Andare a vivere da soli: perché in Italia è così difficile?
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Andare a vivere da soli per molti è quasi un passaggio iniziatico, un punto di svolta significativo, forse l’inizio della vita adulta. Eppure questa possibilità non è alla portata di tutti, se non a costo di compromessi di varia natura. La questione abitativa ha numerosi volti, dalle locazioni condivise alla scelta di quartieri dove le abitazioni sono più abbordabili ma i servizi – a partire dalla rete di trasporti urbani – si diradano e spesso non hanno spazi adeguati né allo studio né a forme di lavoro ibride e da remoto.
Una decina di anni fa, per un lavoro di ricerca condotto a Milano con gli studenti del master in Urban Planning and Policy Design del Politecnico, si è partiti da una domanda che accumunava molti degli studenti in aula: “Come ci si organizza un tetto sulla testa se si ha un budget, discontinuo, di 700 euro al mese?”. Perché è proprio questo il reddito medio di chi si affaccia sul mercato del lavoro – anche con un titolo di studio qualificato –, che tra le altre cose deve preoccuparsi di un posto in cui vivere.
ANDARE A VIVERE DA SOLI: QUALI SONO I FATTORI DISCRIMINANTI?
Cosa è cambiato rispetto a un decennio fa? In base all’andamento dei salari in Italia, questa cifra – inferiore ai mille euro medi al mese – continua a essere un parametro di riferimento per chi si affaccia al mondo del lavoro e cerca di barcamenarsi con non poche difficoltà nel mercato immobiliare. In questi anni la forbice tra redditi medi e prezzi di acquisto e dei canini di locazione non ha fatto che ampliarsi.

«La dinamica del mercato immobiliare è imprescindibile da quella salariale», sostiene Gianluigi Chiaro, che da oltre dieci anni si occupa di formazione e consulenza in tutta Italia sui temi dell’abitare e della rigenerazione urbana. «La volontà di acquistare casa e andare a vivere da soli per i giovani è strettamente legata alla capacità economica di farlo, ma il punto è un altro: quanti di loro vogliono acquistare una casa?». Di fronte a contratti sempre più flessibili e saltuari, la casa di proprietà non è una prerogativa di molti: si è di fronte a una sorta di «punto di transizione demografica» che assume connotati diverse anche su base geografica.
Al di là dell’aspirazione più o meno condivisa di acquistare una casa propria, resta che senza una regolamentazione del mercato – anche per chi propende per la locazione – la questione abitativa diviene un fattore discriminante rispetto alle prospettive di autonomia e crescita individuale. Il rischio è che i costi abitativi elevati siano per i giovani un fattore determinante per le proprie scelte di studio, lavoro e di vita laddove non vi sia un supporto economico da parte delle famiglie di origine.
Insomma, non si può sintetizzare dicendo che rimanere a casa dei propri genitori è indubbiamente più comodo che andare a vivere da soli. Secondo il Rapporto giovani dell’Istituto Toniolo, la permanenza presso l’abitazione dei genitori è nel 35% giustificata dalla difficoltà di sostenere i costi abitativi, mentre l’assenza di un lavoro stabile è indicata solamente dal 25% degli intervistati, segno evidente che in prima battuta non è tanto l’instabilità contrattuale a scoraggiarli.
Andare a vivere da soli rimane un’opzione riservata a una minoranza di studenti: in Italia infatti quasi il 70% degli universitari convive con la famiglia di origine
Molti decidono di spostarsi dalla propria città d’origine. Ed è sempre più evidente che l’attrattività dei territori è direttamente proporzionata a una sorta di “ostilità” del mercato immobiliare. I centri urbani, soprattutto di grandi dimensioni – Milano è un caso emblematico – stanno diventando negli ultimi decenni sempre più attrattivi ma allo stesso tempo selettivi rispetto ai nuovi abitanti. I costi per le abitazioni sono sempre più alti e il rapporto tra centro e periferia, soprattutto per il mercato degli affitti, tende sempre più a uniformarsi verso costi più elevati.
LA POPOLAZIONE STUDENTESCA
Nel quadro complessivo della questione abitativa non è possibile tralasciare il comparto della popolazione di studenti universitari, che nelle città con i più ambiti atenei universitari vivono sulla propria pelle analoghe dinamiche abitative rispetto agli altri residenti. Secondo l’ANVUR – l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca – è il Nordovest in particolare l’area che attrae più studenti da altre zone, con la Lombardia (+44.000), l’Emilia-Romagna (+31.000) e il Piemonte (+25.000) tra le regioni che nell’arco degli ultimi dieci anni hanno incrementato maggiormente il numero di iscritti.

