Archeologia dimenticata: un patrimonio senza cura e un’eredità disattesa
In Sardegna l’archeologia è ovunque, ma spesso inaccessibile: molti musei sono sottofinanziati, carenti di personale e senza una programmazione stabile. Ce ne parla Andrea Carboni in questa inchiesta Indip.

La Sardegna, dal punto di vista dell’archeologia, sconta un piccolissimo paradosso: a fronte di un patrimonio ricchissimo e al netto di pochissimi siti superstar, l’immensa “collezione” a cielo aperto ha nella maggior parte dei casi un riscontro quasi nullo. Nuraghi, domus de janas e tombe dei giganti sono spesso abbandonati a se stessi, perché manca una strategia regionale per la loro valorizzazione. Inoltre la spesa pubblica a sostegno del settore è minima, in gran parte destinata ai monumenti più importanti o agli interventi urgenti.
Se nelle zone turistiche è più facile sopravvivere grazie al maggior numero di biglietti staccati – ma non è la regola –, nelle aree interne è difficile anche fare manutenzione. A Sardara, giusto per fare un esempio, piove dentro il museo. Si giunge così a un ulteriore paradosso: gli edifici che dovrebbero tutelare questi reperti archeologici rischiano di danneggiarli. A fare la differenza è dunque l’entità dei finanziamenti che Stato e Regione destinano ai Comuni, titolari di gran parte di questo immenso patrimonio.
L’Italia, da circa vent’anni, è uno dei paesi che investe meno in Europa nel settore culturale: la spesa non supera lo 0,3% del prodotto interno lordo, che corrisponde a poco più di 3 miliardi di euro. Dal canto suo, la Regione non ha fatto molto di più, tanto che per il 2024 ha investito 46,5 milioni per la valorizzazione di musei e beni culturali, corrispondenti allo 0,5% delle risorse stanziate dall’ultima legge di bilancio. A queste condizioni è ovvio che sorgano dei problemi, anche dove le potenzialità non mancano. C’è poi un altro tema: la capacità dei Comuni di ottenere i fondi necessari alla valorizzazione. Non sempre è semplice per i piccoli centri partecipare ai bandi promossi dalla Regione.

Archeologia, un bene non valorizzato
Il quadro che emerge è il seguente: gli aiuti finanziari non arrivano a tutti gli operatori, sono estemporanei e se non bastano a coprire le spese, tantomeno possono garantire gli organici adeguati alle necessità dei siti. Oltre alla valorizzazione, la gestione di un bene culturale comprende infatti una serie di attività amministrative, burocratiche e di programmazione.
L’assenza di una programmazione a lungo termine non consente di sviluppare strategie di promozione efficaci, con ovvie ripercussioni sugli incassi della maggior parte dei siti museali sardi: il 65% di questi sopravvive con meno di 5.000 visitatori ogni anno, anche quando si trovano in aree a forte vocazione turistica o in prossimità di siti maggiormente frequentati. Un esempio su tutti: se al museo di Cabras – che ospita i famosi giganti di Mont’e Prama – si son recati nel 2022 42.000 visitatori, nello stesso anno il museo archeologico di Oristano ha staccato appena 6.500 biglietti. È la dimostrazione del fatto che oltre ai finanziamenti manca anche la messa a sistema della rete museale.
I problemi appena illustrati si ripropongono anche nell’ambito del progetto di candidatura di 66 siti archeologici, tra domus de janas, nuraghi e tombe dei giganti, alla World Heritage list dell’Unesco. Gran parte di essi non è fruibile. La ragione? Nessuno li gestisce. Il colmo è che spesso questi siti non sono minimamente pubblicizzati. Le informazioni spesso si trovano solo nelle pagine web create da appassionati di archeologia che tengono traccia dei “beni dimenticati”.

