14 Nov 2024

L’attivista Alham Hmaidan: “Per fermare il genocidio non basta riconoscere lo Stato di Palestina”

Scritto da: Lisa Ferreli

L'attivista palestinese-sarda Ahlam Hmaidan commenta la mozione del Consiglio regionale sardo per il cessate il fuoco a Gaza e il riconoscimento dello Stato di Palestina. Un passaggio dal valore simbolico importante, ma anche pieno di contraddizioni.

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L’immediato cessate il fuoco a Gaza, il riconoscimento dello Stato di Palestina e la candidatura della Sardegna come sede per una conferenza di pace in Medio Oriente. Lo prevede la mozione presentata dal capogruppo di Sinistra Futura, Luca Pizzuto, e approvata all’unanimità a ottobre dal Consiglio regionale sardo; un documento che impegna inoltre la presidente Alessandra Todde ad assumere tutte le azioni necessarie affinché il Governo italiano “sottoponga e spinga la comunità internazionale ad agire attraverso le azioni diplomatiche per la risoluzione definitiva del conflitto”. Ma davanti a un genocidio in corso, quali possono essere i limiti di una mozione che proviene inoltre dalla regione più militarizzata d’Europa?

Secondo l’attivista palestinese e sarda Ahlam Hmaidan, la presa di posizione ufficiale da parte del consiglio regionale sardo è un primo passo, ma «bisogna stare attenti all’ipocrisia latente». Come ad esempio il fatto che la Sardegna, proposta come sede per una conferenza di pace, sia anche luogo che ospita la cosiddetta “fabbrica di bombe”, la RWM Italia Spa, azienda di proprietà della multinazionale degli armamenti Rheinmetall, situata tra i Comuni di Domusnovas e Iglesias. Ma andiamo per gradi.

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Ahlam Hmaidan
Ahlam Hmaidan, partiamo dal generale, ovvero: da persona palestinese e sarda, come ha letto questa notizia?

Mi riempie di speranza sapere che il Consiglio regionale si è posto come pioniere con questo importantissimo passo in avanti verso sia il riconoscimento dello Stato di Palestina che l’applicazione del diritto universale umano. Spero che anche altre Regioni italiane possano unirsi alla chiamata in modo da dare una segnale forte e univoco allo Stato italiano, il quale da un lato è promotore dello slogan due popoli due stati, dall’altra invece riconosce solo lo stato sionista di apartheid di Israele, negando il diritto all’autodeterminazione del popolo indigeno palestinese. Nella pratica, disconosce quindi lo stato palestinese, un’azione che alimenta il genocidio in corso mentre noi parliamo. Una posizione ambigua e ipocrita quella dell’Italia al momento.

Non penso ci siano aspetti negativi nel riconoscere lo Stato al popolo palestinese, ma noto che ci sono dei punti molto critici di ipocrisia. Penso sia particolarmente inutile ad esempio accettare mozioni di facciata per la Palestina e allo stesso tempo ospitare aziende produttrici di armi come la RWM di Domusnovas, che vende strumenti di morte all’entità sionista con la quale di fatto stermina e mette in atto il genocidio del mio popolo. Penso che per noi palestinesi questo tipo di altalene di ipocrisia politica portino solamente, giorno dopo giorno, all’aumento di vittime innocenti, che – ricordiamo – hanno superato il numero di 40mila persone uccise di cui 20mila bambini tra quelli identificati, questo dopo oltre 400 giorni di genocidio.

Prima di continuare a firmare mozioni bisogna porre uno stop quindi, un embargo totale alle armi che supportano il regime genocidiario israeliano attuale. Ne va della vita di tantissimi bambini innocenti: prima fermiamo le armi, prima riusciamo a fare qualcosa di concreto per fermare il genocidio. Noi palestinesi da più di 70 anni vediamo fogli firmati volarci davanti agli occhi ma poca concretezza. Lo ricordo ancora: il 44% delle persone uccise dai bombardamenti a tappeto israeliani sono bambini, in maggioranza tra 5 e 9 anni come denuncia l’Onu. C’è un lato positivo nella mozione, ma bisogna stare attenti all’ipocrisia latente.

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Vecchio graffito nella Facoltà umanistica dell’Università di Cagliari
Secondo l’inchiesta di Altreconomia, tra dicembre 2023 e gennaio 2024 l’Italia ha esportato verso Israele armi e munizioni da guerra e non per uso civile, per un valore complessivo di oltre due milioni di euro. Non è ancora del tutto chiaro se ci siano in mezzo anche le armi prodotte in Sardegna da RWM, ma la le servitù militari nell’Isola, la presenza quindi di basi militari e lo sfruttamento del territorio per esercitazioni internazionali, portano tante persone soprattutto della galassia attivista e antimilitarista, a pensare che la Sardegna sia in qualche modo coinvolta nel genocidio in corso, e a chiedere la fine di questa complicità. Da palestinese che conosce il vissuto del suo popolo e da sarda consapevole del fatto che la guerra viene “esportata” dall’Isola anche verso la sua terra d’origine, come vive tutto ciò?

