17 Set 2019

La Scuolina, un modello virtuoso di accoglienza e integrazione

Scritto da: Cristina Diana Bargu

Ha preso vita quasi per caso in un paesino della Toscana un modello virtuoso di accoglienza e integrazione sorto per iniziativa del docente universitario e fisico Andreas Formiconi. Da Poggio alla Croce, il piccolo centro in cui si trovava, la Scuolina si è ora trasferita a Firenze e intreccia le sue attività con quelle del Laboratorio Aperto di Cittadinanza Attiva.

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Firenze - I primi di settembre Leonardo, amico pirata, mi ha portata al Villaggio dei Popoli per farmi conoscere Andreas Formiconi, docente universitario e fisico. Dal 2017, insieme a concittadini e amici, Andreas ha dato vita alla Scuolina di Poggio alla Croce, un progetto oggi definito dai ricercatori “una punta di diamante dell’accoglienza”. Ecco il suo racconto di questa esperienza.

 

«La storia della Scuolina di Poggio alla Croce è nata nel 2017. Allora io non avrei saputo rispondere correttamente alla domanda “che cos’è un’associazione del terzo settore?” e avrei avuto un’idea molto vaga sull’espressione “migrante economico”.

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Poggio alla Croce è un paesino che sta fra il Chianti e Valdarno. Siamo 190 abitanti, e abbiamo una chat dove si parla un po’ della gestione. Un giorno è arrivato un messaggio: “Arrivano 30 migranti”. Uno è preso dalla vita, vengono dette tante cose, ma dopo qualche giorno arriva un altro messaggio: “evviva abbiamo raccolto 230 firme contro! Ce l’abbiamo fatta”. Mi sono congelato. Contro cosa? 190 trovano 230 firme? Io so che 15 non hanno firmato per certo. Questi 15, che potremmo definire i dubbiosi, hanno iniziato a riunirsi intorno un tavolo la sera. All’inizio semplicemente per cercare di capire. “Tu sai che cos’è un immigrato politico?” “Tu sai che cos’è un migrante economico?” “Tu sai cosa sono i centri di accoglienza?”. Poi abbiamo cominciato a fare un ciclo di interviste, abbiamo cominciato ad orientarci.

 

In agosto scende l’astronave con gli omini neri, in silenzio. Nel frattempo in questi tre mesi c’erano state delle assemblee popolari. Giusto dei flash: mamma con due figli davanti ai sindaci e assessori alle politiche sociali. Diceva loro: “Attenti a quello che dite perché questo lo pubblico su Facebook”. Giovane uomo di 35 anni che a gambe larghe fa al sindaco: “Se mi sfasciano l’automobile me la ripaghi te.” Una concittadina ultra ottantenne che aveva paura per la sua virtù. Le mamme: “Le nostre figlie non potranno più uscire”. Io mi sono beccato di tutto. “Pigliali!” “Portali a casa tua!”. Cosa poi avvenuta per due anni.

 

Questo era il clima, ed ecco che ad un certo punto i primi di agosto scende l’astronave. Le astronavi notoriamente non fanno rumore. Dentro c’erano gli omini neri che rimanevano lì, c’era questa mostruosità. Non succedeva niente, faceva caldo, l’aria era ferma, e c’era questa atmosfera incredibile. E noi avevamo la crisi di quello che ha studiato. Un po’ come un “ora che mi sono laureato che faccio?”. “Bisognerebbe parlarci con questi ragazzi!”.

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Un giorno si riuscì a inserirsi in una stanza. 13 di loro, 15 di noi, e si fece un cerchio. Quella giornata lì, documentata nel blog che racconta la storia, è stata una delle giornate più rivelatrici della mia esistenza, perché in quelle due ore l’universo era entrato in quella stanza. Io avrei potuto fare tutti i miei viaggi alle Bahamas o a Sharm el-Sheikh, ma non avrei mai avuto quello che ho avuto.

 

Il gioco che facemmo era la cosa più semplice che si potesse fare: avevamo una striscia di carta attaccata al muro e un pennarello. Comincio io. Mi chiamo Andreas e parlo l’italiano, lui magari viene dal Ghana, e così via. Era un modo per impastarsi! Tutti così, e si scriveva. E lì mi si spalancò la testa perché su 13 ragazzi vennero fuori 10 lingue diverse mai sentite prima. Lì una lingua ponte non c’era. Su 13 ragazzi ce n’erano 4 o 5 che sapevano il francese, 2 l’inglese e gli altri non avevano una lingua ponte, quindi fui costretto a fare tutto in tre lingue: francese, inglese e italiano, con qualcuno che rimaneva fuori. Lì per la prima volta in vita mia ho visto un analfabeta, vero, adulto. Prese il pennarello in maniera strana e disegnò il suo nome. Ci ha detto che la scrittura lui non l’aveva mai avuta.

 

Fra quei ragazzi, qualche tempo dopo, era emerso uno che credevo fosse analfabeta perché stava sempre zitto. Ha chiesto a mia moglie qualche romanzo in francese. “Di che tipo?” – le aveva chiesto Stendhal o Rousseau. Ho trovato Rosso e Nero di Stendhal e lui ha letto quello.

 

Un altro ragazzo spuntò fuori che quando è andato via dall’Eritrea era al quarto anno di matematica. Avevo portato la stampante 3D, la facevo vedere a questi ragazzi, e lui ha cominciato a farmi domande che me lo fecero scoprire. Allora avevo fatto un software per il calcolo delle orbite dei pianeti, integrando numericamente equazioni differenziali di Newton. Per me fu una gioia immensa spiegargli riga di codice per riga di codice che cosa stava facendo il programma per calcolare la traiettoria di un orbita. Un africano. Sempre uno di quei 13.

