25 Mag 2023

Riciclare la plastica è pericoloso, gli studi – #735

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Sta per iniziare il secondo e ultimo round di negoziati Onu a Parigi per l’approvazione di un accordo globale vincolante sull’inquinamento da plastica, e allora commentiamo un po’ di studi usciti di recente che mostrano come la maggior parte delle soluzioni che abbiamo messo in piedi fin qui sulla plastica – leggi riciclo – sono inefficaci e persino pericolose. Parliamo anche delle rinnovabili in Italia, del Regno Unito che bandisce il commercio di avorio, della Francia che ha abolito i voli brevi (ma è un po’ una farsa) e infine del problema dell’utilizzo dei social da parte dei più giovano che sta creando preoccupazione negli Usa.

Forse non lo sapete – perché non ne parla quasi nessuno – ma sta per iniziare il secondo e ultimo round di negoziati delle Nazioni Unite per approvare un trattato globale e giuridicamente vincolante sull’inquinamento da plastica. I negoziati sono iniziati in Uruguay nel novembre 2022 e sono la conseguenza di una risoluzione del marzo dell’anno scorso dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite sull’Ambiente. Questo secondo round invece si svolgerà a Parigi dal 29 Maggio al 2 Giugno. 

Comunque, a negoziati conclusi ovviamente dedicheremo al tema una puntata per capire che cosa è emerso. Oggi però ve ne parlo perché come spesso accade in queste occasioni prima dei negoziati, e anche proprio in preparazione di questo tipo di negoziati vengono realizzati e pubblicati tantissimi nuovi studi sul tema in questione, che poi saranno usati, si spera e si presume, come materiale per i negoziati stessi.

E quindi in questi giorni ogni rivista scientifica, ogni grande organizzazione ambientalista e così via sta pubblicando almeno uno studio o un report sull’inquinamento da plastica. Tutto questo preambolo per dire che ce ne sono di molto interessanti e che ne ho selezionati 3 di cui vorrei parlarvi, tutti e tre commentati da altrettanti articoli sul Guardian che su queste tematiche è una sicurezza.

Due di questi riguardano il riciclo della plastica. Partiamo dal pezzo di Karen McVeigh sul collegamento fra filiera del riciclo e microplastiche. In pratica l’articolo racconta i risultati di un nuovo studio in cui un team internazionale di scienziati ha campionato le acque reflue di un impianto di riciclaggio all’avanguardia in una località sconosciuta del Regno Unito. Hanno scoperto che le microplastiche rilasciate nell’acqua ammontavano al 13% della plastica trattata.

Secondo le stime, l’impianto potrebbe rilasciare fino a 75 miliardi di particelle di plastica per ogni metro cubo di acque reflue. Un risultato sconcertante a detta degli stessi autori dello studio. Ad esempio  Erina Brown, ricercatrice principale dello studio, ha detto: “Sono rimasta incredibilmente scioccata. È spaventoso perché il riciclo è stato concepito per ridurre il problema e proteggere l’ambiente. Questo è un problema enorme che stiamo creando”.

L’articolo poi dettaglia molto bene le modalità con cui è stato condotto lo studio, non ve le sto qui a riportare per brevità, vi do solo qualche altro risultato. Tipo che la maggior parte delle particelle era più piccola di 10 micron, circa il diametro di un globulo rosso umano, con oltre l’80% più piccolo di cinque micron, ha dichiarato Brown.

O che i risultati hanno anche rivelato alti livelli di microplastiche nell’aria intorno all’impianto di riciclaggio, con il 61% delle particelle di dimensioni inferiori a 10 micron. E sappiamo che il particolato inferiore a 10 micron è stato collegato a molte malattie umane.

L’aspetto preoccupante è che l’impianto in questione rappresenta il “migliore scenario possibile”, dato che si è adoperato per installare un sistema di filtraggio dell’acqua, mentre molti altri impianti di riciclo non lo hanno proprio. L’impianto di riciclaggio in questione scaricava fino a 2.933 tonnellate di microplastiche all’anno prima dell’introduzione del sistema di filtraggio e fino a 1.366 tonnellate metriche dopo. Dunque la domanda è: cosa succede in tutti gli altri impianti di riciclo della plastica? Quante microplastiche invisibili stiamo immettendo negli ecosistemi? Che effetti hanno? Domande a cui abbiamo risposte fin qui molto parziali.