Eppure andare a vivere da soli e studiare fuori sede rimane un’opzione riservata a una minoranza di studenti: in Italia infatti quasi il 70% degli universitari convive con la famiglia di origine. Per chi sceglie di studiare in un’altra città, solitamente le opzioni sono una locazione in condivisione – a prezzi elevati anche perché le città attrattive per gli studenti sono spesso ambite mete turistiche –, ma anche le residenze universitarie gestite dagli enti regionali preposti allo studio e quelle private, dai costi vertiginosi e spesso appannaggio di pochi privilegiati.
Per il futuro dell’abitare è quindi indispensabile pensare a politiche che tengano conto della varietà della popolazione – studentesca e non – e delle diverse esigenze e possibilità economiche, trovando un punto di equilibrio tra l’offerta immobiliare e i bisogni della collettività. La sfida è proprio quella di ridurre le diseguaglianze e garantire un’offerta più plurale ed equa per coloro che decidono di andare a vivere da soli, che andrà a ricadere sull’esperienza di studio e di lavoro di chi sceglie di spostarsi nei centri più grandi e attrattivi.
ABITARE FLUIDO
A partire da una serie di workshop tra Milano e Torino, un team di ricercatori ha provato a scattare un’istantanea della situazione abitativa tra i più giovani attraverso una ricerca dal titolo Abitare fluido. Lo studio nasce con l’obiettivo di esplorare l’attuale situazione, le eventuali cause di disagio e di insoddisfazione, ma anche il grado di influenza della propria posizione lavorativa rispetto alla scelta di una casa.

L’indagine si è rivolta direttamente ai giovani fra i 23 e i 40 anni attraverso un questionario somministrato nelle principali città italiane e cinque workshop progettuali. Gli esiti sono stati raccolti nella pubblicazione “Collaborare e Abitare”, dove emergono le criticità legate alle precarietà abitativa, ma anche delle possibili strategie alternative basate su forme di abitare collaborativo, ovvero un progetto di reciprocità in cui ci si costituisce come comunità riconoscendo e accogliendo debolezze e punti di forza di chi ne fa parte.
Nel campione esaminato, il grado di conoscenza e interesse per modelli abitativi alternativi a quelli tradizionali restano contenuti. C’è certamente chi li prenderebbe in considerazione, affascinato in particolare dall’idea di un progetto collaborativo. Al netto di tutto, la preoccupazione per la propria situazione finanziaria si conferma in questa ricerca l’influenza principale nelle scelte abitative, anche per chi opta per forme di abitare alternativo, vedendovi la possibilità di dividere le spese, anche se questo non può essere fondativo nelle scelte di abitare collaborativo.
«In Italia manca un’offerta competitiva di housing sociale – conclude Chiaro –, fermo restando che non credo affatto nell’efficacia di forme di abitare collaborativo “calate dall’alto”. Mi convincono di più soluzioni bottom-up, la trasformazione dell’edilizia popolare in edilizia sociale e altri proposte come il community land trust, diffuse soprattutto in Belgio e Nord Europa ma anche a Torino, ovvero un modello di gestione della proprietà immobiliare, che mira a garantite alla comunità un mercato non speculativo nel lungo periodo».
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