6 Marzo 2025 | Tempo lettura: 7 minuti
Ispirazioni / Io faccio così

Nostalgia di restare. La storia di Gaia Putzolu, illustratrice in equilibrio tra andata e ritorno

Gaia Putzolu è un’illustratrice che se nel viaggio ha trovato ispirazione, nel ritorno ha trovato la sua direzione: nella tipografia di famiglia, nella carta, nell’inchiostro che resiste al tempo.

Autore: Lisa Ferreli
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La parola nostalgia è un composto moderno formato con elementi greci. Nasce nel 1688 per dare un nome a quella mancanza di casa che diventava morbosa nei soldati costretti al fronte: -algia indica il dolore; nostos è invece il ritorno che sa di casa, tra i motivi letterari più diffusi, il cui archetipo è l’Odissea. Nostalgia prende quindi forma come sentimento che accompagna il viaggio, lo anima e talvolta, lo conclude per il desiderio di tornare. Per Gaia Putzolu, illustratrice freelance di Sinnai, il percorso è stato un po’ questo: un’andata e un ritorno, una ricerca che ha intrecciato la scoperta di mondi nuovi al bisogno di casa, secondo un’idea di restanza che non esclude il viaggio, ma lo completa.

Spinta dalla curiosità e guidata dalla ricerca espressiva, viaggiare è stato un modo per Gaia Putzolu di dare un alfabeto all’inquietudine creativa. La tappa più importante in Romania, a Bucarest. «Ci sono finita per caso», racconta. «Il piano era Sarajevo e invece sono arrivata a Bucarest. Ho scoperto una città bellissima, caotica nella sua moltitudine di storie e sfumature culturali. Dopo un anno mi hanno chiesto di restare ed ero anche tentata; ma in realtà, volevo ritornare». Nel continuo oscillare tra l’andare e il tornare, si insinua l’idea che sì, viaggiare è arricchente, ma quel che toglie, non lo ridà.

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Gaia Putzolu e alcune delle sue creazioni
GAIA PUTZOLU, ILLUSTRATRICE DI VIAGGIO

La consapevolezza si fa strada lentamente, tra un mercato artigianale e un biglietto aereo, nel dialogo con gli artigiani della Transilvania o con le persone rom che vendono tessuti. Nel mentre, un nuovo ingresso nella sua vita la porta dall’Est Europa verso un altro punto sulla mappa: il Marocco. «Marrakech è la prima città che ho visitato. Mi ha colpita: dallo stampo sovietico dei Balcani, dalle città verdi passi al caos totale di Marrakech. All’inizio mi aveva sovrastata, ma i miei interessi erano gli stessi. L’artigianato, il folklore, le storie delle persone e la loro cucina. Tutto questo ritorna sempre anche nel mio lavoro. Il viaggio ha dato coerenza a un progetto che, nel viaggio stesso, ha trovato ordine».

Un percorso creativo che si nutre dell’esperienza, dei colori assorbiti nei mercati, dei simboli e delle narrazioni ascoltate nelle case delle persone che le hanno offerto un pasto, delineato in un racconto che tra illustrazioni e parole, di viaggi parla e di viaggi sa. Gaia Putzolu descrive le sue tappe tra Europa e Africa in una cucina che si unisce al tratteggio: sul davanzale della finestra dei limoni fermentati («è una ricetta marocchina»), nella credenza ceramiche e tessuti dal mondo; prepara il caffè porgendo una piccola pentola tajine trasformata in zuccheriera. Un collage di vita e ispirazione in un racconto dove nostalgia bussa, in più forme.

Il percorso di Gaia Putzolu si intreccia con quello della tipografia di famiglia, un’eredità che sembrava distante e che invece si è rivelata la strada più naturale

Sta negli spazi attraversati, negli odori percepiti e nelle voci lontane impresse nella memoria. Ma è soprattutto nella consapevolezza del ritorno, che si radica. «Vedi gli anni che passano e negli anni dei viaggi perdi il compleanno, il Natale; è bello viaggiare però dici okay, forse non c’è solo quello». Viaggiare è un’esperienza totalizzante che può però lasciare indietro quel tessuto di legami che definisce il concetto di casa. «Penso che sotto alcuni punti di vista vivere viaggiando sia una scelta individualista: non puoi sempre poter decidere solo sulla base di ciò che ti piace. La vita è fatta anche di affetti».

