano rancore per tutti i soprusi e le angherie che devono fronteggiare giorno e notte e invece… «abbiamo trovato dolore, rabbia, trauma, ma mai vendetta. Solo la volontà di restare, di vivere», continua Anna.
Insieme al resto dei viaggiatori è stata testimone dell’assedio continuo dei coloni. Durante la visita al villaggio infatti un gruppo di coloni ha aggredito verbalmente il loro autista, che è stato costretto a spostare il mezzo con il quale viaggiavano. Tra i coloni c’era anche Yinon Levi, l’uomo ritenuto responsabile dell’omicidio di Awdah Hathaleen, già “sanzionato” da USA e UE per violazioni dei diritti umani contro i palestinesi. Insieme a lui altri coloni armati, poliziotti e l’esercito che dopo aver chiesto il passaporto ha esortato il gruppo a lasciare il villaggio, interrompendo tutte le altre attività in programma.
«Sembrava un mondo parallelo e surreale. Ci siamo trovati faccia a faccia con loro, noi da una parte, polizia ed esercito al centro, coloni armati più distanti. Ci filmavamo a vicenda. I coloni controllano tutto – nelle vicinanze c’è la grande colonia di Carmel –, si stanno espandendo attraverso la tecnica degli avamposti, costruiti illegalmente e poi legalizzati dalle autorità israeliane», continua Anna.

Una tecnica semplice: attraverso le ruspe si spiana il terreno – Yinon Levi è a capo di una di queste ditte che detengono i macchinari –, durante la notte arrivano i container presto trasformati in case in muratura, munite di cisterna dell’acqua e collegate alla colonia madre attraverso strade, così da tramutarle da avamposto a colonia, da illegale a legale e ricevere finanziamenti da parte del governo. I container sono abitati dai coloni d’assalto, quelli più aggressivi e fanatici, attratti anche dalla possibilità di vivere senza molti sforzi, con l’obiettivo di mandare via i palestinesi per avere a disposizione terre, case e armi.
Coloni, espansione e impunità in Cisgiordania
«I coloni più fanatici, spesso ebrei ultraortodossi, vivono sulle alture e scendono nei villaggi palestinesi per compiere raid notturni: uccidono bestiame, danneggiano le attrezzature agricole, molestano i bambini, occupano case. È una strategia psicologica. I palestinesi non riescono a dormire la notte, sono costretti a organizzare turni di guardia. Un’espansione senza sosta. Il nostro autista, tornato dopo un mese, ha trovato nuovi avamposti. Un tempo erano una minoranza, adesso non più. Con un elevato tasso di crescita demografica continuano ad aumentare infiltrandosi nella vita politica e sociale israeliana. Fanno anche quel lavoro sporco che i borghesi di Tel Aviv non farebbero», sottolinea Anna.
La Palestina mi ha insegnato che l’amore può essere radicale, che restare è un atto politico e che persino in mezzo alle macerie si può scegliere di seminare vita
E mentre l’attenzione del mondo è rivolta a Gaza, anche giustamente, ogni giorno qualche metro di terra continua a essere sottratto ai palestinesi che vivono sotto assedio, senza accesso all’acqua, senza elettricità, con le cisterne crivellate di proiettili. Anche le bandiere testimoniano una continua guerra di sopraffazione. Lungo le strade predominano quelle israeliane e quelle con la torre dei messianici che simboleggia la ricostruzione del tempio.
Ogni villaggio è chiuso, per uscire serve un permesso. Anna racconta di un sistema di apartheid legale e logistico. «Mi sembrava di essere in Black Mirror [una famosa fiction distopica, ndr]. Muri, fili spinati, check point per i palestinesi, mentre gli israeliani sono liberi di muoversi come vogliono, ma restano chiusi nella loro bolla. Abbiamo incontrato degli attivisti e dei cittadini durante un presidio sotto la casa di Netanyahu. Chiedevano la liberazione degli ostaggi e la fine della guerra. Non una parola a favore dei palestinesi. Non ammettono la soluzione che contempli l’esistenza di due stati. Un livello di negazione della realtà che non sembra vero», continua Anna.
Occupazione e negazione contro la forza della vita
L’incontro con gli attivisti di Standing Together, il movimento che riunisce cittadini ebrei e palestinesi di Israele per la pace, l’uguaglianza e la giustizia sociale, contro l’occupazione, è servito a spiegare la cultura dell’auto-vittimizzazione e dell’educazione alla paura con cui gli israeliani convivono. «Un bambino ebreo cresce tra commemorazioni di disgrazie, non c’è spazio per la gioia. Una costruzione ideologica che mantiene vivo il trauma e l’odio, impedendo ogni assunzione di responsabilità. E se si prova a parlarne, si invoca l’antisemitismo», sono le parole di un attivista di Standing Together.

