29 Ago 2023

Dal caos elettorale al post referendum: lezioni ecuadoriane – #779

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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In Ecuador un referendum ha sancito la fine dell’estrazione del petrolio nel Parco Nazionale Yasuni, nella foresta amazzonica, mentre la situazione politica resta tesa e complicata, in vista del ballottaggio. In Guatemala intanto il nuovo presidente è un outsider di sinistra, mentre l’instabilità regna sovrana in Niger e Sudan. Parliamo anche dei nuovi fenomeni meteo estremi in Italia e della manifestazione per il reddito di cittadinanza a Napoli.

Va bene, ieri ci siamo tolti il dente con le due notizie più impegnative, a mio modo di vedere, del mese appena trascorso, oggi proseguiamo con altro, alternando un po’ di attualità con altre cose che dobbiamo recuperare di agosto. Oggi gli argomenti sono tanti quindi perdonatemi se su alcune cose resteremo un po’ in superficie. 

Partiamo con quello che è successo in Ecuador, di cui ci ha parlato il nostro direttore Daniel Tarozzi in un articolo su ICC la scorsa settimana. 

In Ecuador si è votato domenica 20 agosto per due cose molto importanti: le elezioni presidenziali (il paese è una repubblica presidenziale) e un referendum sull’estrazione del petrolio. 

L’articolo di Daniel si concentrava soprattutto su quest’ultimo aspetto, che ha portato a un esito davvero storico: in pratica quasi il 60% dei cittadini ecuadoriani ha scelto di rinunciare all’estrazione di petrolio da uno dei principali giacimenti nel paese, situato nel Parco Nazionale Yasuni, nell’Amazzonia ecuadoriana, rinunciando, si stima, a circa 16 miliardi di dollari, per proteggere la biodiversità e tutelare le popolazioni indigene che vivono quei territori. 

Scrive il nostro direttore: “Ai cittadini non interessa l’ambiente, ma solo l’economia, la sicurezza e la salute. Quante volte sentiamo affermare questi concetti quando ci interroghiamo su come mai in epoca di crisi climatica, microplastiche invasive, siccità e incendi le campagne elettorali sembrino completamente ignorare queste tematiche.

Eppure, in molte parti del mondo, ogni volta che i cittadini e le cittadine sono chiamati a votare su queste tematiche la maggioranza dei votanti sembra avere le idee chiare. 

L’ambiente interessa eccome, anche a discapito di economia e “sviluppo”. Così è stato con i referendum italiani su acqua pubblica e nucleare, così è stato per tante altre scelte europee e così è stato in un paese cosiddetto “povero” come l’Ecuador che due giorni fa ha deciso di dire no alle trivelle in Amazzonia”. Se volete approfondire vi lascio l’articolo sotto FONTI E ARTICOLI.

Vi aggiungo solo un piccolo aggiornamento. Nei giorni successivi al referendum il ministro dell’Energia, Fernando Santos, aveva messo in dubbio lo stop alle estrazioni nella zona di Yasuni, approvato dalla maggioranza degli elettori ecuadoriani, dicendo che il governo stava valutando se impugnare, quindi contestare questo risultato. Il motivo sarebbe il fatto che nella provincia di Orellana, dove si trova il campo petrolifero, gli elettori avevano votato per il proseguimento delle perforazioni, in maniera piuttosto opposta e speculare all’andamento nazionale (60-40).

Un dato paradossale, che immagino sia spiegabile con il fatto che buona parte degli introiti dell’estrazione del petrolio finisse a livello provinciale. Comunque un elemento di cui tenere conto, quando prendiamo le decisioni. Ad esempio se in vantaggi di una decisione sono limitati a un settore e gli svantaggi sono estesi a tutta la popolazione (in questo caso direi mondiale), sarebbe utile che ad avere voce in capitolo nella decisione sia (come avviene in S3) un campione di ogni categoria che viene colpita dalla decisione. 

Comunque, fortunatamente il governo non sembra interessato a mettere in discussione l’esito del referendum, cosa che sarebbe assurda, dopo il voto e in un comunicato pubblicato dal quotidiano El Universo, il segretariato generale della Comunicazione della Presidenza ha detto che il governo si atterrà alla decisione della maggioranza della popolazione.

