Intervista alla divulgatrice Claudia Zedda: “Racconto quella Sardegna che secondo alcuni non esiste più”
Claudia Zedda, divulgatrice sarda, in questa intervista ripercorre il suo percorso tra spiritualità e divulgazione.

Protagonista della quinta puntata della rubrica che parla del rapporto tra i social e la vita reale è Claudia Zedda, scrittrice, antropologa, etnobotanica, fondatrice e docente della Janas Academy ovvero “L’Accademia che risveglia la jana che è in te”. Volto notissimo di Intagram, con circa 55mila follower all’attivo, racconta quotidianamente riti, miti ed erbe della Sardegna.
Claudia Zedda, come ti sei avvicinata alla divulgazione di tematiche legate alla tradizione e a una parte della storia e della cultura della Sardegna, che viene citata molto spesso, ma che è in realtà poco approfondita?
Mi sono occupata di tradizione popolare e di Sardegna in realtà quasi casualmente: all’inizio del mio percorso di studi ero un po’ vittima di quella narrazione di Sardegna che negli anni ’90 era abbastanza condivisa, cioè che l’isola – e in particolare Cagliari – fossero posti carini per via del mare ma che per avere una carriera fosse meglio andare altrove. L’università mi ha dato la possibilità di scoprire quella Sardegna che secondo alcuni non esiste più e che invece è attualissima.
Studiando ho iniziato a pensare che molte delle cose che io cercavo fuori dalla Sardegna, in realtà in Sardegna ce le avevamo: ad esempio ero una fan dell’idea del vampirismo e poi ho scoperto che l’ematofagia [la pratica di alimentarsi di sangue, ndr] per la strega sarda è un aspetto importantissimo.
All’inizio è stato quasi un gioco ma con il tempo ho scoperto che il mito si collega ai luoghi, i luoghi si collegano alla lingua, la lingua si collega alle persone, le persone si collegano al cibo e quindi mi è stato chiaro che noi nel nostro passato avevamo un bagaglio simbolico culturale potentissimo. Mi sono chiesta perché lo avessimo dimenticato o perché non lo valutassimo tanto quanto fanno altri luoghi.

Hai trovato una risposta?
Il problema è stata la narrazione che è stata fatta per cercare di svincolarci dalla nostra cultura che è agro-pastorale. Ci siamo fatti raccontare che la nostra storia anche antica valesse zero e che la nostra lingua fosse utile solo per dire barzellette e quant’altro, uno slang per far ridere. È stato strumentale come ragionamento perché era importante che noi diventassimo Italia. Quando ho iniziato a vedere chiaramente tutto ciò ho deciso di smontare questi ragionamenti.
Invece come nasce l’approccio alla divulgazione?
Io sono autodidatta per molte cose e spesso e volentieri gli autodidatti soffrono. Ho studiato antropologia, però molte delle mie curiosità sono state personali. I miei professori mi dicevano: “Sono argomenti che non ti porteranno mai da nessuna parte” e quindi molte cose le studiavo in maniera del tutto autonoma. Quando ho iniziato ad approfondire queste tematiche mi sono sentita decisamente più fiera e ancorata nella mia terra e ho pensato che potesse succedere la stessa cosa anche ad altri, per cui ho iniziato a scrivere articoli.
Inizialmente non ero fiera di essere sarda e non stimavo tantissimo la mia terra, ma quando ho imparato a conoscere i luoghi, l’arte, la storia, l’archeologia, la lingua e tutto quello che ci può venire in mente, ho cambiato prospettiva e pensato che tramite la divulgazione questo potesse accadere anche ad altre persone.
Ho sdoganato anche l’idea che certi argomenti non possano essere trattati online
In seguito sei arrivata al mondo della divulgazione sui social. Puoi raccontarci il passaggio?
Inizialmente lavoravo soprattutto per mezzo di blog e convegni, poi ho iniziato a usare i social. Con TikTok ci provo ma non è proprio il mio social, prima lavoravo molto su Facebook ma adesso un po’ di meno, quindi Instagram è la mia zona di comfort. Ho sdoganato anche l’idea che certi argomenti [legati alla spiritualità sarda, ndr] non possano essere trattati online: ho fondato la Janas Academy e abitualmente in quel contesto, che è online, mi occupo di tradizione, ritualità e spiritualità di Sardegna. La tradizione è un bagaglio culturale che i nostri nonni ci hanno dato ma noi abbiamo la responsabilità di portarla avanti e innovarla.
Quanto ci hai messo a trovare la tua cifra e ad avere la percezione di aver saputo trasferire il connubio così sottile tra terra e spiritualità? Ti sei formata in modo specifico per lavorare sui social?
Io non vedo scissione tra le due cose. Anche quando parlo di scienza e spiritualità non penso che siano due discipline che debbano necessariamente essere svincolate ma che debbano collaborare. Quando parlo di erbe, di medicina popolare poi mi associo con facilità anche alla medicina moderna, perché non credo che la medicina popolare sia in conflitto con la quella moderna o la spiritualità con la scienza. Sono dell’opinione che siano risorse che abbiamo a disposizione e che quindi ci debbano consentire, con un commistione ben eseguita, di evolverci e di migliorarci: questo è il modo in cui io vedo il mondo sostanzialmente. Ho dovuto capire come raccontarlo.
Per iniziare a divulgare i contenuti nella maniera più interessante possibile ho seguito dei corsi, però quello che consiglio normalmente è: lavora prima su te stessa o te stesso per mettere a bada l’ego e poi cerca di capire cosa può interessare alle persone.

