4 Mar 2024

Elezioni in Iran: votanti al minimo fra proteste e dittatura – #889

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In Iran ci sono state le prime elezioni dopo le enormi proteste che hanno scosso il paese in seguito alla morte di Masha Amini, nel settembre 2023. Scopriamo come sono andate. Parliamo anche del rimpatrio di Chico Forti, della crisi della produzione di riso (e del risotto, come la definisce il Guardian), delle risposte dei contadini africani della valle del Nilo alla crisi climatica e ancora del greenhushing e della Francia che inserisce il diritto all’aborto in Costituzione.  

Sono diversi mesi che si parla piuttosto poco di Iran, sui giornali. O meglio, se ne parla ma soprattutto in chiave geopolitica, con parlando dei possibili aiuti iraniani ad hamas prima dell’atacco del 7 ottobre, dei rapporti con gli Houthi yemeniti e così via. Ma i giornali hanno smesso di occuparsi della situazione interna al paese. Ci sono ancora rivolte e proteste? Si sono sopite? Fa eccezione un recente articolo di Repubblica dal titolo “Nell’Iran senza veli, la sfida delle donne a capo scoperto”, che racconta di come molte donne a Teheran si rifiutino di portare il velo opponendosi ai dettami della polizia morale e si apprestino – anzi si apprestassero – a boicottare e elezioni di venerdì. 

Già perché venerdì in Iran ci sono state le elezioni parlamentari, le prime elezioni dopo la morte di Masha Amini e le grandi manifestazioni che hanno scosso il paese che ne sono seguite. E come sono andate?

Sono andate che a vincere la competizione elettorale, quindi ad ottenere un maggior numero di seggi in parlamento, sono stati i conservatori più radicali. Ma questo dato da solo non ci dice niente sulla reale situazione del paese. Perché il vero dato è quello sull’astensione. In un paese la cui leadership vantava una storica alta affluenza alle urne, spesso superiore al 70%, si è recato a votare solo il 41% degli aventi diritto. 

Non solo: secondo molti osservatori, c’è da considerare i voti annullati, che nelle precedenti elezioni ammontavano al 13%, che fanno stimare che alla fine i voti validi non esprimano più del 35% dell’elettorato, con punte negative del 15% a Teheran. Nella capitale solo 3 elettori su 10 sono andati a votare. E non si tratta di semplice disaffezione, si tratta di boicottaggio da parte di chi da un anno e mezzo protesta contro il regime.

Uno potrebbe pensare che sia una scelta suicida, questa di non andare a votare lasciando il parlamento nelle mani dei partiti più estremisti. Ma il fatto è che non è che ci fosse tutta questa scelta. Come racconta Andrea Nicastro sul Corriere, “Il presidente più popolare della sua storia, Khatami, venerdì non è andato alle urne. «Elezioni senza competizione» ha fatto sapere. Uno dei suoi successori, Rouhani, avrebbe voluto candidarsi ad una sorta di Senato (L’Assemblea degli esperti). 

E chi è più esperto di lui che per otto anni è stato presidente ed è, naturalmente, anche un attento studioso del Corano? Per tre volte è stato «squalificato» e la sua richiesta di spiegazioni ignorata. Aggiungiamo che un ex presidente, un ex premier, un ex candidato presidenziale sono agli arresti domiciliari. Ce n’è abbastanza per concludere che l’Iran ha cambiato pelle: da Repubblica Islamica a qualcos’altro, più simile alla Russia o alla Cina, più dittatura militare che utopia religiosa. Dei 15.200 candidati di venerdì – fra l’altro un numero record di candidati, più candidati che votanti, quasi – appena 30 erano «moderati», cioè non seguaci del leader supremo Alì Khamenei. 

Insomma, l’immagine che arriva da queste elezioni è di un paese profondamente lontano dalla sua leadership. Visto che però è sempre difficile capire le cose da qua, vi preannuncio già che nella punatta di domani ospiteremo un commento di Samira Ardalani, attivista e portavoce dei giovani iraniani residenti in Italia, che più volta ci ha raccontato qui su INMR dell’Iran, e che domani ci spiegherà un po’ più nel dettaglio qual è la situazione interna al paese.