Il riciclo della plastica, come vi preannunciavo, è il soggetto anche del secondo report, raccontato sempre sul Guardian questa volta da Damien Gayle. In questo caso è l’organizzazione Greenpeace a pubblicare i dati. Il report, in sintesi, ci dice che il riciclo della plastica può renderla più tossica e non dovrebbe essere considerato una soluzione alla crisi dell’inquinamento.

Dagli anni ’50 sono stati prodotti circa 8 miliardi di tonnellate di plastica. Il rapporto di Greenpeace mostra innanzitutto che solo una minima parte (9%) della plastica viene riciclata, ma anche che quella che viene riciclata finisce per contenere concentrazioni più elevate di sostanze chimiche tossiche, moltiplicando i potenziali danni per la salute umana, animale e ambientale.

“Secondo il rapporto, la plastica riciclata contiene spesso livelli più elevati di sostanze chimiche come ritardanti di fiamma tossici, benzene e altri agenti cancerogeni, inquinanti ambientali tra cui diossine bromurate e clorurate e numerosi interferenti endocrini che possono causare alterazioni dei livelli ormonali naturali dell’organismo.”

Per citare la dottoressa Therese Karlsson, consulente scientifico dell’International Pollutants Elimination Network: “la plastica – il cui riciclo viene spacciato per economia circolare – avvelena l’economia circolare e i nostri corpi e inquina aria, acqua e cibo. Non dovremmo riciclare la plastica che contiene sostanze chimiche tossiche. Le soluzioni reali alla crisi della plastica richiederanno controlli globali sulle sostanze chimiche presenti nella plastica”.

Infine, l’ultimo articolo, e poi magari facciamo qualche considerazione in chiusura, a firma sempre di Karen McVeigh, parla del legame fra inquinamento da plastica e rischio alluvioni. Che c’entra? Direte voi. Be’, c’entra. Ad esempio “La principale causa della devastante alluvione del 2005 che uccise 1.000 persone nella città indiana di Mumbai furono i sacchetti di plastica che avevano ostruito i tombini, impedendo all’acqua delle inondazioni monsoniche di defluire dalla città.

Ora un nuovo rapporto, che cerca di quantificare il problema, stima che 218 milioni di persone tra le più povere del mondo sono a rischio di inondazioni più gravi e frequenti causate dai rifiuti di plastica. Circa 41 milioni di queste persone sono bambini, anziani e disabili e tre quarti di esse vivono nel sud-est asiatico e nella regione del Pacifico. Ovviamente combinate queste proiezioni all’aggravarsi della crisi climatica e potete immaginare il risultato.

Ecco. Questa è l’entità, questi sono i numeri del problema plastica nel mondo.Anzi, solo alcuni numeri.Abbiamo miliardi di tonnellate di plastica prodotta ogni anno, di cui solo una piccola parte viene riciclata e anche di quella riciclata non sappiamo se facciamo bene o male a riciclarla.  Ora, come ne usciamo? 

La prima risposta, la più banale e semplice è smettere di produrla. Con un piano graduale ma veloce dobbiamo arrivare come obiettivo a smettere di produrre il 99% della plastica. Poi magari ci sono alcune cose per cui ancora non sappiamo come farne a meno, ma parliamo di una percentuale minima. 

Ok, ma come sostituiamo tutta la plastica che non produciamo? Con quali materiali? Ecco, qui se seguite da un po’ INMR saprete che la risposta non è semplice. Perché sì, una piccola parte di quella plastica possiamo sostituirla con altro, ma non esiste nessun altro materiale in grado di sostituire al 100% tutta la plastica che produciamo oggi, se non vogliamo causare danni enormi da qualche altra parte. Non c’è legno, bambù, carta, bioplastica che tenga. E come facciamo? Un primo passo determinante potrebbe essere eliminare dalle nostre vite e dalle nostre società il concetto di usa e getta, un concetto che se ci pensate è stato introdotto proprio grazie alla tremenda abbondanza di plastica degli ultimi anni e che dovremo far scomparire assieme a lei. E al tempo stesso, l’altro concetto chiave è riduzione dei consumi. Consumare meno risorse, in generale. Comprare meno cose, di migliore qualità. Oltre a tutte le altre indicazioni che ci vengono fornite dall’economia circolare (quindi riparabilità, sinergie industriali, noleggio dei beni, scambi, riuso e così via), quella vera però, non quella che dice che la soluzione al problema dei rifiuti è riciclare tutto. 

