“Eversivi e antistatali”: il ritorno del banditismo nella grammatica del controllo
Gruppi criminali sardi, assalti ai portavalori e vecchi stereotipi: le parole di Roberto Saviano riaccendono il dibattito sul presunto legame tra banditismo storico e criminalità organizzata.

In breve
Le parole di Saviano riaccendono il dibattito sulla criminalità e sull’identità sarda
- Lo scrittore cita gruppi criminali sardi tra i responsabili degli assalti ai portavalori, suscitando reazioni nell’isola.
- La magistratura parla di continuità tra i sequestri del passato e le rapine di oggi, con toni allarmanti.
- Il banditismo viene richiamato come chiave di lettura, ma è anche un fenomeno storico complesso e radicato.
- Negli anni ’60 lo Stato risponde con il Piano di Rinascita e la Commissione Medici, puntando a riformare l’economia e la società sarda.
- La scuola è vista come strumento per integrare la cultura sarda nei valori della nazione.
- La figura del bandito, da simbolo di resistenza a nemico dell’ordine statale, resta centrale nel discorso pubblico.
“La Sardegna gronda crimine”. Anche con queste parole Roberto Saviano ha risposto alle polemiche in merito al suo commento sul coinvolgimento di rapinatori sardi nell’assalto a due portavalori, avvenuto il 28 marzo scorso in provincia di Livorno. Sul suo canale YouTube infatti, il famoso scrittore racconta che i due grandi gruppi criminali impegnati in questo periodo negli assalti ai portavalori sarebbero foggiani e sardi, questi ultimi provenienti soprattutto da Sassari e Desulo. Affermazioni che hanno suscitato un certo malcontento nell’Isola, percepite come radicate in vecchi pregiudizi che equiparano i sardi a banditi.
È lo scrittore stesso a chiamare in causa il banditismo: e questo – al di là della polemica – è particolarmente interessante. Nel 2024, il procuratore generale di Cagliari Luigi Patronaggio affermava che il fenomeno delle rapine ai portavalori presenta alcune analogie con i vecchi sequestri di persona. Anche secondo Saviano esiste una continuità: se la criminalità sarda “è riuscita a togliere, dopo la stagione dei sequestri, ogni attenzione da sé” si è comunque sempre mantenuta in attività. Nelle parole dello scrittore “sono decenni che le organizzazioni sarde rapinano portavalori e riciclano soldi delle rapine”.
Per Patronaggio non si tratta però di semplici furti: «Questo è un fenomeno che mette a repentaglio la sicurezza pubblica e ha dei connotati eversivi e antistatali». “Eversivo è tutto ciò che tende a rovesciare, sconvolgere l’assetto sociale e statale, anche mediante atti rivoluzionari e terroristici”, secondo il vocabolario Treccani. L’affermazione del procuratore ha dunque un marcato tono di allarme.
E si accompagna alla richiesta di fare «un salto di qualità, nella repressione, nella prevenzione, nelle indagini» riprendendo le metodologie di “controllo del territorio, controllo dei paesi, controllo dei movimenti» che erano state usate dalle forze dell’ordine durante la stagione dei sequestri di persona. Continuità criminale dunque tra il banditismo di ieri e le rapine di oggi. Eversione, controllo, repressione: ma da dove deriva la legittimità di un certo tipo di linguaggio quando si parla di criminalità sarda?