Prima di passare alla prossima notizia vi ricordo anche che intanto, se volete fare un ripasso della situazione in Iran e sulle proteste che hanno scosso il paese, trovate una puntata di INMR+ dedicata proprio a questo.

Nel pomeriggio di venerdì è arrivata la notizia che Chico Forti verrà rimpatriato in Italia dagli Stati uniti, dove sconta una condanna all’ergastolo per omicidio. Il governo ha festeggiato la novità come una grande vittoria della diplomazia italiana e del governo stesso, e i giornali ne hanno parlato a lungo e continuano a parlarne. Ma chi è Chico Forti? E qual è la sua storia? Che ci faceva in carcere negli Usa per 24 lunghi anni?

Devo dire che conoscevo solo superficialmente questa storia, che sembra più uscita da una sceneggiatura hollywoodiana che da un fatto di cronaca. ve la riassumo, prendendo spunto da un articolo di Valentina Santarpia su Corriere.

Enrico Forti detto Chico è stato un enfant prodige del windsurf, fra i primi al mondo a eseguire il salto mortale all’indietro con la tavola, e di vela, uno sciatore estremo e un jumper, insomma uno sportivo estremo a 360°, fino a quando un incidente automobilistico nel 1987 chiuse la sua carriera sportiva. 

A quel punto Chico si reinventa prima giornalista sportivo, poi produttore tv e organizzatore di eventi. Nel 1990 partecipa a Telemike (un quiz televisivo a premi condotto da Mike Bongiorno) come esperto di storia del windsurf: rispondendo alle domande più difficili vinse una grossa somma di denaro, utilizzata per trasferirsi due anni dopo negli Stati Uniti, dove si sposò con Heather Crane, madre dei suoi tre figli. 

Come scrive la giornalista del Corriere, “All’inizio Chico Forti si trovò proiettato nel classico sogno americano: grazie ad alcuni azzeccati investimenti immobiliari, accumulò una piccola fortuna e anche gli affari con la casa di produzione cine-tv andavano a gonfie vele”.

Nel 1998 qualcosa cambiò. Alla ricerca di nuove opportunità di investimento, entrò in trattativa per l’acquisto del Pike Hotel di Ibiza, luogo simbolo della movida dell’isola spagnola, di proprietà dell’imprenditore australiano Tony Pike e del figlio Dale, che però era contrario alla vendita. Chico Forti invitò allora Dale a Miami per cercare di convincerlo a chiudere l’affare. Pike jr arrivò il 15 febbraio del 1998 in aereo, a prenderlo allo scalo fu proprio il nostro connazionale. Ma poche ore dopo l’imprenditore australiano venne trovato morto su una spiaggia di Miami. 

Chico Forti davanti alla polizia dapprima negò di essere stato con l’imprenditore australiano, poi raccontò di averlo lasciato davanti a un parcheggio poco dopo averlo prelevato in aeroporto. L’interrogatorio avvenne senza un avvocato, violazione che nel diritto americano rende in teoria le prove acquisite nulle. Inoltre – secondo i legali – venne sottoposto a pressioni psicologiche.

Il processo si svolse in un clima pesantissimo, piano di accuse e controaccuse. Qualcuno insinuò persino – e lo stesso Chico sembra esserne convinto – che la polizia di Miami volesse vendicarsi per un documentario prodotto da Chico Forti, Il sorriso della Medusa, nel quale veniva messa in dubbio la ricostruzione ufficiale secondo cui Andrew Cunanan, il serial killer che uccise Gianni Versace, si era suicidato.

Nel 2000 la giuria popolare chiamata a pronunciarsi sul caso lo ritenne colpevole dell’omicidio «oltre ogni ragionevole dubbio» nonostante una serie di irregolarità e dubbi, tipo le irregolarità nell’interrogatorio, i dubbi sul movente, la mancanza di tracce di Dna e impronte sul luogo del crimine, l’assenza del test della polvere da sparo e nonostante il superamento della prova della macchina della verità, alla quale l’italiano si sottopose volontariamente. Arriva così la condanna all’ergastolo.