E che quindi vi sarà un “ritiro progressivo e ordinato di tutte le attività legate all’estrazione del greggio in un termine non superiore ad un anno dalla comunicazione dei risultati ufficiali”.

Veniamo quindi alla seconda parte della notizia, ovvero le elezioni. 

Vi faccio una premessa. In Ecuador si votava perché l’ex presidente Guillermo Lasso aveva usato lo strumento della muerte cruzada, la morte incrociata, per scampare a un tentativo di impeachment da parte del parlamento per corruzione. La morte incrociata è uno strumento per cui il Presidente può sciogliere il parlamento ma mette anche fine al suo mandato anticipatamente. Da qui le elezioni anticipate. 

Considerate che lasso è colui che ha di fatto spinto Assange nelle mani della giustizia britannica, ed è una figura piuttosto controversa. Comunque, le elezioni ci sono state, come immaginerete, in un clima di estrema tensione, con la campagna elettorale costellata di intimidazioni e persino omicidi. Il candidato che era dato come terzo ai sondaggi è stato assassinato a pochi giorni dalle elezioni. 

I risultati, comunque sono stati questi: La candidata correista (Rafael Correa era l’ex presidente socialista dell’Ecuador) e largamente favorita in tutti i sondaggi, Luisa González, è arrivata prima ma non ha vinto al primo turno. Con il suo 33% si confronterà con l’uomo d’affari ed esponente della destra Daniel Noboa, arrivato al secondo posto con circa il 24% dei voti.

Come scrive Checchino Antonini su MicroMega “Le prime analisi della stampa ecuadoriana concordano sul fatto che Noboa, che fino a poche settimane fa si aggirava intorno al 5% dei voti, ha iniziato a crescere grazie alla sua buona performance nel dibattito presidenziale”. 

Ora si dovrà aspettare fino al 15 ottobre per il ballottaggio che darà un risultato definitivo. Segnalo anche l’affluenza storicamente alta, all’82%, delle votazioni. Sarebbe interessante capire se e in quale misura è stata dettata dalla presenza del referendum, ma non ho trovato analisi a riguardo. 

Segnalo anche che la stessa domenica c’è stato il ballottaggio delle elezioni anche nel vicino Guatemala, paese storicamente affetto da corruzione, narcotraffico e criminalità. E che il candidato di centrosinistra, il sociologo outsider Bernardo Arévalo, ha vinto il ballottaggio contro la sua rivale, la conservatrice Sandra Torres, ed è il nuovo presidente del Paese. Chissà che anche questo non possa essere un punto di svolta. Interessante fra l’altro notare che, come spesso accade, in America latina le cose vanno ad ondate, e dopo Lula in Brasile, Gustavo Petro in Colombia, Gabriel Boric in Cile sembrano in arrivo nuovi presidenti socialisti, che potrebbero creare un blocco interessante. 

Cambiamo angolo di mondo, spostiamoci in Africa per aggiornarci sulla situazione di due paesi piuttosto caotici ultimamente, ovvero Niger e Sudan. In Niger ci eravamo lasciati con il presidente democraticamente eletto Mohamed Bazoum, deposto da una frangia golpista dell’esercito. La Comunità economica degli stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS), organizzazione di 15 stati africani, ha minacciato di intervenire militarmente in Niger per reinsediare Bazoum, ma in risposta, altri stati africani si sono detti pronti a intervenire in difesa della giunta militare responsabile del colpo di stato. Quindi, ecco, la situazione in Niger ha spaccato l’intero continente. E non solo. Dietro si muovono gli interessi opposti di Francia (di cui il paese è un ex colonia e che ha mantenuto una certa influenza) e Russia (che sta tentando di aumentare la sua influenza in Africa). Semplificando possiamo dire che il presidente Bazoum era più filofrancese, mentre la giunta golpista più filorussa, o perlomeno antifrancese.