Al contrario della forza, dell’amore per la vita e della tenacia del popolo palestinese. Ad Abusakr, ad esempio, hanno distrutto la casa – spesso sono ripari con lamiere e teli – 32 volte, subendo due demolizioni anche nello stesso giorno. Continua a ricostruirla e a piantare ulivi che vengono sistematicamente sradicati. Sua figlia, nata durante un abbattimento, si chiama Sumud, che in arabo significa “resistenza”. In questa forte contrapposizione mentale e reale i volontari internazionali costituiscono una sorta di scudo umano che offre protezione ai palestinesi: accompagnano i pastori nelle terre coltivate, i bambini a scuola, fanno turni di guardia durante la notte per permettere alle famiglie di dormire qualche ora.
«La presenza dei volontari, diminuita dal 7 ottobre in poi, è necessaria a seguito delle numerose e frequenti incursioni dei coloni, che solitamente non attaccano gli occidentali. In questo periodo – è in corso la raccolta delle olive e non solo – attraverso campagne come Faz3a, un’iniziativa a guida palestinese, si cerca di organizzare una forma di protezione civile internazionale richiamando attiviste e attivisti da tutto il mondo anche per difendere la cultura dei palestinesi», sottolinea Anna.
Rubare l’identità, goccia a goccia
Nella Valle del Giordano, oltre a rubare la terra e l’acqua, i coloni cercano anche di appropriarsi dell’identità culturale. Il timo, ad esempio, indispensabile insieme al sesamo per la miscela di spezie meglio conosciuta come zaatar, non può più essere raccolta dai palestinesi perché cresce in una “zona militare” e lo stesso zaatar è ora considerato una spezia israeliana. Così come per l’hummus. L’accesso all’acqua è sistematicamente negato: sorgenti recintate, tubi tagliati e scritte sui muri che recitano frasi come “L’acqua è nostra, voi non la vedrete più”.
«Un’aggressione contro un nemico immaginario. Nella società israeliana ci sono molta violenza e aggressività, anche tra ragazzi, mentre, senza mitizzare, ho sentito molto amore nelle comunità ferite dei palestinesi, che “si dicono pronti ad accogliere gli ebrei – come è già successo in passato – basta che la smettano di ammazzarci”», continua Anna. A Gerusalemme Est le famiglie vivono sotto sfratto permanente, nonostante case assegnate dall’ONU nel 1948. Lo Stato israeliano si appoggia a un sistema ibrido di leggi ottomane, inglesi e ad personam, usate all’occorrenza per giustificare espropri e demolizioni.

«Più di tutto, questo viaggio mi ha fatto ritrovare un senso di potere, dopo mesi di impotenza e frustrazione. Vedere i palestinesi, la loro umanità, la loro speranza, il loro legame profondo con la terra, mi ha fatto sentire utile. L’effetto voluto della propaganda è paralizzarci, ma la resistenza è contagiosa. La Palestina mi ha insegnato che l’amore può essere radicale, che restare è un atto politico, e che persino in mezzo alle macerie si può scegliere di seminare vita» è l’emozione di Anna.
Donne, bambini e resistenza in giro per la Cisgiordania
A Jenin nel campo profughi smantellato, i viaggiatori hanno incontrato The Freedom Theatre, fondato vent’anni fa da una donna ebrea israeliana per aiutare i bambini ad affrontare le difficoltà della vita quotidiana sotto occupazione. A Ramallah hanno visitato un centro legale che sostiene le donne vittime di violenze di genere. Molte ragazze abbandonano la scuola pur di non essere molestate ai checkpoint.
Le conseguenze di sfollamenti e demolizione, vincolati da ordini e multe, hanno un peso maggiore sulle donne: in una cultura patriarcale non solo vedono limitarsi il proprio campo di azione, ma diventano anche vittime della frustrazioni dei propri mariti umiliati, autori di violenza domestica. Tra gli incontri più illuminanti quello con Fadwa Barghouti, avvocata e moglie di Marwan Barghouti, il leader palestinese in carcere dal 2002, tra i più popolari durante la seconda intifada, considerato dai palestinesi il simbolo della resistenza all’occupazione. “Non c’è libertà senza amore e tutte le rivoluzioni sono romantiche perché ci vuole lo slancio dell’amore per realizzarle”, è il suo grido d’amore, resistenza e libertà.










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