Matteo Bassetti: “Cari medici, prescrivere farmaci non basta, con i pazienti ci vuole empatia”
Una persona non è una macchina e un medico non è un tecnico. Curare i pazienti non significa solo guarirne le malattie, ma prendersene cura anche sotto il profilo umano. Lo sostiene l’infettivologo Matteo Bassetti.

Se la rubrica che state leggendo si intitola “World in progress” il motivo è che, attraverso le interviste mensili che conduco ormai da un anno e mezzo su Italia Che Cambia, intendo proprio mettere l’accento sui modi in cui la società, i modi di pensare, i comportamenti collettivi si stanno modificando sotto i nostri occhi, a una velocità strabiliante, benché tutto ciò passi quasi sempre sotto silenzio.
Il mondo sta cambiando – molto spesso non in peggio, checché ne dica l’informazione tradizionale – e a questa evoluzione non si può sottrarre nessun settore. Nemmeno quello della sanità, sul quale mi concentrerò oggi. Il vecchio paradigma della medicina concepiva il corpo umano come una macchina, un robot programmato deterministicamente dalla sua genetica, senza alcuna intromissione dei pensieri, delle emozioni o della personalità nel suo funzionamento.
Così i medici sono stati formati come tecnici, chiamati a riparare i periodici guasti della macchina-essere umano, a sostituire i pezzi rotti con un trapianto o a spegnere le spie rosse dei suoi sintomi grazie a una pasticca. Per fortuna progressivamente i professionisti di questo campo si stanno rendendo conto che questo approccio non è più sufficiente. Tanto che a lanciare un autorevole richiamo all’intera comunità scientifica di cui fa parte, è uno degli specialisti divenuti più noti negli ultimi anni in Italia: il professor Matteo Bassetti, il cui ultimo libro – Essere medico, edito da Piemme – riflette proprio su questi argomenti.

«Purtroppo abbiamo ereditato dai nostri maestri una forma mentis secondo cui il medico più bravo è quello più freddo», ci spiega. «La medicina italiana dell’ultimo mezzo secolo ci ha insegnato a entrare in sintonia con le malattie o i problemi dei nostri pazienti, ma non con loro. La formazione è tutta orientata a costruire le competenze tecniche, mentre l’empatia viene considerata un optional: se la applichiamo va bene, altrimenti va bene lo stesso», spiega Bassetti.
La medicina occidentale moderna compie autentici miracoli nella risoluzione di traumi e patologie organiche o nell’eliminazione delle sofferenze, ma si occupa pochissimo del benessere complessivo dell’individuo, in particolare del suo equilibrio emotivo e sentimentale, delle sue aspettative, speranze e paure. “Curare” non può significare semplicemente fare la guerra alle malattie, ma “prendersi cura” della persona nella sua interezza, averne riguardo e attenzione premurosa.
«La situazione è iniziata a cambiare negli ultimi vent’anni, soprattutto a partire dalla cura dei tumori, che è diventata sempre più umana e individualizzata», prosegue Bassetti. «Abbiamo imparato a capire quanto contino anche aspetti apparentemente collaterali, ad esempio fornire una parrucca quando cadono i capelli per colpa della chemioterapia. E oggi questo aspetto è ancora più imprescindibile: se non diamo credito al lato umano della professione, i robot e l’intelligenza artificiale ci spazzeranno via».
Possiamo affermarlo per ogni mestiere: l’unico modo per non subire la concorrenza dei computer è puntare sul valore aggiunto che a loro manca, ovvero l’umanità. Nella medicina ciò vale a maggior ragione, perché questa umanità non incide solo sui rapporti interpersonali, bensì ha anche un effetto terapeutico, influisce direttamente sul decorso della patologia. Come fa osservare Matteo Bassetti, «ci sono decine di studi che dimostrano come l’empatia verso il paziente migliori la cura dei tumori, del diabete, dell’ipertensione, dell’HIV. Non è sufficiente prescrivere una medicina, ma se ne spieghiamo gli effetti, compresi quelli collaterali, si guarisce meglio. Il problema vero è che non so quanti sanitari conoscano questi dati».