Da allora numerose sono state le campagne, gli appelli, le petizioni e le iniziative per chiedere la revisione del processo e la liberazione di Chico Forti. Non è arrivata la liberazione, ma il rimpatrio. Chico continuerà quindi a scontare in Italia la pena inflittagli dalla giustizia americana, ai sensi della Convenzione di Strasburgo. 

Ora, al di là della innocenza o colpevolezza dell’imprenditore italiano, cosa su cui non ho nemmeno lontanamente i dati e le competenze per esprimermi, né per darvi un’opinione, devo dire che il governo Meloni sta dimostrano di sapersi muovere piuttosto abilmente proprio in un campo, quello della politica estera e soprattutto dei rapporti con gli Usa, in cui gli scettici (io in primis) pensavano che avrebbe mostrato alcune fra le lacune maggiori. 

Non che questo sia per forza un fatto positivo, nel senso che la mia impressione è che il governo italiano voglia portare a casa alcune vittorie pratiche e simboliche in cambio di un appoggio incondizionato a Washington in tema di politica estera, quindi ecco, ognuno può fare le sue valutazioni. Ma diciamo che è innegabile che il governo, e in particolare la premier Giorgia Meloni, sappia come muoversi.

Il Guardian ha pubblicato un lungo reportage dal titolo “Risotto crisis: the fight to save Italy’s beloved dish from extinction” ovvero “La crisi del risotto: la lotta per salvare l’amato piatto italiano dall’estizione”. Articolo molto bello a firma di Ottavia Spaggiari, che mostra uno dei tanti, incalcolabili, impatto della crisi climatica, ma che ha il pregio di trascinarci all’interno di storie personali, e di tradizioni che ci riguardano e quindi di risultare estremamente coinvolgente. 

Il pezzo parte raccontando la storia di Luigi Ferraris, un risicoltore di 58 anni della valle del Po, che dal 2022 si è trovato a fronteggiare quello che sembrava l’inizio di uno scenario apocalittico: una riduzione del 40% delle precipitazioni e nevicate sulle Alpi talmente misere da far calare l’apporto idrico del Po dell’88%. La siccità peggiore degli ultimi 200 anni si abbatte sulla valle del Po, compromettendo gravemente la produzione di riso e lasciando gli agricoltori a interrogarsi sul loro futuro in un mondo che si scalda sempre di più.

A maggio, i campi di Ferraris, che per 37 anni avevano ondeggiato al vento in un verde lussureggiante, si erano trasformati in una distesa di paglia secca. Più della metà del raccolto era andato perso, e non solo il suo. Un duro colpo per l’agricoltura italiana che produce circa il 50% del riso europeo.

Come racconta l’articolo, Ferraris e i suoi colleghi hanno cercato e cercano di adattarsi, diversificando le colture e riducendo le aree riservate al riso in favore di quelle per mais, che necessita meno acqua. Ma il riso, soprattutto il carnaroli “classico”, il “re dei risotti”, resiste come coltura principale nonostante le sfide, compresa una produzione che dopo la sbiancatura e la pilatura si riduce drasticamente a causa della siccità.

L’articolo ci porta poi attraverso una serie di interviste con esperti che parlano di soluzioni e di nuove varietà di riso più resistenti, ma che ammettono come il problema dell’acqua rimanga pressante. Problema aggravato da infrastrutture vetuste che perdono acqua, tecniche di semina a secco che paradossalmente asciugano il suolo, e la necessità di investimenti economici e volontà politica per affrontare una crisi idrica che minaccia non solo il riso, ma l’agricoltura italiana nel suo insieme.