Sardegna e banditismo
Tra gli anni ‘60 e ‘90 in Sardegna si contarono più di 170 sequestri a scopo di estorsione. I giornalisti coniarono un termine – Anonima sarda o Anonima sequestri – per riferirsi a queste bande organizzate che, al contrario della criminalità di tipo mafioso, non avevano un nome né una struttura o dei membri fissi. Autori erano i banditi: soprattutto uomini, poche le donne, che da secoli in Sardegna agivano in aperto conflitto con l’autorità centrale e l’ordinamento dello Stato seguendo precisi codici di giustizia e onore. Figure avvolte nella leggenda e nel mito, incarnavano – ieri come oggi – l’ideale della resistenza della popolazione sarda a soprusi e dominazioni straniere e a codici etici estranei o imposti.
Nella pratica, il banditismo generò non solo faide e sanguinose vendette, ma anche crimini come l’abigeato, gli incendi dolosi, il danneggiamento delle coltivazioni e del bestiame, le estorsioni, le rapine e, soprattutto dagli anni Sessanta, i sequestri di persona. In questo clima venne istituita nell’ottobre del 1969 la Commissione parlamentare d’inchiesta sui fenomeni di criminalità in Sardegna o “Commissione Medici” dal nome del suo presidente, il democristiano Giuseppe Medici. Nasceva per indagare le cause del banditismo, in un’epoca in cui i sequestri di persona erano frequenti e occupavano le prima pagine delle cronache nazionali. Erano anche gli anni del Piano di Rinascita che, approvato nel 1962, mirava a modernizzare l’economia isolana.
All’origine del banditismo sardo sarebbe anche una sfiducia antica dei sardi nei confronti dell’autorità centrale, dello Stato
Oggi sappiamo che il Piano fu un fallimento: i suoi mega-poli industriali non crearono occupazione reale ma generarono gravi e ancora attuali danni ambientali. Ma è importante ricordare che il Piano di Rinascita e la Commissione sul banditismo seguivano la medesima logica. Se “progresso” era la parola chiave, ciò nasceva da una convinzione radicata anche tra i parlamentari più riformisti e cioè che le popolazioni della Sardegna si ostinassero a vivere secondo strutture sociali e codici valoriali arcaici, che le rendevano refrattarie alla vita civile dentro uno Stato democratico.
L’economia isolana doveva essere modificata perché la società sarda doveva essere cambiata, plasmata per essere resa penetrabile dai codici etici istituzionali, e questa trasformazione doveva avvenire per il bene dei sardi stessi. Questi obiettivi programmatici si ritrovano nelle relazioni della Commissione e nelle interviste rilasciate all’epoca. Oggi può stupirci, ma i parlamentari che seguivano l’inchiesta riuscirono a riconoscere nel banditismo un fenomeno di origine resistenziale, risultato di ingiustizie e soprusi storicamente vissuti dalla popolazione sarda.
Il dito puntato su economia e struttura sociale
Nel gennaio del 1971, il programma AZ dedicava ai sequestri dell’Anonima una puntata in cui riferiva che “all’origine del banditismo sardo sarebbe anche una sfiducia antica dei sardi nei confronti dell’autorità centrale, dello Stato”. Eppure il Senatore Medici, ospite in quella stessa occasione, affermava che “le forme tipiche del banditismo in Sardegna saranno definitivamente estirpate solo quando l’arcaica società pastorale e rurale diventerà una moderna società agricola”: da lì il ruolo centrale del Piano di Rinascita.

I sardi delle aree interne e in particolare della Barbagia sarebbero dovuti cambiare e con loro l’intero tessuto socio-economico: non più pastori, ma operai, agricoltori o al massimo pastori stanziali “che vivono da uomini civili e moderni” pur mantenendo “le grandi virtù tradizionali delle popolazioni sarde”. Virtù che, agli occhi dei fautori di questo grande progetto politico, niente avevano a che vedere con la realtà che il Piano di Rinascita mirava a stravolgere.
L’idea era, insomma, che il banditismo dovesse essere risolto non con la repressione poliziesca ma con una maggiore, più efficace e capillare presenza dello Stato – con le sue istituzioni e i suoi funzionari – in Sardegna, accompagnata da interventi per cambiare radicalmente l’economia e la struttura sociale delle aree interne. Da qui le pagine, particolarmente significative, che la Relazione finale della Commissione dedicava al ruolo della scuola nell’isola. La Scuola con la S maiuscola avrebbe dovuto “educare i cittadini secondo i princìpi, i valori, le tradizioni che stanno alla base della vita nazionale”, incorporando, al contempo, anche i valori della cultura regionale.
Quella “sardità” che si opponeva alla piena italianizzazione
L’obiettivo di questo apparentemente nobile programma di integrazione della cultura sarda dentro la formazione culturale italiana era in realtà quello di contrastarne le tendenze eversive: “Una Scuola che trascuri i valori della cultura regionale potrebbe (…) favorire le tendenze isolazioniste – particolarmente dannose per lo sviluppo della società sarda – che di recente si sono manifestate con la proposta di considerare il sardo come lingua di una minoranza etnica”.

Un progetto dunque di modifica della società sarda che avrebbe dovuto lavorare su più fronti per trasformare quei sardi arretrati e riottosi in “cittadini che potranno partecipare (…) alla vita della Nazione”. Il bandito rappresentava in questo senso l’incarnazione di quella sardità che, ancorata a tradizioni e a costumi, si opponeva alla piena italianizzazione.
La lunga, tormentata – e per molti, romantica – storia del banditismo in Sardegna si è forse conclusa solo poche settimane fa, con la morte di quello che in tanti consideravano l’ultimo bandito, esponente di spicco del banditismo sardo del dopoguerra: Graziano Mesina. Autore di fughe rocambolesche e per lungo tempo latitante, Gratzianeddu aveva speso più di quarant’anni della sua vita in carcere. La sua morte a 83 anni nel reparto detentivo ospedaliero, nonostante le richieste di scarcerazione per una malattia terminale, è stata interpretata da molti come la dimostrazione di un accanimento nei suoi confronti: “vendetta di Stato”, queste le parole della garante dei detenuti della Sardegna Irene Testa.
È importante guardare in modo critico al linguaggio delle istituzioni tutte, Arma compresa, che oggi descrivono la criminalità sarda con pericolosi caratteri di eversione dall’ordine costituito. L’obiettivo dello Stato-nazione è in primis la sua autoconservazione: in Sardegna però lo spauracchio della dissoluzione dell’Italia ha giustificato interventi scellerati che hanno rovinato la nostra cultura e le vite di molti, banditi e non.
Commenta l'articolo
Per commentare gli articoli registrati a Italia che Cambia oppure accedi
RegistratiSei già registrato?
Accedi