Va bene, passiamo a qualche altra notizia importante. È uscita l’edizione 2023 del Rapporto ISPRA sugli indicatori di efficienza energetica e decarbonizzazioni in Italia e in Europa. 

Il dato che mi ha sorpreso di più in positivo è che sul fronte delle fonti rinnovabili, l’Italia è seconda solo alla Svezia tra i principali paesi europei, in termini di quota di consumo interno lordo di energia da fonti rinnovabili.

La quota nazionale di energia rinnovabile rispetto al consumo interno lordo è pari a 19,4% nel 2021, mentre la media europea è pari a 17,7%. Un dato interessante. Se vi sembra basso rispetto ad altri numeri che avete letto è perché, immagino, perché qui non parliamo di elettricità ma di energia complessiva. Per intenderci (scusate se sono un po’ didascalico ma ho visto che molte persone fanno confusione) l’elettricità solo una parte dell’energia che consumiamo, e non comprende ad esempio l’energia che produciamo bruciando i combustibili per alimentare veicoli o macchinari industriali. 

Se le rinnovabili coprono circa il 40% della produzione nazionale di elettricità, questa percentuale ovviamente scende se consideriamo il totale dell’energia. E in questo senso il 19% è una percentuale più alta della media europea. Anche se i dati riportati da ISPRA sono riferiti al 2021 e nel 2022 le rinnovabili hanno avuto una brutta flessione nel nostro paese, quindi non so se questo dato rispecchia la situazione attuale.

Luigi Mastrodonato su Lifegate ci parla di un’importante novità introdotta dal Regno Unito, che “ha ampliato l’applicabilità del suo Ivory Act, la legge contro il commercio di avorio. Nel 2018 è stata introdotta la normativa che vieta l’importazione di avorio realizzato dalle zanne degli elefanti, pena multe parecchio salate e anche la reclusione. Ci sono voluti tre anni di battaglia perché la legge entrasse effettivamente in vigore nel 2022. Ora il governo ha annunciato che il testo verrà esteso, per includere nel divieto di commercio l’avorio proveniente da altre cinque specie animali.

Ogni anno sono circa 20mila gli elefanti che vengono cacciati nel mondo per le loro zanne. Negli ultimi 100 anni è stato ucciso il 90 per cento degli elefanti africani e oggi ne restano solo 400mila esemplari. Le rotte dell’avorio un tempo andavano soprattutto verso la Cina, poi il Consiglio di Stato cinese ha annunciato il divieto di trasformazione e vendita di avorio e prodotti in avorio (fatto molto interessante che non conoscevo). Il materiale ha allora virato su altri paesi del Sud-Est asiatico, ma flussi importanti passano anche dall’Europa.

Di fronte a questa situazione, nel 2018 il Regno Unito ha approvato una legge volta a bloccare il commercio di avorio proveniente da elefanti, prevedendo multe fino a 300mila euro e la reclusione fino a cinque anni. La legge è finalmente entrata in vigore nel 2022 dopo 3 anni di scontri e negoziazioni e adesso arriva persino un suo ampliamento che ne estende l’applicazione anche a Orche, capodogli, ippopotami e trichechi, specie fra l’altro già a rischio per i cambiamenti climatici.

Come ha detto il ministro della Biodiversità, Trudy Harrison. “L’Ivory Act è uno dei divieti più severi del suo genere al mondo e, estendendo maggiori protezioni legali ad altre cinque specie, stiamo inviando un chiaro messaggio che il commercio di avorio è totalmente inaccettabile”. Well done.

Ieri la Francia ha introdotto ufficialmente il divieto di vol brevi che era una delle tante indicazioni emerse dall’assemblea cittadina sul clima indetta da Macron due anni fa e poi perlopiù disattesa. Anche in questo caso molti movimenti ambientlaisti parlano di farsa e sostengono che i continui ripensamenti e modifiche alla norma voluti dal governo l’abbiano completamente svuotata di senso. Ma vediamo meglio in cosa consiste. 

