“Nella colonia penale”, il film che indaga la realtà del carcere senza muri
Un racconto del film sulle colonie penali sarde della casa di produzione cagliaritana Mommotty e sostenuto dal Ministero della cultura, dalla Regione Autonoma della Sardegna e da Sardegna Film Commission.
In Sardegna sono presenti tre colonie penali attive. Sono luoghi in cui la detenzione si svolge all’aperto, tra lavoro agricolo, sorveglianza costante e isolamento geografico. E sono queste le ambientazioni del film “Nella colonia penale”, un’opera collettiva diretta da quattro registi – Ferruccio Gioia, Gaetano Crivaro, Silvia Perra e Alberto Diana – con episodi ambientati rispettivamente a Is Arenas, Isili, Mamone e all’Asinara. Il film permette di osservare dallo schermo un sistema carcerario poco noto, che mette in discussione il confine tra punizione e rieducazione, tra libertà e sorveglianza, tra umano e animale. Non si tratta di una narrazione giudicante, ma di un’indagine sulla realtà, osservata attraverso sguardi diversi.
Un’idea nata in reclusione
È il 2020, in piena pandemia. Tutto è fermo, ognuno chiuso in casa per via del Covid. I telegiornali riportano notizie di rivolte carcerarie, tensioni interne, celle sovraffollate. In quel clima sospeso, la casa di produzione Mommotty decide di proporre un progetto: raccontare il carcere, sì, ma da una prospettiva meno nota. Quella delle colonie penali sarde: luoghi dove la pena si sconta all’aperto, immersi nella natura, ma sempre sotto controllo. «Forse era la prima volta in cui chiunque iniziava a intuire cosa significa essere privati della libertà», racconta Gaetano Crivaro, che ha firmato l’episodio girato a Isili. L’idea iniziale sembra quasi un lavoro su commissione, ma durante le riprese qualcosa cambia. Il progetto si trasforma.
«Da un’idea produttiva è diventato un’urgenza personale. Abbiamo impiegato cinque anni per realizzarlo», aggiunge Crivaro. Anche Silvia Perra, che ha filmato nella colonia di Mamone, racconta un’evoluzione simile: da spinta collettiva a riflessione interiore. «La domanda centrale che mi sono posta è stata: dove mi colloco rispetto ai detenuti?», riflette oggi. E poi c’è la memoria lunga dei luoghi, che riaffiora attraverso le immagini. L’Asinara in particolare è un’isola che custodisce ancora il passato coloniale. «Le colonie penali rappresentano il lascito più evidente del colonialismo italiano in Sardegna», afferma Alberto Diana, che ha lavorato sull’isola dell’Asinara.

Il paradosso della libertà
La prima cosa che colpisce guardando il film è l’assenza di mura alte, sbarre minacciose. Può apparire un mondo aperto, ma basta restare un po’ di più per cogliere i segnali di una libertà solo apparente: una guardia che scruta da lontano, una telecamera appesa a un palo, il suono metallico di un badge che timbra l’ingresso al lavoro. «Entrando a Is Arenas, il confine più fragile che ho percepito è stato quello tra me, un uomo libero, e i detenuti», racconta Ferruccio Goia, regista dell’episodio girato lì. «Ho realizzato che noi e loro siamo entrambi persone vulnerabili, proprio come i confini che ci separano. Chiunque di noi potrebbe ritrovarsi al loro posto; basta un errore o una leggerezza».
Anche il lavoro, nelle colonie, diventa qualcosa di profondamente ambivalente. Attività agricola, pascolo, caseificio: «I detenuti appaiono sorprendentemente vicini a un lavoratore salariato. Ma senza ferie, né sindacato», osserva Silvia Perra. Nel film una scena sintetizza perfettamente questa ambiguità: un cartello, sobrio e burocratico, annuncia che i detenuti-lavoratori hanno diritto al riposo settimanale in cella. Un paradosso che fa riflettere: qui, la pausa dal lavoro coincide con il ritorno alla reclusione totale.
Gli animali, l’ultimo specchio della colonia penale
Fin dalle prime inquadrature, in “Nella colonia penale” gli animali popolano lo schermo. Agnelli, cinghiali, capre. Alcuni liberi, altri in gabbia. Inizialmente sembrano solo parte del paesaggio, ma pian piano assumono un peso simbolico. «L’animale è l’ultimo dei detenuti», afferma Crivaro. «Non si può mostrare la violenza sull’uomo, così si manifesta quella sull’animale. È diventata naturale, quasi ovvia».
“Nella colonia penale” non offre messaggi chiari, né risposte facili
Nell’episodio di “Nella colonia penale” girato all’Asinara, Alberto Diana esplora questo tema a fondo. L’isola oggi è un parco, ma le tracce della colonia penale restano. E gli animali – eredità vivente di quel passato – vengono oggi catturati e trasferiti perché considerati dannosi per l’habitat. «Perché, se sono liberi, vengono rinchiusi di nuovo?», si chiede Diana. «Il carcere è ancora vissuto come un luogo di igiene pubblica, dove nascondere ciò che è “troppo”, come gli animali sull’isola o i “marginali” nella società».
Tutto poi, nelle colonie, è ritmo. Sveglia, lavoro, pausa, ritorno. Un tempo che invece di scorrere e costruire, ristagna e si ripete. Crivaro lavora molto con il suono per trasmettere questa sensazione. Il rumore della timbratura dei cartellini, quello del metal detector, quello dell’elettroshock sugli agnelli. «È solo un suono, ma racconta moltissimo. È il suono del controllo, della ripetizione, della sorveglianza».
Anche i canti dei detenuti – presenti negli episodi di Gioia e Perra – non sono scene costruite. Sono momenti reali, spontanei, che arrivano quasi come una pausa spirituale, un momento di respiro. «Cantavano gospel, anche nella cappella vicino ai campi. È stato un momento fortissimo, da un punto di vista emotivo e visivo», racconta Perra. «Sono stati dei regali da parte loro», conferma Gioia.

Uno sguardo che interroga
Chi si aspetta un film in cui l’esperienza di detenzione sua romanzata resterà deluso o sorpreso. “Nella colonia penale” non racconta storie “criminali”, non indaga i reati, non cerca drammi da sceneggiare. Non c’è trama, non ci sono eroi, non ci sono cattivi. Solo uomini, lavoro, silenzi. «Il nostro film si concentra su ciò che nelle serie TV sarebbe scarto», afferma Crivaro. «Le colonie non hanno nulla a che vedere con la fiction. Sono luoghi di isolamento e fatica», ribadisce Diana.
Alla fine, “Nella colonia penale” non offre messaggi chiari né risposte facili. Non vuole “denunciare” né assolvere. Semplicemente chiede di guardare, di interrogarsi, di riflettere su che ciò che succede ai margini, perché anche i margini riguardano la collettività. La ripetizione del lavoro, il controllo, l’obbedienza dovuta in nome di un ordine da mantenere, la violenza nascosta, l’animale che osserva e il tempo che non passa. Sono tutte cose che esistono fuori dal carcere, dentro le nostre vite. E così, quando il film finisce, resta qualcosa. Non tanto un’immagine, ma una domanda. Forse la più difficile di tutte: che cosa significa, davvero, essere liberi?










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