24 Set 2021

Cosa possiamo aspettarci dalla COP26 sul clima?

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti

Nel giorno dello sciopero globale per il clima e a poche settimane dall'inizio della COP26, riflettiamo sul significato della conferenza indetta dalle Nazioni Unite e proviamo a capire se questo evento apparentemente inutile e fine a sé stesso offre in realtà una possibilità di cambiamento. Lo facciamo grazie al contributo di due esperti che leggono fra le righe di ciò che sta accadendo a livello ambientale, politico e sociale.

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È di nuovo quel periodo dell’anno in cui i rappresentanti delle nazioni del mondo si riuniscono per discutere di cambiamenti climatici. Succede ogni anno, attorno a novembre, da 26 anni a questa parte (non a caso siamo alla COP26). Si incontrano, discutono per una decina di giorni, a volte si accordano, altre non lo fanno, a volte annunciano svolte storiche come la firma del Protocollo di Kyoto nel 1997 o dell’Accordo di Parigi nel 2015, altre si salutano con un nulla di fatto. Poi ognuno torna a casa sua e tutto prosegue all’incirca invariato.

Nel frattempo, dalla prima COP a oggi, la quantità di CO2 in atmosfera ha continuato ad aumentare incessantemente (da circa 350 ppm nel 1995 alle sono 415 di oggi), le emissioni annuali sono quasi raddoppiate. I livelli di anidride carbonica registrati nel 2019 sono i più alti degli ultimi due milioni di anni, quelli di metano e di protossido di azoto i più alti negli ultimi 800mila anni. L’instabilità climatica è già una drammatica realtà per miliardi di persone. Qualcosa nel sistema delle COP non ha funzionato, perlomeno fin qui.

unione europea finanza etica

A circa un mese dalla COP26 di Glasgow, in programma dal 31 ottobre al 12 novembre, ci siamo chiesti: cosa possiamo aspettarci da questo ulteriore incontro? Ha senso continuare a sperare che arrivi da quelle sedi qualche risultato, se non risolutivo, perlomeno significativo nella lotta ai cambiamenti climatici?

Secondo Ugo Bardi, docente di chimica presso l’Università di Firenze, saggista prolifico, autore – fra l’altro – di “The limits to growth – revisited”, non troppo. A meno di un cambiamento radicale in come questi incontri vengono impostati e condotti: «Mancano i presupposti perché possa succedere qualcosa di interessante», spiega Bardi. «Nelle COP ognuno tira l’acqua al suo mulino. Se la Cina ha delle miniere di carbone, cerca di evitare che l’accordo danneggi le sue miniere di carbone. E così via. Ciascun paese cerca di ottenere il miglior accordo per sé, non il miglior accordo per tutti».

È una situazione che in letteratura viene spesso citata come “tragedia dei beni comuni”, dal titolo dell’omonimo articolo dell’ecologo Garret Hardin del 1968, ovvero la situazione in cui un bene o una risorsa esauribile di cui tutti godono, o da cui tutti traggono vantaggio, viene ipersfruttato, invece che tutelato. L’esempio più classico è quello dei pascoli comuni in Inghilterra, citato in un opuscolo dall’economista William Forster Lloyd nel 1833: «Se una persona conduce al pascolo più capi di bestiame nel proprio campo, la quantità di erba che viene consumata è sottratta da quella inizialmente a disposizione», spiega Bardi in proposito.

«Inoltre, se precedentemente l’erba presente nel pascolo era appena sufficiente, allora il pastore non trarrà alcun beneficio dal condurre un maggior numero di capi di bestiame, dato che ciò che viene guadagnato in un modo viene perso in un altro. Ma se mette più capi di bestiame in un pascolo comune, l’erba consumata forma una perdita che è indirettamente condivisa tra tutto il bestiame, sia quello altrui che il proprio, in proporzione al loro numero, ma solo una piccola parte di questa perdita colpisce il proprio bestiame».

La catastrofe climatica è un ulteriore, tragico esempio di questa dinamica, che oltre all’esempio di Lloyd porta con sé una enorme dose di complessità. Per questo è così difficile da gestire. «I modelli che abbiamo a disposizione sulle interazioni fra ecosistemi e sistema economico umano – continua Bardi – sono perlopiù modelli descrittivi. Si basano su una scienza chiamata dinamica dei sistemi, che spiega come funzionano i sistemi complessi ma non ci dice nulla su come “pilotare” o modificare questi sistemi, su cosa fare per cambiarne il funzionamento e ottenere i risultati sperati. Di quello si occupa la cibernetica, una scienza inventata da Norbert Wiener negli anni Sessanta. Peccato che poi sia stata poco sviluppata, perché molto difficile».

crisi climatica 4

Quindi siamo destinati al fallimento in partenza, nel contrasto alla crisi ecologica? Non è detto. Secondo Bardi sarebbe possibile fare qualcosa di diverso: «Quando Peccei fondò il Club di Roma, a mio modo di vedere voleva in un certo senso applicare la cibernetica su scala planetaria, anche se in maniera intuitiva e non quantitativa. Voleva fare un progetto globale in cui ciascuno si mettesse a disposizione per il bene di tutti. Non funzionò perché non fu capito».