Così, il ritorno diventa un atto di costruzione, non di resa. E il percorso di Gaia Putzolu, si intreccia in maniera sempre più forte con quello della tipografia di famiglia, la Emmegrafica, un’eredità che sembrava distante e che invece si è rivelata la strada più naturale. «Ho sempre disegnato e lavorato in autonomia, anche in viaggio. A volte però ti chiedi: e adesso quale strada prendo? per poi renderti conto che la più semplice ce l’hai davanti: Sardegna, casa, la stampa, la legatoria. Qui ho trovato una continuità tra il mio lavoro e quello della mia famiglia, restando e riportando nelle mie produzioni ispirazioni e simboli incrociati lungo i viaggi».

gaia Putzolu
Mappe di viaggio realizzate da Gaia Putzolu
LA TIPOGRAFIA E LEGATORIA

La tipografia oggi è un pezzo di storia che resiste al tempo e alla globalizzazione. «Nel ’75 nasce come legatoria, aperta da mio nonno, nel quale poi ha iniziato fin da bambino a lavorare anche mio padre, che poi ha aperto a nome suo a Monserrato, diventando anche tipografia; aveva vent’anni. Monserrato era allora una cittadina diversa, c’erano tante piccole attività, era molto più viva. Avevano preso un locale all’interno del cortile di un condominio, al piano di sotto c’erano le macchine da stampa. Ricordo ancora i rumori incessanti di quelle macchine. All’inizio si lavorava sui caratteri mobili, era un lavoro anche artistico, c’erano diverse scuole per la tipografia; adesso non esistono più, molte cose si sono perse».

Ma se alcune cose si sono perse, altre si sono trasformate, trovando nuovi modi per restare. La tipografia è un luogo in cui l’inchiostro ha ancora un peso, dove la carta racconta e lascia tracce fisiche, tangibili. «Oggi siamo tra gli ultimi a portare avanti questo lavoro. Nell’era digitale l’inchiostro è rimasto indietro, i tempi non richiedono più tanta carta». Il cambiamento però non è sempre sinonimo di perdita e anche qui, l’evoluzione, ha significato adattamento: lo spazio è stato spostato in una zona più trafficata, i macchinari rinnovati, la comunicazione aperta al digitale, e la tipografia ha ricominciato a respirare.

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Stampe realizzate da Gaia Putzolu

«Molti non sanno cosa voglia dire tipografia, entrano e chiedono: fate fotocopie?; è un mantra» racconta Gaia Putzolu. Il suo lavoro oggi è quindi anche quello di raccontare, di dare voce a una tradizione che rischia di scomparire, e di farlo attraverso nuovi strumenti: i social. Ma la tipografia è più di un mestiere: è il cuore di una comunità che cerca di resistere, di non essere fagocitata dal capitalismo. «Cerchiamo sempre di comprare dalle attività vicine, l’economia è un cerchio. Se sostieni chi hai vicino, il valore torna indietro. Ma questo non sempre viene percepito, e Monserrato non è più come un tempo».

RESTARE PER RICOMINCIARE

Il viaggio ha lasciato tracce, ha arricchito il linguaggio creativo e dato nuova forma alle idee. Ma è il ritorno a definire una direzione. Alla casa, alla comunità, a un laboratorio da ristrutturare, nuovi progetti da avviare, con un’attenzione alla sostenibilità che va in profondità. «Stiamo ristrutturando un vecchio laboratorio e inaugurando una serie di workshop, a partire da come realizzare un diario di viaggio interamente a mano. Vogliamo creare un luogo di ritrovo per chi vuole imparare, socializzare, e conoscere un pezzo dell’identità di Monserrato».

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Quaderni realizzati da Gaia Putzolu

Un luogo in cui l’approccio alla sostenibilità va oltre l’utilizzo di inchiostri ad acqua, e diventa un trovare un equilibrio possibile tra il desiderio di fare e la capacità di farlo in modo consapevole. «Si pensa che il digitale abbia un impatto ambientale minore, ma non è così. Consuma, e tanto. Noi cerchiamo un approccio sostenibile, ma deve esistere anche la sostenibilità della vita possibile, che ci fa sentire appagati. Creare qualcosa con le proprie mani, ad esempio, dà un altro significato alle cose».

Partire da zero. Andare, tornare, restare: non è un percorso semplice e univoco, ma è una scelta di coerenza. «Quale sarebbe stata la strada lavorativamente più facile? Il posto fisso. Babbo ogni tanto me lo dice di fare un concorso. Ma questo è un lavoro che faccio per passione. Magari non ho chissà quali agi, ma ho una casa, una macchina, un lavoro che mi permette di vivere. E sono a casa. Questa libertà non me la può dare nessuno». Una tra le soluzioni possibili, nel percorso obbligato dell’indecisione, diventa «scegliere quello che si sente, quello che funziona per noi». Contemplando l’idea che restare non è fermarsi, ma dare radici al proprio cammino.