Se la logica abilista sulla disabilità resta, definirci “modello” non basta. Intervista all’attivista Silvia Ciccu
Della Sardegna si parla come “Modello” rispetto al panorama italiano sul tema della disabilità. Ma dietro fondi e leggi, quello che ancora resta è lo stigma. Ne parliamo con l’attivista e artista sarda Silvia Ciccu.
Quando si parla di disabilità, alla Sardegna si guarda come paradigma. “Modello Sardegna” è infatti quell’etichetta che circoscrive una prassi che nei confini isolani è realtà da 25 anni e che parla innanzitutto di scelte. Prima fra tutte quella economica. L’Isola – come spiegano dall’Abc Sardegna – è prima nel panorama italiano per quanto riguarda l’investimento nei piani personalizzati previsti dalla legge 162/1998 e dal programma “Ritornare a casa”, con un budget di 300 milioni di euro a fronte di 48.000 persone con disabilità e una popolazione che non raggiunge gli 1,6 milioni di abitanti; lo Stato italiano invece investe appena 800 milioni di euro per tutto il Paese.
E poi c’è la scelta individuale, che fa del personale il politico. Si tratta di progetti che puntano a superare l’istituzionalizzazione e quegli strascichi di logica manicomiale che contemplano sì la disabilità, ma meglio se in luoghi altri. La Legge 162 oggi in Sardegna potenzialmente rende persone con disabilità e famiglie protagoniste attive di un modello di partecipazione, co-progettazione e personalizzazione della quotidianità, con percorsi di vita indipendente che avvengono nel proprio territorio e comunità, e che non sono imposti. Porte aperte e possibilità, non sovradeterminazioni. Questa, perlomeno, è l’idea.

Quello che però nella realtà accade, sulla realtà prende forma. E se la stigmatizzazione e i pregiudizi sulla disabilità – e quindi l’abilismo – sono discriminazioni fortemente presenti nei luoghi e nei pensieri, allora quell’etichetta, quel chiamarsi “Modello Sardegna”, cambia forma. Un primo modello sì, ma applicato su una realtà che continua a essere per tanti ma non per tutti. Senza una collettiva presa in carico di ciò e di chi opprime, senza una decostruzione dei tasselli che fanno i pregiudizi quotidiani e una messa in discussione nella cultura che esclude la disabilità e ne legittima l’esclusione, ci potranno anche essere leggi che iniziano a porre buone basi, ma il cambiamento sarà decisamente più difficile.
E nel frattempo, la vita di chi il sistema pone ai margini continua a essere un percorso di ostacoli strutturali. Ѐ vero, i fondi ci sono più di altrove, ma associazioni e singoli lamentano spesso quanto non siano ancora sufficienti per garantire la reale autodeterminazione di tutti e tutte. Ѐ vero, l’investimento nei piani personalizzati permette di superare l’istituzionalizzazione, che nega il diritto delle persone con disabilità a una vita indipendente nella comunità. Ma in un contesto invischiato da logiche abiliste, trovare una casa dove vivere, ad esempio, può non essere immediato e non solo dal punto di vista dell’accessibilità. Quelli ideologici sono spesso il primo ostacolo: “Ma tu sei sicura di poter vivere da sola?”.
Per Silvia Ciccu, il primo passo per cambiare logica è scrutarsi dentro. Attivista anti abilista con disabilità, voce di Radio Onde Corte – progetto promosso da Asarp di cui abbiamo parlato qui – e artista multidisciplinare con una laurea all’Accademia di Belle Arti di Firenze e una formazione costruita in giro per il mondo, Ciccu quando parla dei diritti delle persone con disabilità dice che “mi stanno a cuore”. Dal cuore parla e al cuore invita a guardare.

