Il mito della Brigata Sassari e il prezzo della Patria
Dalla storia della Brigata Sassari, emblema della penetrazione dell’identità italiana in Sardegna, a come si è tentato di cucire insieme sardità e italianità, spesso a discapito della prima.

China su fronte, si ses sezzidu pesa. Inizia così Dimonios, l’inno della Brigata Sassari. Come tanti della mia generazione, so intonare perfettamente a memoria tutta la canzone. Alle scuole medie una professoressa ce la fece studiare come inno della Sardegna; ricordo il senso di orgoglio al sentire finalmente nominare e riconoscere la nostra isola in un programma scolastico. Dovettero passare dieci anni prima che scoprissi che la Sardegna non ebbe un inno ufficiale fino al 2018, quando lo divenne “Procurade ‘e moderare”, il canto rivoluzionario dei moti antifeudali ottocenteschi.
È molto significativo che solo pochi anni prima si potesse insegnare a scuola una marcia militare come canto rappresentativo dell’identità sarda e che una trentina di preadolescenti l’avesse dovuta imparare come compito a casa senza che nessun genitore – neanche il più progressista – storcesse il naso. Ancora più significativo è che una giovane studentessa sarda, come ero io, potesse andare per il mondo fino ai vent’anni suonati senza aver mai sentito nominare la Sarda Rivolutzione, ma conoscendo a memoria la marcetta della Brigata Sassari.
Brigata Sassari: la storia
La Brigata è un simbolo che aleggia da oltre un secolo nella memoria collettiva della Sardegna. Fondata il 1° marzo 1915, poco prima dell’ingresso dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale, rappresentò un’anomalia nell’Esercito del Regno d’Italia: i suoi due reggimenti, il 151° e il 152°, erano infatti gli unici composti esclusivamente da soldati provenienti dalla stessa regione.

In un articolo del 2015 su La Nuova Sardegna, il giornalista Piero Mannironi riporta la leggenda secondo cui i “Dimonios” nacquero dopo una rissa furiosa tra un piccolo gruppo di artiglieri sardi e i loro commilitoni continentali, di stanza a Genova nel 1914. “Se è vero, come è vero, che un gruppo di sardi riesce a sbaragliare un reggimento al completo, allora se riusciamo a formare una brigata di soli sardi potremmo vincere qualsiasi guerra”: queste le parole del generale che avrebbe proposto la felice idea allo Stato maggiore dell’esercito.
Coraggio, forza, prestanza fisica, lealtà e intolleranza verso la mancanza di rispetto: caratteristiche-tipo dell’uomo sardo che venivano così riconosciute e valorizzate dalle istituzioni dello Stato. Il “mito” della Brigata Sassari si consolidò con la Grande Guerra, in cui i Sassarini contarono oltre 15.000 perdite tra caduti, feriti, mutilati e dispersi e la Brigata fu decorata con quattro medaglie d’oro al valore militare – caso unico nell’Esercito italiano nell’arco di una sola campagna di guerra.
Durante il Novecento, la Sassari fu sciolta più volte. Ricostituita nel 1988 con il nome di Brigata Motorizzata ‘Sassari’, andò incontro a un ultimo tentativo di smantellamento nel 1994. Il suo salvataggio divenne un caso politico con l’intervento del sindaco di Sassari, di esponenti politici come Gianfranco Fini e persino del ministro della Difesa Cesare Previti.
Nella scelta di salvare e così consacrare una volta per tutte la storica Brigata sarda all’interno della struttura dell’Esercito, ebbe un grande peso il mito di questa istituzione. E con questo intendo tanto ciò che la Brigata rappresentava dal punto di vista ideale – quei valori di coraggio e lealtà che venivano così sanciti come tipici dei sardi – quanto ciò che essa costituiva dal punto di vista politico ovvero un’istituzione che incarnava, con i corpi e con il sangue, la scelta di molti sardi di aderire pienamente all’identità italiana, di vedere nell’Italia “sa Patria”, l’unica e sola, al punto da decidere di sacrificare la propria vita per essa.
Uno sguardo da vicino al mito della Brigata Sassari ci mostra un’operazione di manipolazione audace
Sa vida pro sa Patria
Al giorno d’oggi è quasi un’ovvietà dire che la Brigata Sassari costituisce un importante elemento di penetrazione dell’identità nazionale italiana in Sardegna. Il motto “Sa vida pro sa Patria”, la vita per la Patria, designa l’Italia come il quadro di appartenenza per eccellenza, l’identità più importante di tutte.
Con ciò dobbiamo aver presente che la costruzione del “sentirsi italiani” nella nostra isola ha sempre comportato, al contempo, un’azione decostruttiva di qualche tipo anche sul sentirsi sardi. Uno sguardo da vicino al mito della Brigata Sassari ci mostra l’operazione di manipolazione audace che doveva servire a neutralizzare questo storico conflitto identitario tra sardità e italianità, fabbricando un nuovo modello per il senso di appartenenza collettiva dei sardi.
Lo studioso sardo Andria Pili nel suo La Brigata Sassari tra “nazione italiana” e “razza sarda”, scrive che in Sardegna l’identità italiana deve essere sempre “giustificata” ricercando “eventi storici che avrebbero saldato il legame tra l’isola e la penisola”. Uno di questi eventi chiave che nella narrazione ufficiale avrebbe reso la Sardegna indissolubilmente legata alle vicende dell’Italia, è proprio il sacrificio di migliaia di giovani uomini nella Grande Guerra.