Leggo dall’articolo su Rinnovabili.it: “A dispetto delle apparenze, il divieto per i voli brevi deciso dal governo francese ha ben poca sostanza. È nato come suggerimento da parte della Convention citoyenne pour le climat, un organismo consultivo voluto dall’Eliseo per coinvolgere i cittadini nelle scelte strategiche sul clima. Macron, però, ha tenuto l’idea centrale ma depotenziandola: la convenzione suggeriva lo stop per tutti i voli di durata di almeno 4 ore se sostituibili col treno, il provvedimento abbassa il limite a 2,5 ore.

E introduce molte altre clausole e distinguo, fino a far diventare il divieto per i voli brevi solo una pallida copia dell’originale. Con beffa finale: i voli effettivamente aboliti sono solo tre – quelli tra Parigi e le tre città (Bordeaux, Nantes, Lione) – ma già da tempo quelle tratte non erano più servite da alcun collegamento aereo. Al momento, quindi, l’impatto effettivo della misura sul clima è pari a zero. Mentre sono ancora in vigore le stesse tratte, ma con partenza dall’altro aeroporto di Parigi, Roissy-Charles de Gaulle. Tratte che resteranno grazie a modifiche al decreto introdotte su pressione delle compagnie aeree. La misura non è nemmeno definitiva: sarà in vigore solo per tre anni. Insomma tanto rumore per niente.

Questo ci deve però spingere a riflessioni serie sugli strumenti di democrazia partecipata o deliberativa. Che sono strumenti fondamentali e importantissimi solo se hanno un potere reale, solo se la politica ne capisce l’utilità e applica davvero ciò che ne emerge. Sennò, rischiano di essere una sorta di contentino, una roba che potremmo chiamare partecipative washing, dare una passata di partecipazione alla facciata della politica, mantenendone intatti i meccanismi e il funzionamento.

Che i social non facessero benissimo per la salute mentale soprattutto dei ragazzi e ragazze in età dello sviluppo era cosa abbastanza nota, ma l’avviso de govenro americano arriva in maniera improvvisa e piuttosto drastica. Racconta un articolo del Post che “Martedì Vivek Murthy, che ricopre il ruolo di Surgeon general degli Stati Uniti, ovvero il massimo funzionario federale ad occuparsi di questioni di salute pubblica, ha emesso un avviso sui rischi che corrono i giovani passando troppo tempo sui social network. È stata una scelta piuttosto netta: in passato, queste comunicazioni hanno riguardato i pericoli rappresentati dalle sigarette, l’AIDS, la rappresentazione della violenza in televisione e nei videogiochi, l’obesità, le armi da fuoco e la solitudine”.

“Nel più recente avviso, lungo 19 pagine, Murthy spiega di aver deciso di allertare il pubblico sul tema nonostante al momento gli studi sugli effetti dei social network sulla salute degli adolescenti non siano giunti a conclusioni definitive sulla loro effettiva pericolosità.

I nostri bambini e adolescenti non possono permettersi il lusso di aspettare anni prima di conoscere l’intera portata dell’impatto dei social media. La loro infanzia e il loro periodo di sviluppo stanno avvenendo ora. (…) Ci troviamo nel mezzo di una crisi nazionale per quanto riguarda la salute mentale dei giovani, e temo che i social media siano un fattore importante di questa crisi, da affrontare con urgenza”.

Il rapporto include delle raccomandazioni pratiche per aiutare le famiglie a guidare l’uso dei social media da parte dei figli: per esempio quello di non usare il telefono durante le ore dei pasti in famiglia per promuovere le conversazioni e la costruzione di legami sociali, ma anche la costruzione di un “piano mediatico familiare” che stabilisca chiaramente le aspettative rispetto all’uso di internet da parte di tutta la famiglia, in cui includere delle nozioni sulla privacy online.

L’articolo è piuttosto lungo e dettagliato e spiega a fondo la questione, se vi interessa lo trovate come al solito sotto fonti e articoli. Interessante comunque questa presa di posizione piuttosto netta del governo americano. Interessante e condivisibile anche la scelta del Post di segnalare a fine articolo, come fa abitualmente su alcune tematiche sensibili, una serie di numeri utili da contattare se ci si trova in una situazione critica, legata alla dipendenza dai social o da altre dinamiche legate all’utilizzo dei social. 

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