Tant’è che i principali aggiornamenti di questi giorni sono che la giunta vuole espellere l’ambasciatore francese e che secondo il Guardian la Russia sta cercando di cavalcare il golpe. 

In pratica, come spiega la redazione del sito Analisi Difesa venerdì “la giunta golpista di Niamey ha intimato di lasciare il Niger entro 48 ore all’ambasciatore francese, Sylvain Itte, a cui sono state ritirate le credenziali per essersi rifiutato di rispondere positivamente all’invito “per colloqui” del ministero degli Esteri della giunta attuale e in seguito alle azioni della Francia contro gli interessi nigerini”.

Parigi ha risposto che i “golpisti del Niger non hanno l’autorità di intimare all’ambasciatore francese di lasciare Niamey confermando di non riconoscere neppure come interlocutori gli esponenti della giunta al potere dal 26 luglio. 

Poche ore dopo l’agenzia di stampa francese France Press ha reso noto che la giunta nigerina aveva ordinato anche all’ambasciatore tedesco Olivier Schnakenberg di lasciare il Paese entro 48 ore e che la stessa richiesta era stata recapitata anche agli ambasciatori della Nigeria e degli Stati Uniti, tutti con le stesse motivazioni.

Inoltre secondo il Guardian “Canali social associati alla Federazione russa hanno messo in campo un grande sforzo per sfruttare il colpo di Stato militare avvenuto in Niger il mese scorso, cercando di rafforzare l’influenza di Mosca nello strategico Paese africano e possibilmente aprire opportunità di intervento. I contenuti sul Niger su 45 canali Telegram russi affiliati allo Stato russo o a Wagner sono aumentati del 6.645% nel mese successivo al colpo di Stato, il che suggerisce un forte interesse di Mosca a sfruttare il golpe.

Prigozhin, afferma il Guardian, ha guidato un’offensiva di disinformazione in Africa che ha giocato un ruolo chiave nell’espansione dell’influenza russa in aree strategiche come il Sahel. Cosa succederà adesso, dopo la morte di Prigozhin e l’assorbimento del Wagner?

Poi va detta anche un’altra cosa. Che Francia, Germania e Stati Uniti schierano in Niger contingenti militari importanti (cos’ come anche l’Italia), e che l’ECOWAS ha autorizzato l’intervento delle forze armate guidate dalla Nigeria per ripristinare il governo di Niamey.

Fra l’altro la giunta ha dato un ultimatum alla Francia che scade il 30 agosto per ritirare tutti i suoi militari. 

Questo per dire che è complesso capire cosa si muove nel paese. Ho letto analisi completamente antitetiche. Chi descrive il colpo di stato come un tentativo di autodeterminazione e di liberarsi dalla nefasta influenza occidentale, chi invece come una manovra orchestrata dalla Russia. E devo dire che non so. Immagino che ci siano in parte entrambi questi elementi, ovvero un risentimento verso l’occidente che ha spesso attuato politiche predatorie, e un tentativo russo di cavalcare questo sentimento. Quale siano però le dosi di questi ingredienti, lo ignoro.

In Sudan invece proseguono i combattimenti tra l’esercito regolare e le forze paramilitari rivali della RSF (Rapid Support Forces), responsabili di numerosi attacchi contro la popolazione. 

“Nelle scorse ore – riporta il Sole 24 Ore – fiamme e fumo nero si sono sollevati sui cieli della capitale Khartoum. Il Paese africano è precipitato nel caos a metà aprile, quando le tensioni latenti da mesi tra l’esercito, guidato dal generale Abdel Fattah Burhan, e le forze paramilitari di supporto rapido, comandate da Mohammed Hamdan Dagalo, sono esplose in scontri aperti nella capitale e in altre aree dello Stato. 

Si stima che i combattimenti abbiano ucciso almeno 4.000 persone, secondo l’ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite, anche se attivisti e medici sul campo affermano che il bilancio delle vittime è probabilmente molto più alto. Secondo l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, più di 4,3 milioni di persone sono state sfollate, di cui circa 3,2 milioni all’interno del Paese. Oltre un milione di persone ha attraversato il confine con i Paesi vicini, tra cui Egitto, Ciad, Sud Sudan, Etiopia e Repubblica Centrafricana. Il conflitto ha trasformato Khartoum e altre aree urbane in campi di battaglia, con molti residenti che vivono senza acqua ed elettricità, mentre il sistema sanitario del Paese è prossimo al collasso.

