27 Gen 2023

Senza sbarre: un’alternativa al carcere è possibile

Scritto da: Benedetta Torsello

Il sistema carcerario italiano mostra da tempo la necessità di un profondo cambiamento che sposti il proprio baricentro dallo scopo repressivo a quello rieducativo, così come è sancito dalla Costituzione. Il progetto Senza sbarre nasce per immaginare un’autentica alternativa alla detenzione, fatta di lavoro, integrazione e riscatto.

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Puglia - «Era il 2007 quando per la prima volta varcai le soglie del carcere di Trani», esordisce Don Riccardo Agresti, parroco per ventisei anni della sua città – Andria – e oggi alla guida della parrocchia di Castel del Monte. Da allora, in carcere, ci è tornato tutti i giorni. «Andavo a trovare i miei parrocchiani che si trovavano lì. Non potevo abbandonarli», mi racconta indaffarato dall’altro capo del telefono. Non si prende mai una pausa da quel lavoro a cui ha deciso di dedicarsi anima e corpo.

Non sentirsi abbandonati, pur nella consapevolezza di aver sbagliato e di dover pagare per tale errore, è d’aiuto a molti detenuti. «Mi resi conto che dovevo fare qualcosa per loro e così iniziai a portarli in parrocchia, ma mi accorsi sin da subito che lì non potevano imparare un mestiere». Don Riccardo capisce che solo un lavoro può dare realmente una possibilità ai detenuti e ricucire quello strappo profondo che li allontana dalla società e che con il carcere finisce per diventare sempre più ampio.

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Don Riccardo Agresti
NON PIÙ DIETRO LE SBARRE

«Il progetto della Diocesi di Andria Senza sbarre nasce quindi per rieducare al senso della vita e del lavoro chi ha perso la speranza», chiarisce Don Riccardo. «La formazione in carcere è spesso sterile: bisogna affiancare chi ha sbagliato e tirarlo fuori da lì, dargli una possibilità». Il lavoro è il vero campo di battaglia, dove ci si deve sporcare le mani e ritrovare la dignità di riguardare gli altri negli occhi, riscattandosi dalla vergogna e dal peso del fallimento che affliggono chi ha sbagliato.

L’idea è di immaginare un’autentica alternativa al carcere – senza sbarre appunto – dove si lavora fianco a fianco con chi in passato si è macchiato di un reato e oggi prova a riscrivere le proprie sorti. La testimonianza di Don Riccardo ci porta dritti in contrada San Vittore, ad Andria, dove un’antica masseria fortificata circondata da oltre dieci ettari di terreno, tra uliveti e campi coltivati poco distanti da Castel del Monte, è diventata un luogo di riabilitazione e reinserimento per decine di detenuti.

Quelle mani un tempo macchiate di errori e di sangue, oggi finalmente si sporcano di farina, imparano a creare, rendono questi uomini di nuovo liberi

L’esperienza della cooperativa A Mano libera, nata dall’impegno dell’associazione Amici di San Vittore di cui Don Riccardo è presidente, dimostra che rieducare chi ha sbagliato è possibile anche fuori dal carcere. Da ormai quattro anni infatti, la masseria San Vittore – nata come cohousing e comunità per detenuti che possono accedere alle misure alternative alla reclusione – ospita un tarallificio artigianale, in cui si utilizzano unicamente materie prime di qualità e a km0.

A mettersi per primo all’opera è lo stesso Don Riccardo, instancabile lavoratore, convinto che non basti amare coloro che hanno sbagliato, ma che occorra dar loro gli strumenti per non commettere gli stessi errori di prima. E il lavoro è forse l’unica via percorribile. «Ricordo ancora la prima volta che sfornammo i taralli», sorride ripensandoci. «Era una vecchia ricetta della nonna, ma quello che venne fuori fu un autentico disastro: avevamo tutto da imparare, insieme. È da quello sbaglio che siamo partiti».

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Masseria San Vittore (Andria)
SPORCARSI LE MANI

I taralli aMano Libera, fragranti e gustosi, sono soprattutto una metafora: «Quelle mani un tempo macchiate di errori e di sangue, oggi finalmente si sporcano di farina, imparano a creare, rendono questi uomini di nuovo liberi», aggiunge Don Riccardo. E poi alla fine di una lunga giornata in laboratorio, si torna a casa o in cella per chi è in regime di semilibertà. Sono più di quaranta i detenuti che hanno partecipato negli anni al progetto Senza sbarre e oggi a produrre i taralli sono in sette.

«Non è sempre facile gestire le conflittualità o far comprendere a queste persone così sfiduciate che qualsiasi risultato richiede fatica, impegno e dedizione», commenta Don Riccardo. Senza dubbio il lavoro coordinato con le équipe educative delle carceri italiane è fondamentale per individuare quei soggetti, senza distinzione di pena o reato, che possono accedere alle misure alternative e desiderano profondamente cambiare vita.

Il carcere non dovrebbe essere una misura afflittiva, repressiva, ma rieducativa. Don Riccardo lo ripete con tutte le sue forze perché «la possibilità di riscattarsi deve essere concessa a tutti coloro che vogliono rimediare agli errori commessi». E la comunità deve cambiare approccio, per abbattere il muro di silenzio e invisibilità che confina perennemente i detenuti e gli ex detenuti e che va ben al di là delle mura del carcere stesso.

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Taralli aMano Libera
IL MIGLIO VERDE: DALLA PUGLIA AGLI STATI UNITI

Senza sbarre è un progetto pugliese che guarda lontano, non solo al di fuori del carcere, ma ben oltre. Grazie infatti al sostegno della Saint Pio Foundation, le scorse settimane mille scatole di taralli prodotti alla masseria San Vittore sono volate oltreoceano. «Il miglio verde non è un corridoio verso il braccio della morte, ma è simbolicamente un passaggio verso la speranza del riscatto di vita – spiega Don Riccardo –, quella speranza che ognuna di queste persone non dovrebbe smettere di coltivare».

In tutti questi anni Don Riccardo ha incrociato storie, persone e vissuti molto diversi. Quando gli chiedo cosa o chi gli sia rimasto più impresso, non ha dubbi: «Penso ogni giorno a tutti quelli che sono passati da qui, ma soprattutto ai fallimenti». Ci vuole grande dedizione per conquistare la fiducia di chi ormai pensa di essere giunto alla fine, di aver toccato il fondo della disperazione e della solitudine più assolute.

«Il vero comune denominatore di tutte le storie di chi ha trascorso troppi anni in carcere e deve imparare nuovamente a vivere è la fragilità – mi dice Don Riccardo prima di tornare al lavoro –, l’incapacità di affrontare i propri errori con coraggio. Loro devono mettercela tutta, non c’è dubbio, ma la comunità non può solo restare a guardare».

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