La valle dimenticata
Nell’area del Meilogu, una porzione del Logudoro, nove piccoli Comuni ospitano un patrimonio composto da nuraghi e tombe dei giganti: sono quaranta in tutto. Tra questi, solo Torralba è riuscita a valorizzare il nuraghe Santu Antine, gestito dalla cooperativa La Pintadera. Maria Grazia Gambella, presidente della cooperativa, spiega che «tra i monumenti della Valle dei nuraghi non c’è un’omogeneità di trattamento: il Santu Antine è ben conservato, gli altri vengono valorizzati con altre attività, come le passeggiate archeologiche, ma gestirli non è semplice».
Per suffragare queste parole bastano sette minuti di viaggio, direzione Thiesi, un piccolo Comune con un patrimonio archeologico tanto grande quanto poco considerato. La domus de janas Mandra Antine è tra i siti candidati alla lista dell’Unesco, mentre poco lontano si trovano il suggestivo altare rupestre di Mont’e Mesu e il nuraghe Majore. Il Comune non può investire quanto necessario, quindi questi beni rimangono senza gestione e scarsamente fruibili. In pratica, Thiesi e altri centri nei dintorni hanno tante potenzialità ma non riescono a intercettare i quasi 50.000 visitatori che visitano ogni anno il Santu Antine di Torralba.
Per Gambella il problema è risolvibile, ma servono fondi: «Con il sistema attuale è impossibile, il cambiamento può partire solo dalla Regione. Noi abbiamo fatto delle richieste per gestire altre domus de janas e nuraghi nelle vicinanze, ma questi siti hanno il deserto intorno. Comuni così piccoli non hanno le risorse per dotarsi delle infrastrutture necessarie, c’è molto da fare: bisogna collegare i siti già gestiti con quelli non fruibili, servono percorsi, biglietterie, allacci elettrici e idrici, punti di ristoro e una migliore accessibilità. La valorizzazione è possibile se la Regione dà la possibilità di farla. Ma se non c’è nulla non è possibile fare molto».
I gestori si impegnano a tutto campo per mantenere vivo l’interesse sull’archeologia, tutto l’anno
Anche nel caso del Santu Antine le gare d’appalto non lasciano molti margini di intervento ai gestori. All’ingenua domanda sulla durata del contratto di gestione, la risposta della presidente è secca: «Magari si parlasse di anni! Abbiamo vinto una gara della durata di un anno, prorogabile per un altro anno se ci comportiamo bene. Siamo costrette a programmare le attività mese per mese».
Il nuraghe attira una notevole quantità di persone, programmare altre attività diventa impegnativo anche perché servirebbero più figure professionali: al nuraghe e al museo sono attivi laboratori ludici e didattici accompagnati da lezioni di archeologia, si organizzano eventi culturali, musicali, escursioni con le biciclette. I gestori si impegnano a tutto campo per mantenere vivo l’interesse sull’archeologia, tutto l’anno, ma a pochi chilometri di distanza c’è il vuoto.
«I musei non vanno aperti, vanno mantenuti aperti»
L’unico museo in Europa dedicato interamente all’ossidiana, nonostante la fama consolidata, sperimenta le stesse condizioni di altri piccoli centri. Pau è un Comune dell’Alta Marmilla, abitato da meno di 300 persone. Tuttavia, nonostante faccia parte del Sistema museale nazionale, il museo non supera i 5.000 visitatori. La vicinanza alla reggia nuragica di Barumini – Patrimonio dell’Umanità UNESCO, ndr – è però un’arma a doppio taglio: il sito archeologico è ricchissimo, offre biglietti cumulativi per visitare altri luoghi e difficilmente i turisti arrivano fino a Pau. I monumenti più famosi rischiano quindi di diventare una presenza schiacciante, ma Pau ha il vantaggio di essere qualcosa di completamente diverso dagli altri siti archeologici.

La presidente dell’associazione culturale Menabò che gestisce il museo, Giulia Balzano, ha le idee molto chiare: «I musei non vanno aperti, vanno mantenuti aperti; non basta inaugurarli, bisogna farli vivere giorno per giorno. Pau è un museo specialistico, monotematico, serve una motivazione specifica per arrivare qui. Per uscire dalla dipendenza del turismo mordi e fuggi è necessario programmare attività che permettano di intercettare chi vive in questa regione, non solo chi viene in vacanza. Manca un’organizzazione virtuosa a monte, siamo noi operatori che diamo informazioni agli interessati in cerca di itinerari approfonditi».
Una porzione dell’area archeologica di Pau è candidata alla World Heritage List dell’Unesco: si tratta delle officine litiche di Su Forru de is Sinzurredusu, che in questo momento non sono gestite e tantomeno visitabili. L’intervento di archeologia preventiva è terminato pochi anni fa ma l’area deve ancora essere messa in sicurezza. Quest’anno la Regione ha concesso al Comune un finanziamento straordinario della durata di tre anni: una soluzione temporanea, ma preziosa per risolvere le criticità principali di una struttura che fino ad oggi poteva contare solo sui fondi stanziati a valere sul bilancio comunale.
Una delle più importanti secondo Balzano riguarda il personale: «Il museo dell’ossidiana ha bisogno di incrementare il personale, così come è necessario dotarsi di un budget dedicato per avere un numero sufficiente di addetti per più tempo. Non si tratta solo di aprire il museo e fare le visite guidate ma progettare i servizi, le attività culturali, amministrative e gestionali, le pulizie. Nei piccoli musei bisogna fare tutto, rappresentano dei presidi culturali necessari in un territorio sguarnito». In questi anni, le presenze sono aumentate, ma si può dire che i visitatori siano passato da pochissimi a pochi.
Puoi leggere la versione integrale dell’inchiesta di Andrea Carboni su Indip e tutte le altre inchieste gratuite qui.
Commenta l'articolo
Per commentare gli articoli registrati a Italia che Cambia oppure accedi
RegistratiSei già registrato?
Accedi