In conclusione, quello che emerge è un quadro complesso, dove la resilienza degli agricoltori si scontra con la dura realtà di un clima che cambia. La storia di Ferraris e degli altri risicoltori della valle del Po è un monito e, allo stesso tempo, un inno alla capacità umana di adattarsi e resistere. Ma è anche un chiaro segnale che, senza azioni concrete per affrontare il cambiamento climatico e gestire meglio le risorse idriche, il futuro – ma anche il presente – potrebbe non essere meno verde del passato.

Passando a un commento meta-giornalistico, trovo molto interessante questo tipo di operazione giornalistica, che il Guardian fa spesso, di raccontare storie e mostrare gli effetti concreti del cambiamento climatico, che è un modo per collegare emozioni e questioni concrete a un discorso che sennò, spesso, resta molto, troppo, astratto. E visto che i nostri cervelli trattengono molto meglio e più a lungo le informazioni se sono legate a delle emozioni, ecco, funziona.

Di fiume in fiume, di soluzioni i nsoluzioni. Su L’Indipendente Simone Valeri racconta una storia molto interessante, e poco nota. È la storia della lotta degli agricoltori di alcuni paesi africani lungo il Nilo per rivitalizzare i terreni attraverso delle foreste alimentari. Leggo: “In Kenya, nel bacino del Nilo, gli agricoltori del villaggio di Sitati stanno sviluppando progetti agroforestali in sostituzione delle più diffuse monocolture di canna da zucchero. L’obiettivo è quello di rivitalizzare i terreni, diversificare le diete e i redditi e aumentare i livelli d’acqua da cui dipendono molti animali. 

Nascono così delle “foreste alimentari”, le quali attraggono una serie di animali selvatici – come la tartaruga nubiana a conchiglia in pericolo di estinzione – e riqualificano le zone umide e i sistemi fluviali. La tecnica, in particolare, cambia il modo con cui la comunità gestisce l’agricoltura e l’ambiente, prevedendo la consociazione tra diverse colture alimentari – come cereali, frutteti, ortaggi, tuberi – ed erbe e alberi non produttivi. 

Frequente, ad esempio, un mix di colture quali banana, patata dolce, ibisco, papaya, avocado, peperoncino che crescono tra alberi selvatici nativi come la quercia d’argento. Il risultato è un orto dall’aspetto cespuglioso che attrae varie specie di animali selvatici e tutela un’ecosistema tanto prezioso quanto fragile. Basti pensare che, a livello globale, l’estensione delle zone umide naturali è diminuita del 35% dal 1970 proprio a causa dello sviluppo agricolo incontrollato.”

Insomma, oltre a offrire colture diversificate per le tavole delle famiglie locali, le foreste alimentari hanno un effetto rigenerante per fiumi e zone umide, pompando acqua pulita e libera da chimici di sintesi nel terreno. Questo è particolarmente importante nel Kenya occidentale, dove gli anni di sovrautilizzo di concimi sintetici hanno lasciato i terreni praticamente sterili. 

Fra l’altro, attorno a questa economia locale nascente, nascono altre attività. Come quella delle compostiere e delle piccole aziende che recuperano rifiuti alimentari per creare appunto compost di qualità, che aiuta i suoli a ritrovare la loro naturale fertilità. 

Devo dire che è molto bello vedere come di fronte a problemi e a situazioni tragiche gli esseri umani, quando si mettono assieme, siano ancora in grado di trovare soluzioni locali in cui vincono tutti. 

La Repubblica dedica un articolo a un fenomeno relativamente nuovo che sembra essere l’erede del greenwashing e che prende il nome di greenhusting. Se non sapete che roba sia, devo ammettere che non lo sapevo nemmen’io. O meglio: è un nome nuovo per una pratica abbastanza vecchia. Ma leggiamola nelle parole di Paola Arosio:

“Chiamatelo, se volete, silenzio verde. Oppure eco-silence. O, ancora, greenhushing (dall’inglese to hush, mettere a tacere). Il significato è sempre lo stesso: si tratta di una pratica per cui le aziende non comunicano le proprie azioni e i propri obiettivi di sostenibilità. 