Con profondo lutto, sia per il mio popolo direttamente ucciso dalle armi prodotte qua, che per il popolo sardo, anch’esso colonizzato; purtroppo la Sardegna non solo esporta la guerra, ma è costretta fisicamente da essa. Basti pensare che il 66% del demanio militare italiano è sulla nostra Isola, si effettuano esercitazioni militari lungo le nostre coste, le scorie delle esplosioni fanno ammalare di cancro i nostri compaesani e ciò che penso – oltre al profondissimo lutto che provo – è che non si può restare inermi davanti a questo sfruttamento.

Sfruttamento non solo della dignità umana, ma proprio della base della vita: ci sono abusi sotto ogni punto di vista e questo non può terminare in ignavia ma, anzi, deve portare all’azione; questo è il messaggio più importante. Adesso è quasi come se si fosse normalizzata talmente tanto l’accettazione di ciò che è sbagliato e scorretto, che le persone comuni si trovano a perdere il proprio potere ottenuto alla nascita, quello di autodeterminarsi, di esprimere un disagio e ritrovare la forza vitale che c’è nel dissenso. Ma senza dissenso non c’è vita.

Ѐ il momento di allontanarsi da qualsiasi tipo di vicinanza con un’entità che al momento sta commettendo un genocidio

La mozione approvata dal consiglio regionale sardo dice – tra le tante cose – che la Sardegna deve “assumere tutte le azioni necessarie nei confronti dello Stato italiano e del Governo, affinché l’Italia sottoponga e spinga la comunità internazionale ad agire attraverso le azioni diplomatiche per la risoluzione definitiva del conflitto”. Idealmente, cosa dovrebbe fare la Sardegna per dare un contributo concreto alla fine del genocidio? La mozione è sicuramente un primo passo, ma è sufficiente?

La mozione non è assolutamente sufficiente, è solo un inizio. Il primo passo concreto è applicare la legge internazionale che chiede di smettere di fare da spalla a chi sta commettendo un genocidio e astenersi quindi completamente da qualsiasi rapporto col regime israeliano. Bisogna smettere di mandare armi in primis per interrompere il massacro, smettere di mandare munizioni e risorse di qualsiasi tipo e bloccare ogni tipo di rapporto accademico.

Io rabbrividisco di fronte al fatto che l’università di Cagliari continua a fare affari col regime dell’apartheid, proprio in questi giorni è stato invitato un docente israeliano del Technion Institute di Haifa che si occupa di anche tecnologie militari e questo non è assolutamente accettabile: non è il benvenuto nell’Isola. Ѐ il momento di allontanarsi da qualsiasi tipo di vicinanza con un’entità che al momento sta commettendo un genocidio.

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Restando sempre sulla mozione approvata, il documento propone inoltre la Sardegna come sede per una conferenza di pace in Medio Oriente. Dal suo punto di vista, allo stato attuale, possiamo essere sede per una conferenza di pace?

Voglio continuare a guardare positivamente alla mozione, ma dobbiamo essere fermi e imprescindibili sul fatto che una conferenza di pace può avvenire solo ed esclusivamente in territorio neutrale. Dobbiamo quindi sottolineare che la Sardegna in questo momento non è un territorio neutrale, è complice diretto di genocidio in virtù ad esempio delle servitù militari imposte. Immagino che se si dovesse compiere un qualsiasi tipo di accordo in uno Stato che non è neutrale, converrebbe sicuramente all’oppressore e non al popolo oppresso: sicuramente a prenderne beneficio sarà l’ente con la quale, lo Stato che accoglie la conferenza, fa affari, per cui la Sardegna non può assolutamente mettersi in una posizione di imporre niente a nessuno.

In conclusione, ultimamente accade sempre di più nelle piazze che si chieda di non parlare di “pace”, ma di fine del genocidio. La parola “pace” viene vista come un limite, lei cosa pensa di questa critica? Qual è la sua idea di “pace”?

Penso che la parola “pace” sia qualcosa di molto bello col quale riempirsi le fauci. Per me significa equità e diritti uguali per tutti. Da sarda e da palestinese posso dirti che “pace” ad oggi, per come viene spesso utilizzata, non significa assenza di sfruttamento, terrore e abuso costante. Israele applica un regime di apartheid e segregazione razziale nei confronti del popolo palestinese con tanto di leggi razziali e questa non è sicuramente la “pace” di cui a volte si parla, non lo è mai stata. In questo momento storico nella mia esistenza, “pace” è un termine coloniale: significa un’imposizione con la forza, la paura, il ricatto e la corruzione.

Se devo dire la parola “pace” la integro imprescindibilmente con i termini “fine dell’occupazione”, “armonia”, “dignità”, “dissenso”. Spesso il termine pace esce dalla bocca sbagliata, favorendo l’oppressore e l’invasore a discapito del popolo oppresso; è importantissimo invece ricordarsi che se si parla di pace bisogna comprendere in questo termine anche l’abolizione totale di tutte le leggi razziali ad esempio, dell’apartheid in primis. Da palestinese parlo di “pace” se intendi anche la liberazione dei 9mila 400 ostaggi nelle prigioni/campi di tortura israeliani, dove a nessun ente internazionale è permesso accedere per testimoniare cosa accade. Per me la regola numero uno è questa: non si può parlare di pace da colonizzatori.

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