Alimentazione intuitiva e il diritto a esistere nei propri corpi: intervista alla nutrizionista Michela Pacifico
La nutrizionista Michela Pacifico racconta il suo percorso professionale e umano verso l’alimentazione intuitiva, un approccio che mette al centro l’ascolto, il benessere e la libertà dei corpi, sfidando le logiche delle diete prescrittive e dello stigma sul peso.

Cambiare approccio mentale al cibo per cambiare il peso che gli diamo. La filosofia di Michela Pacifico, biologa e nutrizionista originaria di Selargius, è un po’ questa. Il suo, dopo un inizio legato alla consulenza nutrizionale classica fatta di software, grammature e piani alimentari standardizzati, è un percorso professionale che ha preso un’altra strada: quella dell’alimentazione intuitiva. Non un metodo alternativo, ma un vero e proprio cambio di paradigma, che mette al centro la persona e sposta il focus da quella che è la dieta tradizionalmente concepita. Un modo di intendere il cibo che non si misura in calorie, ma in ascolto, consapevolezza e libertà.
Come è arrivato l’interesse per l’alimentazione intuitiva e di cosa si tratta?
Dopo l’università ho seguito un master in Consulenza nutrizionale dove ci hanno insegnato a fare la dieta classica, con l’utilizzo di un software. Una prassi abbastanza consolidata: inserisci i dati della persona, fabbisogno, eventuali patologie e il software calcola la dieta. Fin da subito non mi sono trovata bene: venivano fuori diete da 30 pagine con miliardi di alternative che ti dicono cose senza senso a livello pratico, tipo “di albicocche ne puoi mangiare 100 grammi, di pesche 110”. Un modello di lavoro che è però quello che ti viene insegnato a utilizzare.
Nel frequentare un corso di mindfulness per la riduzione dello stress, tema che si interseca con l’alimentazione, diversi campanelli in me si sono accesi, anche sul fatto che sono spesso i professionisti dell’alimentazione a generare stress, concentrandosi sul cibo e prescindendo dal comportamento alimentare. Ho iniziato così a lavorare in autonomia, senza software e senza il conto calorico che di base, per il 90% delle persone [stima approssimata, ndr] non serve a niente: per persone con patologie specifiche o sportivi – per cui può essere importante il peso, ad esempio – è utile, altrimenti no.

Piano piano ho iniziato a lavorare con alimentazioni basate sulle preferenze della persona, sullo stile di vita, guardando a quella che si chiama alimentazione intuitiva, in base alla quale secondo le proprie necessità e secondo il proprio senso di fame ci si orienta nella scelta alimentare. Una modalità utile anche su più fronti, perché se noi imponiamo alla persona quello che deve mangiare, questa perde il contatto col proprio senso di fame e sazietà: mangia per obbligo. Da lì la scelta di studiare e approcciarmi all’alimentazione intuitiva, più libera e basata sulle necessità individuali della persona.
Mi viene da dire un’alimentazione intuitiva e anche “autogestita”.
Sì, da professionista ti posso suggerire un timing dell’alimentazione, se poi effettivamente ti trovi bene sarai tu a scegliere di continuare o meno. La cosa principale non è tanto far arrivare le persone al loro peso minimo, perché poi alla fine le diete da software ti dicono che le persone devono pesare tot, anche se il peso minimo sulla carta non è quello realistico di una persona. Alimentazione intuitiva è invece vedere ciò che fa stare bene, assicurarsi che sia un’alimentazione naturale e sostenibile da un punto di vista ambientale ma anche sociale e culturale, caratterizzata quindi da flessibilità e varietà e basta: l’ossessione del numeretto crea problemi.
Se i tuoi esami sono buoni e stai bene, non hai bisogno di rientrare in quel “peso ideale” che la società spesso impone
In generale qual è la situazione relativa la cultura alimentare nell’Isola?
C’è molta differenza tra un posto e l’altro ma purtroppo rifornirsi direttamente dal contadino per l’alimentazione quotidiana è una dinamica che non è realistica ovunque. Sicuramente c’è una sensibilità che si sta diffondendo sempre di più, ovunque: molte persone optano per una cultura alimentare attenta al benessere, anche del pianeta, però è difficile. Qua spesso c’è l’ostacolo economico e fare un certo tipo di spesa diventa difficile, anche in termini di tempo disponibile. Chi ha meno disponibilità opta per il confezionato ed è un qualcosa che accade spesso.
Ma “benessere”, cosa significa? Qual è la differenza tra un cibo confezionato e uno al naturale?
Gusto, leggerezza, conservanti che rendono la digestione più difficile. La differenza si nota ad esempio quando consumiamo verdure di stagione prodotte naturalmente: mangiare esclusivamente pomodori tutto l’anno e fuori stagione può portare sensibilità all’istamina; o ancora le uova, se di allevamento in batteria hanno una qualità nutrizionale più bassa.
Penso anche alla ricotta: quella fatta artigianalmente contiene siero di latte, quella del supermercato è fatta con crema di latte – ovvero panna – e siero, quindi contiene più grassi saturi – impattanti a livello salutare – e meno apporto proteico. Il cambiamento è evidente nelle analisi del sangue: se mangio cibi iper-processati ho ad esempio marker infiammatori più alti, glicemia più alta e così via. Il benessere si nota subito a livello ematico, a lungo termine anche a livello fisico: si sta bene.