Forse, per capire fino in fondo l’importanza delle qualità umane in medicina, occorre dismettere il camice e indossare i panni del paziente, o dei suoi famigliari. «Io mi resi conto che qualcosa non andava quando sono passato dall’altra parte. Nel 2003 mio padre, medico anche lui, si ammalò di tumore alla prostata. Il modo in cui gli venivano, o spesso non gli venivano, comunicate le diagnosi e le complicazioni mi lasciò allibito», racconta Bassetti condividendo la sua esperienza.
«Nel mio percorso professionale successivo l’ho sperimentato sul campo: quando dedicavo più tempo al paziente, lo mettevo a suo agio, entravo in sintonia con lui, gli parlavo non solo di questioni mediche ma della sua vita privata o dei suoi interessi, spesso era lui stesso a fornirmi la diagnosi. Facendolo parlare tirava fuori da solo quei piccoli particolari che mi davano lo spunto per comprendere meglio quale fosse effettivamente la sua patologia».
In caso contrario, quando questo contatto non scatta, i malati o i loro cari se ne accorgono e rischiano anche di reagire male: «Non intendo minimamente giustificare i gravi episodi di violenza contro i sanitari a cui abbiamo assistito negli ultimi anni, che hanno altre ragioni. Ma qualche domanda dovremo pure farcela. Se spieghiamo bene a quella persona che è rimasta in coda per quattro ore al pronto soccorso perché stavamo assistendo casi più gravi, magari lo capisce. Però dobbiamo metterci al suo livello, aprirci davvero a lui: tutto il contrario di quanto fanno alcuni medici baronali che si considerano ancora una casta eletta, che deve stare sulla sua torre d’avorio senza mai sporcarsi le mani».
L’umanità non incide solo sui rapporti interpersonali, bensì ha anche un effetto terapeutico
Oltretutto l’empatia non serve a far stare meglio solamente chi deve essere curato, ma anche gli stessi medici: «Ci hanno sempre insegnato che la freddezza serviva per evitare di farci eccessivamente carico delle sofferenze dei pazienti e di conseguenza finire in burnout. Io invece credo che essere capaci di emozionarsi faccia bene anche a noi. Il nostro non è un mestiere come un altro e sarebbe un errore sceglierlo solo perché lo si ritiene prestigioso o ben retribuito. È un lavoro per cuori forti, in tutti i sensi, dunque bisogna saperlo fare».
Il lato umano della questione è troppo spesso sottovalutato persino quando si parla di come bisognerebbe riformare la sanità: le soluzioni si cercano sempre nei soldi, nei budget, nelle assunzioni, nell’organizzazione, come se fosse tutta e solo una questione di numeri. «Invece dobbiamo avere il coraggio di cambiare il sistema, partendo dalle università, che sono rimaste troppo indietro», ammonisce invece Bassetti. «La laurea magistrale in Medicina dura sei anni: in queste migliaia di ore di lezione alla psicologia del rapporto medico-paziente al massimo se ne dedicano un paio, nel corso di Psichiatria. Evidentemente c’è un problema e lo dice un professore ordinario».

Il problema c’è e credo lo abbia dimostrato plasticamente lo schema con il quale quasi tutto il pianeta ha gestito la pandemia da Covid: la soluzione migliore che siamo riusciti a concepire è stata evitare fisicamente la minaccia del contagio, chiudendoci in casa, distanziandoci, indossando mascherine, proibendo gli assembramenti, arrivando addirittura a rifuggire qualunque manifestazione fisica di affetto, nonché spaventando la popolazione con una comunicazione spinta su toni allarmistici e catastrofistici. Questa modalità ci avrà anche protetto dal coronavirus, ma ha provocato non pochi effetti collaterali: isolamento, solitudine, stress, depressione e altri disturbi psichiatrici, trascuratezza delle altre patologie, aumento delle violenze domestiche.
Anche su questo punto Bassetti dimostra una capacità non comune di autocritica, a nome della sua intera categoria: «Probabilmente si pensava che terrorizzando le persone le si sarebbe predisposte a vaccinarsi e in effetti l’Italia è stato uno dei paesi più vaccinati. Ma penso siano stati anche commessi degli errori», ammette.
«In quel periodo io fui uno dei pochi a tentare di abbassare i toni. Certo, con chi mi minacciava di morte attraverso i social era difficile essere empatico, perché loro per primi non erano disposti ad ascoltare, ma esisteva pure una fetta della popolazione semplicemente spaventata, a cui avremmo tutti dovuto parlare in maniera diversa, non solo gli scienziati ma soprattutto la politica. Penso ad esempio all’apertura di centri di ascolto che potessero accogliere le persone: per il futuro spero che impareremo la lezione», conclude Matteo Bassetti.
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