La Sardegna si “mostrava” italiana con questo tributo di sangue, attraverso il quale i sardi confermavano di essere, a pieno titolo, quello che in un certo senso erano sempre stati: italiani – nelle parole del semiologo Franciscu Sedda, “più italiani degli italiani” – in virtù del loro valore e della loro dedizione alla Patria. Il grande paradosso è che il mito deriva direttamente dalle teorie dell’antropologia tardo-ottocentesca, che vedevano i sardi come una razza altra e inferiore: selvaggi in divisa, abili nel combattimento corpo a corpo proprio in virtù della barbarie e dell’arretratezza che connaturavano la loro stirpe, privi delle inibizioni della società civile.
Sardegna, portaerei nel Mediterraneo
Insieme al nazionalismo di Stato, l’altra grande motivazione della scelta di alimentare il mito della Brigata Sassari è di ordine strategico-militare. Nel 1988 lo Stato Maggiore dell’Esercito motivò la ricostituzione dei Dimonios come risposta alla “esigenza di presidiare meglio un settore operativo – la Sardegna – che oggi ha assunto una maggiore valenza nei piani di difesa della NATO” alla luce della nascita di una nuova “area di pericolosità nella zona meridionale della Penisola”. Ancora oggi la Sardegna non ha cessato di essere una “portaerei nel Mediterraneo”, avamposto militare cruciale tanto per i Paesi dell’Alleanza Atlantica quanto per l’Europa stessa, in particolare alla luce del recente Piano di Riarmo.
Da marzo ad aprile l’isola è stata sede della maxi esercitazione navale Mare Aperto 2025, la più grande operazione di addestramento annuale della Difesa in ambito marittimo, con la partecipazione di 6.000 militari di 8 Paesi NATO e oltre 120 mezzi tra navi, sommergibili, aerei ed elicotteri. Dall’8 maggio 2025 ospita la Joint Stars 2025, la più importante esercitazione nazionale interforze, che coinvolge tutte le Forze Armate italiane per testarne la capacità di risposta in scenari di crisi, simulando situazioni di guerra, attacchi informatici ed emergenze civili.

La cosiddetta “fabbrica di bombe”, ovvero le RWM di Domusnovas, nel febbraio di quest’anno è stata descritta dalla testata Analisi Difesa come “una risorsa strategica nazionale per rispondere alla crescente richiesta di munizionamento formulato da tutte le nazioni della NATO”.
Il 1° marzo 2025 a Sassari si è tenuta una doppia celebrazione per il ritorno della Brigata dalla missione in Libano e per il 110° anniversario della sua fondazione. In questa occasione, la sottosegretaria alla Difesa Isabella Rauti ha detto che la Brigata Sassari rappresenta al meglio “il DNA e l’attaccamento alle radici” di questa nostra isola. Questa retorica è piuttosto comune nella politica italiana che, rapportandosi alla Sardegna, strizza l’occhio a quel senso di appartenenza a un popolo che, nonostante tutto, è ancora così diffuso tra noi sardi. In questo modo ammette implicitamente una nostra alterità etnica e culturale, senza doverla riconoscere o renderla oggetto di tutela da parte delle istituzioni dello Stato.
Questo è possibile perché la specificità dei sardi è vissuta come perfettamente conciliabile con l’essere italiani, più italiani degli italiani. Nelle parole della sottosegretaria, la Brigata Sassari mantiene “uno stile italiano di contribuire alla cooperazione e il cuore italiano è sempre generoso”. DNA sardo, cuore italiano: un mischione di identità tagliate e cucite insieme con la forza, creano questo grande Frankestein che può continuare ad avere senso solo finché l’identità sarda è inglobata e neutralizzata in quella italiana. E il sardo è un italiano un po’ speciale, irrimediabilmente italiano proprio perché irriducibilmente sardo.
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