Il 3 dicembre era la Giornata internazionale delle persone con disabilità, proclamata nel 1981 – si legge sul sito italiano dell’Onu – con lo scopo di promuovere i diritti e il benessere delle persone con disabilità. Partiamo allora da qui, come sta la comunità con disabilità sarda?
Sta in sofferenza. Parto da me e guardo alla questione sanitaria: io sono seguita dal Centro di Salute Mentale e come evidenziato anche in una ricerca che ho condotto, quello che emerge è la mancanza di fondi. Dovrebbero essere spese molte più risorse per ampliare il personale e migliorare la qualità del servizio. Le iniziative non mancano, anche culturali; ciò che non c’è è il tempo di qualità da dedicare alle necessità di ogni persona.
Manca il personale medico ad esempio e il poco che c’è è in sovraccarico; abbiamo scambi veloci e rari. Le associazioni spesso sopperiscono a questa mancanza, penso al lavoro che ad esempio porta avanti Asarp – l’Associazione sarda per l’attuazione della riforma psichiatrica – in Sardegna, ma se mancano le risorse mancano anche i servizi base.
Ci scontriamo ancora con uno stigma molto forte.
Della nostra Isola si parla come Modello, la quotidianità però continua ad avere ancorati a sé forti pregiudizi nei confronti della disabilità, di conseguenza definirsi “modello” non significa per forza essere la soluzione migliore. Quali sono i limiti?
Ci scontriamo ancora con uno stigma molto forte. Bisognerebbe preparare il terreno per la vita indipendente di una persona con disabilità, anche insieme alle famiglie: lo stigma si annida dappertutto, in seno alla vita di ognuno. Per garantire la vita indipendente bisogna garantire l’accesso al mondo del lavoro, ad esempio. Realizzare di spazi che siano sempre e ovunque accessibili.
Passiamo alla cronaca perché in una scuola di Sassari di recente è stato applicando il nuovo decreto Valditara, il quale prevede che la sospensione possa essere sostituita da attività di “cittadinanza solidale” con l’obiettivo di responsabilizzare gli studenti e non escluderli dall’ambiente educativo. E così però è successo che due alunni – ne ha parlato qui la giornalista Michela Salzillo – dopo aver bullizzato un compagno, hanno ricevuto come “punizione” quella di dover affiancare due compagni con disabilità. Ma davvero avere a che fare con la disabilità è una punizione?
C’è un obbligo all’interazione e questo non ci piace. Ma ancora prima il concetto di punizione non funziona. È tutto errato: non è il modo di far capire a dei bulli che stanno sbagliando, ma guardo anche alle persone con disabilità che si trovano ancora una volta discriminate. Lo trovo gravissimo e indice del livello di pregiudizi che ci sono ella nostra società. Per questo serve sensibilizzare e parlare, in primis le persone con disabilità devono farlo. Io nel mio piccolo attraverso l’arte cerco di parlare di disabilità e ho sempre trovato molto interesse e curiosità, sana partecipazione. Ma i pregiudizi ci sono.

Lo vediamo anche parlando di quanto è successo a Sassari: viviamo un presente che invisibilizza le persone con disabilità. A essere forte è la fobia, la paura verso la disabilità. In parte penso che questo accade perché la disabilità ci riguarda o può riguardarci, come corpi e come menti, ed è lì che parte automaticamente il rifiuto, il “io non sarò mai così”. Paura che spesso genera aggressività verso l’altro, ma ciò di cui abbiamo principalmente fobia è di noi stessi.
Le tue opere sono frutto dell’incontro tra creatività e impegno sociale e allora in conclusione – anche se mettere un punto non “chiude” la questione – chiedo: qual è l’impegno che come società dobbiamo abbracciare per fare in modo che le nostre comunità diventino sempre meno abiliste?
Smettere di avere paura, guardarci dentro per superare lo stigma. Esiste lo stigma ed esiste l’autostigma. Io per prima ho pensato che le persone disabili non possano davvero avere una vita piena e soddisfacente, relazioni umane soddisfacenti, una vita lavorativa che gli permetta indipendenza. Ma non è così, ce lo vogliono far credere. Dobbiamo guardarci, dentro noi stessi noi troviamo tutti gli altri. Troviamo i problemi che non vorremo fossero nostri, troviamo ciò che siamo, troviamo la connessione empatica che ci rende umanità, anche se spesso lo dimentichiamo. Ci servono gli occhi per guardare l’essenza di ogni persona, ma dobbiamo trovare il giusto paio di occhiali. La capacità e il coraggio di vedere davvero.










Commenta l'articolo
Per commentare gli articoli registrati a Italia che Cambia oppure accedi
RegistratiSei già registrato?
Accedi