Segnalo anche un articolo su la Stampa firmato dalla reporter di guerra Francesca mannocchi che racconta come si vive nello spazio per l’accoglienza allestito a Renk fra Sudan e Sudan del Sud, che doveva ospitare duemila persone ma ne ospita già 15mila, in condizioni che potete immaginare.

Da ultimo, contravvenendo a ogni legge del giornalismo, parliamo dei fatti di maggiore attualità, ovvero la nuova accoppiata caldo estremo più nubifragi che ha colpito il nostro paese. In particolare il Nord Italia e la Sardegna sono interessati dall’ennesima serie di precipitazioni e grandinate dell’estate, che tra le altre cose hanno causato una frana per cui è stato chiuso un tratto dell’autostrada A43 e interrotto il traffico ferroviario di collegamento diretto con la Francia.

Non vi sto a fare l’elenco della situazione, perché è talmente in evoluzione che diventerebbe subito obsoleta. Vi raccomando solo di fare la massima attenzione e di seguire i consigli degli esperti. Vi segnalo anche un interessante articolo del Post che spiega come l’aumento della frequenza e dell’intensità dei temporali estivi sia strettamente collegato al cambiamento climatico e nel nostro caso al riscaldamento del mar Mediterraneo.

“Fenomeni meteorologici di questo tipo ci sono sempre stati durante la stagione estiva, tuttavia l’aumento della loro intensità negli ultimi anni è associato dalla comunità scientifica alle maggiori temperature dell’acqua del mar Mediterraneo, a loro volta dovute al più ampio riscaldamento globale causato dalle emissioni di gas serra umane”.

“I temporali estivi si formano quando grandi masse di aria calda si spostano dalla parte più bassa dell’atmosfera (quella vicino al suolo o alla superficie del mare) verso l’alto portandosi dietro l’acqua evaporata, e poi incontrando masse d’aria più fredda: il vapore acqueo condensa, creando particelle d’acqua liquida e quindi nubi, che causano precipitazioni temporalesche la cui intensità è legata alla differenza di temperatura tra le masse d’aria coinvolte. Per questo la temperatura superficiale del mar Mediterraneo influenza i temporali: tanto più è alta, maggiore è l’acqua evaporata e l’energia che alimenta i fenomeni atmosferici”.

Segnalo anche, sempre dal Post, che ieri mattina a Napoli è stata organizzata una manifestazione di protesta contro il governo per l’abolizione del reddito di cittadinanza: alla manifestazione hanno partecipato poche centinaia di persone, ma ci sono stati comunque scontri con la polizia in vari momenti del corteo e un centinaio di manifestanti ha occupato per mezz’ora un tratto di strada che serve come ingresso all’autostrada. 

“La manifestazione – leggo – era stata organizzata da associazioni e movimenti vicini alla sinistra radicale, ed erano state organizzate altre due manifestazioni in contemporanea a Cosenza e Palermo, meno partecipate di quella di Napoli.

Napoli è la città in cui in questi anni si è concentrato il maggior numero di percettori del reddito di cittadinanza, la misura introdotta nel 2018 dal primo governo di Giuseppe Conte con l’obiettivo di contrastare la povertà e incentivare il lavoro (rivelatasi poi efficace solo per il primo di questi due propositi). Da agosto il governo di destra di Giorgia Meloni ha iniziato l’annunciata sostituzione del reddito di cittadinanza con altre due misure, comunicandola ai percettori con SMS sbrigativi e poco esaustivi sulle cose da sapere: le modalità di questa comunicazione e il fatto che molti non se l’aspettassero ha prodotto diverse contestazioni al governo nell’ultimo mese, soprattutto a Napoli e in altre città del Sud Italia dove molte persone ricevevano il reddito di cittadinanza”.

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