Esistono però dei sistemi che funzionano, capaci di gestire correttamente i beni comuni. «Elinor Ostrom, Premio Nobel per l’economia, in un lavoro fondamentale che in pochi hanno capito veramente, ha dimostrato che i commons possono funzionare benissimo. In realtà, a differenza di quanto sostenuto in via teorica da Hardin, quasi sempre quando le persone si trovano a dover gestire in maniera collettiva un bene o una risorsa di primaria importanza per le loro vite, alla fine ci riescono. Le società contadine di tutto il mondo hanno imparato a gestire collettivamente beni come l’acqua, i funghi, la legna, le castagne, lo hanno fatto per secoli. I contadini sono molto più bravi a negoziare dei manager internazionali che vanno alla COP».

Ma è possibile trasformare le Conference Of the Parties in un sistema capace realmente di prendere decisioni significative, in cui tutti gli attori sono disposti a rinunciare a un vantaggio personale in nome del bene di tutti? Bardi ritiene di sì, ma solo a patto di un cambiamento strutturale significativo e di un cambiamento degli attori che vi partecipano.

«In un libro che sto scrivendo con un collega americano abbiamo capito che l’elemento fondamentale per far funzionare un network di questo tipo è l’empatia, la capacità di comunicare correttamente con l’altro. I nostri rappresentanti politici invece, quelli che partecipano a incontri come questi, sono spesso dei narcisisti e una delle caratteristiche principali dei narcisisti è proprio la mancanza di empatia. Difficile quindi che possano funzionare, messi assieme». La soluzione? «Dovremmo mandare i contadini a fare le COP», conclude Bardi. Scherzando, ma nemmeno troppo.

Secondo Giovanni Scotto, professore di Sociologia presso l’Università di Firenze, sperare nella COP26 è lecito, anzi auspicabile, a patto che lo si faccia in maniera “attiva”. Giovanni Scotto ha recentemente curato l’edizione italiana del libro di Joanna Macy e Chris Johnstone intitolato proprio “Speranza attiva”, edito da Terra Nuova.

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«In questo, come in tutti i 25 appuntamenti precedenti – spiega Scotto –, vedo una grande tensione fra due considerazioni opposte. Da un lato il fatto che, come dice Greta Thunberg, non c’è stata azione degna del livello dell’allarme; d’altro lato mi chiedo cosa sarebbe il mondo, il sistema internazionale, la lotta ai cambiamenti climatici se non ci fosse stata la convenzione di Rio del 1992 da cui è partito il sistema delle COP. Probabilmente saremmo messi molto peggio. Oggi abbiamo un processo politico globale in corso, che non era scontato. Le agende dei principali partiti e governo del mondo ormai includono in maniera strutturata, se non centrale, la questione climatica. Ecco, una volta inquadrata la questione da questa prospettiva, si aprono nuove possibilità».

L’importante è avere bene in mente il tipo di speranza che riponiamo in questo genere di eventi. «Nella visione di Joanna Macy – spiega Scotto – la speranza non è un sentimento passivo. Non è l’”andrà tutto bene” di questi mesi di pandemia, è piuttosto qualcosa che si costruisce attivamente, attraverso il fare. Il fare degli esseri umani può portare a conseguenze impreviste: tre anni fa nessuno poteva prevedere che una Greta Thunberg avrebbe dato linfa vitale a una nuova generazione di ecologisti in tutto il mondo. La speranza è un’azione».

Joanna Macy propone anche tutta una serie di strumenti per coltivare la speranza attiva, a partire dal modo che abbiamo di relazionarci con gli altri e con il mondo. «Mi viene in mente, ad esempio, la gratitudine. È un elemento importante: gratitudine è il contrario di cinismo e isolamento. Io sono grato all’ecosistema che ci da da vivere, alla società che ha raggiunto traguardi inimmaginabili fino a un secolo fa e alle tante persone, compresi tutte e tutti noi, che stanno lottando per cambiare le cose. Ti dirò di più: sono grato anche a quei governanti che partecipano alle COP, che comunque fanno “qualcosa”, un piccolo pezzetto, anche se può sembrare poco se raffrontato all’urgenza e gravità del problema».

Insomma, sperare va bene e fa bene, a patto di farlo nella maniera corretta. In attesa di una COP27 composta da delegazioni di contadini e contadine da tutto il mondo.

Per saperne di più leggi anche:

Cambiamenti climatici: inizia un autunno molto caldo

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