Un silenzio che definirei strategico. Fino a qualche anno fa le aziende non esitavano a fare promesse in favore dell’ambiente, annunciando pubblicamente di voler raggiungere la carbon neutrality in un certo periodo temporale. Il problema è che spesso, appunto, si trattava di greenwashing, ovvero di promesse false, fatte solo per convincere le persone ad acquistare più volentieri i propri prodotti. 

Il problema per le aziende è che negli anni sono arrivate prima le cause legali per pubblicità ingannevole, poi le leggi nazionali (la Francia è stata la prima) e infine le direttive europee che vietano il greenwashing e prevedono che le aziende debbano provare il proprio impegno climatico che dichiarano. Ma anche negli Usa sta avvenendo una cosa simile, con la California ha promulgato il 1° gennaio 2024 una normativa anti-greenwashing.

Ed ecco il greenhushing, il silenzio ambientale. In questo contesto, molte aziende stanno smettendo di comunicare i propri impegni in ambito ecologico per evitare di esporsi al giudizio di opinione pubblica, clienti, investitori, media, tutelandosi da possibili procedimenti legali. Nel 2022 la società di consulenza svizzera South Pole è stata la prima a menzionare il fenomeno del greenhushing nel suo rapporto annuale On the road to net zero. Secondo l’edizione 2024 del report, di recente pubblicata, tutti i settori industriali sono coinvolti. Tra le 1.400 aziende intervistate, l’86% di quelle che commercializzano beni di consumo e il 72% delle compagnie petrolifere affermano di aver ridotto le proprie comunicazioni sul tema. E l’88% delle imprese che offrono servizi ambientali ammette di comunicare meno sull’argomento, anche se il 93% di loro rispetta i propri obiettivi.

Qui l’articolo di Repubblica parla di una “tendenza preoccupante”, che potrebbe rallentare le azioni virtuose a favore del clima, ostacolando collaborazione, innovazione, responsabilità. E riporta la dichiarazione della direttrice delle comunicazioni di South Pole, oltre che autrice del sondaggio, che afferma “Evitando di intraprendere passi imperfetti per il timore di essere criticati, non ci sarà alcun passo avanti”, mette in guardia Nadia Kähkönen, . “Gli impatti negativi saranno di vasta portata, mettendo il nostro pianeta in grave pericolo”.

Non sono d’accordo. Sono abbastanza convinto che se le aziende comunicano meno in tema ambientale è perché buona parte della comunicazione precedente era, appunto, fuffa. E la fuffa fa un sacco di danni: ad esempio impedisce di distinguere le aziende serie ed impegnate da quelle che lo fanno solo per questioni di immagine, e quindi impedisce (o meglio, rende più difficile) anche per le persone fare scelte ponderate. 

Preferisco poche aziende che dichiarano di fare qualcosa per il clima, piuttosto che tutte le aziende, se poi non è vero. È più realistico, ci porta un passetto più verso una rappresentazione realistica della realtà, che è comunque un inizio.

Cambiamo argomento, parliamo di aborto. Diversi giornali, fra cui Internazionale, dedicano spazio a una decisione per molti versi storica, che sembra essere sul punto di essere adottata in Francia. Ovvero l’inserimento del diritto all’aborto in Costituzione. Infatti il 28 febbraio il Senato ha dato il suo via libera, alla cosiddetta “libertà garantita” all’aborto in Costituzione, e quello del Senato sembrava essere l’ostacolo principale viste le resistenze di alcuni senatori di destra e di centro, che hanno la maggioranza.

Ciononostante il testo è passato senza modifiche e oggi, 4 marzo, è previsto il voto finale sulla riforma da parte del congresso riunito (camera e senato) che dovrà approvare la riforma con una maggioranza qualificata del 60 per cento. Ma appunto, tutto lascia presagire che verrà approvata.

Se così sarà, la Francia diventerà oggi “il primo paese al mondo” a inserire la libertà garantita all’aborto nella costituzione. Fra l’altro in un momento in cui il diritto d’aborto è messo fortemente in discussione in alcuni stati degli Stati Uniti e in alcuni paesi europei.

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