L’Italia soffre di deficit democratico, il referendum sulla cittadinanza può essere un rimedio?
Cosa si intende per deficit democratico, a cosa è dovuto e come si può superare? Riflettiamo su questi temi grazie al contributo curato da Julio César Peluffo del Comitato Cittadino per le Voci Migranti.

Il referendum dell’8 e 9 giugno è più di un dibattito sulla cittadinanza o una riforma in materia di lavoro. L’aspetto essenziale è la qualità della democrazia o meglio il deficit democratico da cui soffre la nostra società. Si parla di deficit democratico quando una società esclude od ostacola la partecipazione politico-elettorale di una parte numericamente e socialmente significativa dei cittadini oppure quando le istituzioni, i processi e gli attori politici non riflettono adeguatamente gli interessi della maggioranza (Hayduk, Ronald; Held, David).
Ius soli e ius sanguinis
Per quanto riguarda il primo scenario, molti autori, esperti di diritto costituzionale, sociologia e filosofia politica1, riconoscono che un periodo di 10 anni per poter richiedere la cittadinanza – nel caso italiano, nella pratica, sono tra 13 e 16 anni a causa dei tempi di attesa e della burocrazia – rappresenta un ostacolo eccessivamente elevato, discriminatorio e antidemocratico nei confronti di milioni di persone che, di fatto, già fanno parte della comunità politica ed economica nazionale. Soprattutto se si considera che la media in Europa è di 5,5 anni.
Questa discriminazione rappresenta una negazione di un principio cardine della democrazia moderna: no taxation without representation ovvero “nessuna tassazione se non si è rappresentati”. In altri termini, ai cittadini a cui vengono imposti doveri in materia tributaria spetta il diritto di eleggere i propri rappresentanti. Qual è la giustificazione per escludere dall’esercizio democratico quelle donne migranti che rappresentano il 75% delle badanti, pagano le tasse, vivono qui da più di cinque anni e costituiscono una componente fondamentale del sistema di cura della società italiana?

Parte di questa discriminazione è sostenuta dalla preponderanza che ha lo ius sanguinis nella legislazione italiana, che riconosce come criterio centrale per la cittadinanza la filiazione biologica. Questo criterio si è imposto alla fine del XIX secolo, con particolare forza in paesi come la Germania e l’Italia, dove l’unità nazionale e la formazione tardiva dello Stato-nazione si stavano costruendo sulla base dell’identità etnica e della “purezza nazionale” (Brubaker, Rogers).
Al contrario, nella maggior parte dei paesi occidentali, per origine o per riforma, le legislazioni hanno privilegiato lo ius soli – cittadinanza a chi nasce sul territorio – o una combinazione tra ius soli e ius sanguinis. Si riconosce così che il concetto di cittadinanza si è progressivamente svincolato dal rigido ancoraggio etnico/razziale, diventando una qualità acquisibile, segno di una scelta personale o di una circostanza di appartenenza a una comunità (Mezzanotte, Massimiliano).
Questa rigidità non corrisponde nemmeno alle condizioni che ha trovato la diaspora italiana nei secoli XIX e XX in paesi come – tra gli altri – il Brasile, l’Argentina, gli Stati Uniti o l’Uruguay, dove il tempo medio per poter fare domanda di cittadinanza è inferiore ai 5 anni e lo ius soli ha garantito diritti ai loro discendenti.
Lo ius sanguinis appare oggi un criterio obsoleto, incapace di rispondere alle sfide poste dalla realtà contemporanea. L’Italia, come il resto del mondo, è cambiata e per principio democratico dovrebbe riconoscere giuridicamente l’italianità in tutte le sue forme e colori, indipendentemente dal background migratorio, evitando la vergognosa discriminazione contro gli “italiani senza cittadinanza”: figli di migranti, nati qui, che si riconoscono come italiani ma che trascorrono decenni vivendo come cittadini di seconda categoria.
Il diritto di voto agli immigrati, almeno a livello locale, può rappresentare una necessità per superare parte del deficit democratico
Deficit democratico e lavoro
L’altra faccia del deficit democratico riguarda il deterioramento del contratto sociale in ambito lavorativo. Non basta l’esistenza di elezioni periodiche perché un sistema politico possa definirsi autenticamente democratico. Se la crescita e il benessere economico non sono condivisi tra i diversi strati sociali, esiste un alto rischio di delegittimazione del sistema e delle sue istituzioni.
Per oltre trent’anni l’Italia ha vissuto una regressione nella redistribuzione del reddito nazionale, con una diminuzione della quota destinata al lavoro e un aumento di quella attribuita al capitale. In altre parole, i redditi derivanti dal capitale – profitti aziendali, rendite, dividendi – sono aumentati sproporzionatamente, indicando una maggiore concentrazione della ricchezza.
Al contrario, tra il 2000 e il 2022 non vi è stata crescita dei salari reali; anzi, questi sono diminuiti (-0,9%), mentre negli altri paesi del G7 la crescita media è stata del 18,25%. Allo stesso modo, l’indicatore del reddito disponibile delle famiglie2 mostra che l’Italia è l’unico paese del G7 a registrare un calo (-5,3%), mentre la media degli altri, dopo 17 anni, è stata positiva di circa il 16%.

Il referendum dell’8 e 9 giugno
I quattro altri quesiti referendari sul lavoro non bastano certo a correggere tre decenni di politiche di precarizzazione del lavoro stesso, flessibilizzazione del mercato e stagnazione salariale, ma rappresentano un minimo rimedio che merita il sostegno di tutti coloro che si pregiano di difendere la democrazia, al fine di aumentare i livelli di stabilità e sicurezza lavorativa per milioni di cittadini.
Da oltre tre decenni, sia a livello accademico che nella stessa legislazione europea – si veda la Convenzione sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica locale, adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 5 febbraio 1992 –, si discute di come il diritto di voto agli immigrati, almeno a livello locale, rappresenti una necessità per superare parte del deficit democratico di cui abbiamo parlato.
Si propone, in questo senso, oltre a ridurre gli ostacoli per fare domanda di cittadinanza, la necessità di discutere meccanismi come la cittadinanza espansiva, i consigli consultivi dei migranti o la figura dei consiglieri aggiunti negli organi locali. Il Comitato per le Voci Migranti sta lavorando a una proposta che speriamo possa contribuire a questo dibattito e ad approfondire la riflessione sul livello di democrazia che vogliamo per la nostra società.
1 – Negli ultimi decenni, esperti come Rainer Bauböck, Joseph H. Carens e Seyla Benhabib hanno aggiornato e modernizzato il dibattito sul principio del “no taxation without representation”, nonché sulla rappresentanza e partecipazione politica dei migranti nelle società moderne.
2 – Si definisce come il reddito totale del nucleo familiare dopo tasse, contributi previdenziali e altri obblighi.
Informazioni chiave
Cosa si intende per deficit democratico?
Si verifica quando si ostacola la partecipazione politica dei cittadini o quando essi non sono adeguatamente rappresentati dalle istituzioni.
L’ottenimento della cittadinanza come possibile soluzione
Accorciare i tempi di ottenimento della cittadinanza italiana potrebbe influire positivamente sul deficit democratico che c’è in Italia.
L’impatto sul mondo del lavoro
Un altro effetto negativo del deficit democratico riguarda il deterioramento del contratto sociale in ambito lavorativo.
Il referendum dell’8 e 9 giugno
Pur non rappresentando una soluzione definitiva, i quesiti referendari sul tema sono un tentativo di porre un minimo rimedio che merita di essere sostenuto.
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