Parlaci della tua community. Molto ampia come numeri, è anche altrettanto partecipe?
L’argomento – che è così peculiare ed è così identitario – in qualche modo riesce a darti un pubblico numeroso ma omogeneo e interessato. Il pubblico che mi segue e che interagisce è tutto altamente interessato all’argomento, anche perché la mia pagina non è di svago, ma è di divulgazione, di informazione: è una community molto attenta. La cosa che mi ha profondamente stupito è che quando faccio degli eventi in presenza vedo che c’è un afflusso di gente incredibile. Il mio obiettivo, anche su Instagram, è di perfezionare la mia figura di antropologa e di scienziata e, da questo punto di vista, essere riconoscibile può concorrere a rendere riconoscibile, unica e apprezzabile la Sardegna.
Ti è mai capitato di essere definita content creator o influencer?
Io sono una creatrice di contenuti, questo è vero. Se per “influencer” invece intendiamo una persona che influenza gli altri no, forse non mi definirei in questa maniera, anche perché non influenzo ma ispiro e questo mi piacerebbe decisamente di più. Penso di dare la possibilità alle persone di ragionare con la mentalità che la modernità ci ha offerto, ma offro anche un altro punto di vista. Perciò no, influencer no. Creatrice di contenuti sì.

L’ultima domanda è un po’ particolare: come ti interfacci con tutto il mondo della spiritualità applicata ai social?
La spiritualità per me è fondamentale, per cui quando parlo di Sardegna parlo di spiritualità: i sardi di ieri erano animisti, in qualche modo abbiamo ancora l’idea che tutto intorno a noi abbia uno spirito. Mi dispiace molto però quando vedo che non si conosce bene la tradizione sarda e si inizia a parlare di curandere [termine utilizzato in America Latina, rappresenta la figura delle guaritrici, ndr] in Sardegna, sarebbe necessario spiegare le differenze tra una tradizione e l’altra. Lo stesso vale per lo sciamanesimo: se utilizziamo la parola dobbiamo spiegare esattamente di cosa stiamo parlando, altrimenti stiamo usando parole archetipiche che hanno l’unica idea di prendere delle necessità e strumentalizzarle.
Anche l’idea di vendere amuleti e rituali online è interessante da un punto di vista antropologico, perché ti fa capire quanto bisogno ci sia di questo elemento che dal seicento in poi è stato proprio sradicato, ci è stato tolto. Tuttavia la reintegrazione deve essere consapevole e gli obiettivi di chi la opera devono essere chiari. E non sempre lo sono. Concludendo, mi dispiace quando vedo dei profili che utilizzano la ritualità sarda vestendola con nomi di fuori per renderla più riconoscibile e quindi non restituendo valore all’isola.
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