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Allora, perché dico che non ho mai viaggiato così tanto in vita mia? 13 persone, 10 lingue, 2 lingue ponte più la lingua zero. Dell’analfabeta totale al letterato filosofo al matematico. Presi a caso. Si mangiavano le noccioline e si facevano questi giochi. Si andò avanti così per 2 o 3 volte. Poi ci si chiese “cosa si fa?” e a tutti era chiaro che l’italiano serviva a questi ragazzi. Ci si mise ad un tavolo ed è venuta fuori la Scuolina di Poggio la Croce. Da agosto 2017 a luglio 2019 tutti i martedì e tutti giovedì dalle cinque alle sette».

 

Nella Scuolina per ogni persona giunta ad apprendere c’è un insegnante. Il rapporto uno a uno consente di conoscersi meglio, di incuriosirsi. Consente di dare all’altro ciò di cui ha bisogno in quel momento, che sia la lingua, la comprensione delle abitudini del posto in cui si trova o altre conoscenze.

 

«Dunque non la coniugazione del verbo avere a priori, che per lui non significa niente, ma il verbo avere quando serve, quando c’è bisogno di capire perché devi avere il biglietto del tram. Che vuol dire questo biglietto del tram? E allora le lezioni possono essere: “Ehi cosa c’è oggi? Ti vedo serio.” Dice : “Ieri biglietto multa”. E si parla del biglietto. Si parla di un problema tuo, ora. Sul biglietto c’è scritto qualcosa. Che vogliono dire quelle parole? Perché in questo posto il biglietto serve? Perché addirittura devi sganciare sei euro per quel cavolo di pezzo di carta che per te non significa niente? Perché qui le cose funzionano così. E glielo spieghi in italiano. E allora lui comincia a capire, e capisce perché la cosa lo concerne: perché ha avuto un danno, e tu gli stai spiegando come si fa a non avere quel danno.

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Questa si è rivelata essere la scuola dei miei sogni. Perché non è una questione di programmi, non è una questione di pianificazione. È una questione di avere le idee chiare su cosa conta nella vita. A chi piace può pensare al “I Care” di Don Milani: il tuo problema è il mio problema.

 

Un giorno che eravamo ai tavoli e c’era un gran brusio di gente che parlava – uno bianco e uno nero, uno bianco e uno nero – arrivò un giornalista e mi chiese: “Quali sono i vostri risultati concreti?”. In questo mondo bisogna sempre essere concreti: è una roba maschile. Io ho detto “Non ti rispondo. Guarda questi ragazzi”. Alcuni erano in ritardo ed entravano sorridendo, poi si alzavano sorridendo. I più curiosi venivano da noi chiedendoci che cosa stessimo facendo. Questo giornalista mi fece: “Non è successo nulla di strano”. Vedi – gli ho detto – quello che c’è di strano è che non c’è niente di strano. Perché sei mesi fa, alcuni di questi, ti avrebbero fatto paura perché erano montagne di muscoli che stavano ingrugnate in un angolo. Non ti guardavano negli occhi, non ti rispondevano. Erano evasivi, ti facevano sentire la distanza. E a volte, siccome sono grandi e grossi, certo che ti fanno un po’ paura”.

 

Noi lì abbiamo capito che la paura genera paura: avevamo paura di loro perché quella che loro manifestavano era pure semplice paura. Fra quelli c’erano alcuni che erano stati ai CAS per un anno e mezzo senza che mai un italiano si fosse degnato di rivolgere loro la parola. Come fai a non avere paura? Al suo posto ti chiederesti “dove sono finito?”. Nei posti così gli umani hanno paura. Ora questi ragazzi non hanno più paura. È la familiarità che te li rende normali, è la familiarità di sentirti a tuo agio che fa sì che poi imparino.

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Quando la Scuolina è stata chiusa abbiamo pianto. Piangevano i nostri concittadini, piangevano i ragazzi, che non volevano andare via. E io ho detto ai ragazzi “guardate che per vivere è necessario morire. La vita funziona se accetti l’idea di morire per poter rinascere su quelle ceneri”».

 

Nel luglio scorso la struttura della Scuolina di Poggio alla Croce è stata chiusa e i ragazzi trasferiti in altri centri in città. Sono tutti collegati in una chat e si trovano tutti in città, con i mezzi pubblici a portata di mano.

 

«Ad agosto la Scuolina ha messo le ali, è volata, è andata in città. Io ero sicuro, convinto, e poi ho cercato anche di spiegarlo che questo è stato anche un colpo di fortuna perché lassù si cominciava a stare un po’ nel calore dell’utero ed era l’ora di andare nel mondo, tenendosi in contatto. Sono riuscito ad avere un contatto con Cospe, che è tutto contento di ospitare la scuola. In città, a Firenze, le potenzialità sono smisurate: i ragazzi parlano con gli amici e ogni volta vedo un ragazzo in più. Poi vedo arrivare un italiano in più. La positività espressa dei popoli è enorme».

 

Dall’esperienza della Scuolina ha preso vita la mappa della positività che raccoglie storie di accoglienza grandi e piccole e di cui Andreas ci parla nella seconda parte di questa intervista che pubblicheremo nei prossimi giorni.

 

 

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