Sono cambiamenti che devono passare anche per una decostruzione di alcuni pilastri mentali, come l’idea che salute sia sinonimo di magrezza.
La preoccupazione dettata dai tempi che ci sono è: ma in questo modo [seguendo un’alimentazione intuitiva, ndr] non dimagrirò abbastanza in fretta. Purtroppo vince spesso questa fretta sul tempo che invece serve per cambiare. Quello che dico sempre è: il tuo peso naturale una volta che segui un’alimentazione sana, arriverà. E se il tuo peso naturale è questo che hai adesso, vuol dire che il tuo corpo sta bene così. Se i tuoi esami sono buoni e stai bene, non hai bisogno di rientrare in quel “peso ideale” che la società spesso impone; ma serve tempo per comprendere queste cose e voglia di cambiare e ascoltare.
In questo panorama quanto influisce il pregiudizio sul corpo grasso, la grassofobia?
Il problema è molteplice ed è diffuso anche a livello medico professionale. C’è poca empatia e conoscenza da questo punto di vista, anzi. Lo stigma sulla persona grassa come sfaticata, senza volontà, che non si cura della sua salute, è molto diffuso. E sono pregiudizi fortemente radicati anche in professionisti che si occupano di salute, e quindi per forza anche di salute mentale, che pure quando vedono la persona grassa rispondono: “Eh ma mangia di meno”. È terribile. Troppi colleghi – e purtroppo anche non colleghi che danno consigli illegalmente – guardano al raggiungimento del cosiddetto peso ideale come finalità del percorso alimentare e in virtù di questo, alla persona grassa viene automaticamente instillata l’idea che debba perdere peso.
Serve una decostruzione importante e sincera, anche perché se tu vieni da me per dimagrire e io ti devo dire che no, tu non devi dimagrire, di fatto sto perdendo lavoro e può non essere conveniente nel mondo di oggi; ma bisogna farlo. La grassofobia è un problema, lo stigma del grasso crea problemi a livello comportamentale ed etichetta le persone. Se ti dicono da quando sei piccola che sei pigra e che non hai cura di te, poi un po’ ci credi. Serve un lavoro di sensibilizzazione ed educazione molto grande.

Nel guardare al mondo per etichette, cosa ci perdiamo?
Tutto. Le persone naturalmente hanno forme differenti, la popolazione mediamente però non conosce che la genetica è diversa: ci sono persone geneticamente magre che non hanno possibilità di accumulare grasso, ci sono le persone che geneticamente ne accumulano di più e poi ci sono tutte le fasce di mezzo. Se tu hai una certa forma non arriverai mai ad averne un’altra, è impossibile: è genetica.
In conclusione, come possiamo creare una cultura del benessere che non si basi sull’estetica standardizzata come ideale unico?
Cercare di far passare un messaggio più legato alla salute che all’estetica, ed è un lavoro che andrebbe fatto a 360 gradi, anche a partire dai pediatri, da chi si prende cura delle persone più piccole. Dovrebbero istruire i genitori a un’alimentazione sana ma ciò che serve è anche ricreare quell’intorno alla famiglia che permette alle persone di prendersi cura. Attorno a una famiglia con figli – perché il futuro che vogliamo passa per l’educazione che diamo ai bambini di oggi – creare una rete di supporto che da il tempo di fare la spesa, di cucinare, di educare al benessere, può creare cambiamento. E anche comunicare il più possibile, per il benessere personale e per il benessere del pianeta.
Informazioni chiave
Il cambio di paradigma: dalla dieta classica all’alimentazione intuitiva
Lasciare l’idea della nutrizione basata su software, grammature e conteggio calorico, optando per l’alimentazione intuitiva, un approccio centrato sull’ascolto del corpo, sul senso di fame e sazietà, e sulla libertà e autogestione individuale. Un’alimentazione che tiene conto dello stile di vita della persona e mira al benessere mettendo da parte il raggiungimento di un “peso ideale”.
Connessione tra alimentazione, sostenibilità e accessibilità economica
Cibo naturale e di stagione porta maggiori benefici per il corpo. Tuttavia, ostacoli economici e sociali limitano spesso l’accesso a un’alimentazione sana. La cultura del benessere dovrebbe essere anche ambientale, culturale e economicamente accessibile.
Nuove narrazioni sui corpi
La grassofobia è il pregiudizio, lo stigma e la discriminazione verso le persone con un corpo grasso. Non è solo una questione estetica, ma un problema sociale, culturale e anche sanitario, che ha impatti profondi sulla salute mentale e fisica delle persone. Basta guardare alla genetica stessa per sfatare l’idea che tutti possano (e debbano) avere lo stesso tipo di corpo.
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