4 Luglio 2025 | Tempo lettura: 10 minuti

Cosa può imparare l’attivismo occidentale dal fallimento della Global March to Gaza

Attraverso le testimonianze di alcune persone che hanno partecipato, proviamo a capire cosa è successo e cosa non ha funzionato alla Global March to Gaza.

Autore: Salvina Elisa Cutuli
Salva
global.march to gaza cover

In breve

I punti deboli della Global March to Gaza e dell’approccio neocolonialismo di una parte dell’attivismo occidentale.

  • La Global March to Gaza, che si sarebbe dovuta svolgere a metà giugno in Egitto, ha coinvolto delegazioni provenienti da tutta Europa.
  • La notevoli difficoltà logistiche, soprattutto nei rapporti col governo egiziano, hanno sin da subito reso molto difficile l’organizzazione e lo svolgimento della manifestazione.
  • In seguito alla mancata concessione di un’autorizzazione ufficiale, il gruppo si è spaccato e alcune delegazioni hanno deciso di procedere comunque con il programma, andando incontro a fermi, arresti e scontri.
  • Secondo una partecipante italiana, questo atteggiamento è figlio di una scarsa conoscenza del contesto e di una mentalità individualista.

Migliaia di persone provenienti da tutto il mondo si sono date appuntamento al Cairo il 12 giugno scorso con l’obiettivo di raggiungere il valico di Rafah e aprire – simbolicamente e praticamente – un corridoio umanitario in soccorso e in sostegno del popolo palestinese. La Global March to Gaza (GMTG) sin da subito si è rivelata un’impresa ardua, forse utopica, ma profondamente significativa. Le cose però non sono andate come come i partecipanti speravano e la marcia pacifica non è mai nemmeno iniziata a causa dell’opposizione delle autorità egiziane.

Le riflessioni di Roberto Solazzi, abbonato di Italia che Cambia e partecipante alla Global March to Gaza, aiutano anche chi non ha partecipato a comprendere la forza di questa iniziativa: «In Egitto si sono ritrovate migliaia di persone con diverse età, condizione sociale ed economica, che credono nell’inalienabile diritto alla vita e all’autodeterminazione di ogni essere umano, che hanno lasciato la propria quotidianità perché non potevano più sentire la pace dentro senza vederla anche fuori, non potevano più sentirsi giusti senza che la giustizia fosse anche fuori. Ho sentito la forza della volontà di essere insieme, con idee diverse, modi diversi per raggiungere lo stesso obiettivo, anche con discussioni lunghe e animate».

«A volte vi è lo sconforto di non riuscire a fare abbastanza – prosegue Roberto –, la frustrazione di non essere sufficientemente incisivi, per poi guardarsi negli occhi e sentire che essere qui in migliaia è già una vittoria, la vittoria dell’umanità contro la barbarie. La dimostrazione che si può fare». Le emozioni però da sole non possono bastare a lasciare un segno, anche nell’attivismo. E la Global March to Gaza ce lo insegna. Quali sono le riflessioni e gli insegnamenti che l’attivismo dei Paesi occidentali può trarre da questa esperienza almeno in parte “fallimentare”?

global march to gaza

Ricostruzione dei fatti

La Global March to Gaza si sarebbe dovuta svolgere dal 12 al 20 giugno. La sera dell’11 giugno il governo egiziano comunicava che non sarebbe stato possibile marciare in assenza di permesso e che bisognava fare una richiesta ufficiale. Questa dichiarazione non ha fermato i tanti partecipanti in partenza per Il Cairo. La maggior parte di loro, una volta giunti in aeroporto, è stata sottoposta a controlli e interrogatori. Moltissime persone sono state trattenute anche per 12 ore per poi essere rimpatriate. La sera del 12 giugno la situazione sembrava essere rientrata, la speranza di marciare non era ancora svanita, ma l’obiettivo della Global March to Gaza si sarebbe sgretolato da lì a qualche ora.

La marcia era stata organizzata da un coordinamento formato da decine di delegazioni, ciascuna delle quali proveniente da un Paese diverso; alcune di questa delegazioni, attraverso i canali Telegram ufficiali della marcia, hanno dato appuntamento a Ismailia a tutti i partecipanti della Global March to Gaza per il giorno successivo, venerdì 13 giugno. Secondo le indicazioni bisognava raggiungere la località per le ore 12 in modo autonomo tramite taxi. Molte persone tuttavia non ci sono mai riuscite perché fermate da posti di blocco lungo il percorso. Quelle che sono giunte alla meta sono andate incontro a scontri, fermi e deportazioni.

L’Egitto non è certo tra i paesi più democratici. Secondo organizzazioni internazionali come Freedom House e Reporters Without Borders, il paese presenta gravi limitazioni alla libertà di stampa, ai diritti civili e alla partecipazione politica. La società civile opera sotto costante sorveglianza e molte ONG indipendenti sono state chiuse o costrette a limitare drasticamente le proprie attività. Inoltre – e questo è il dettaglio che ci interessa in questo contesto – le manifestazioni non autorizzate vengono punite anche con parecchi anni di carcere.

La Global March to Gaza non ha ricevuto nessuna autorizzazione prima della partenza e a posteriori ci sono dubbi sul fatto che sia stata davvero depositata la richiesta: l’ex portavoce della delegazione italiana, Antonietta Chiodo, ha dichiarato di aver ricevuto rassicurazioni dal team legale su questo punto, ma di non aver mai visto la conferma ufficiale di ricezione della richiesta.

global march to gaza

La vicinanza geografica con Israele – che da anni minaccia l’invasione del Sinai – e in più la concomitanza con l’attacco all’Iran, non hanno aiutato il governo locale a prendere una posizione netta in favore della marcia. Semmai ci fosse stata anche una sola possibilità, dopo la manifestazione di Ismailia è svanito qualsiasi tipo di trattativa.

«Saremmo dovuti andare in pullman, molti partecipanti non erano preparati ad avventurarsi in un territorio militarizzato sconosciuto, avevamo con noi anche gente avanti con l’età che aveva bisogno di sostegno. È questo uno dei motivi per cui la delegazione italiana ha deciso di non partecipare alla manifestazione di Ismailia, una scelta che ha creato grossi contrasti anche tra di noi italiani», racconta Antonietta Chiodo.

«Inoltre non sono stati mantenuti i quattro punti accordati con tutte le delegazioni: non mettere in pericolo le persone partecipanti né il popolo egiziano, non chiudere i rapporti con il governo locale, non superare blocchi militari», aggiunge Antonietta. L’Italia non è stato l’unico paese a non aderire: anche la Grecia e la Polonia, ad esempio, sono rimaste ferme al Cairo. Secondo l’analisi di Antonietta, il “caso Ismailia” ha generato numerose divergenze e spaccature che hanno mandato in fumo l’obiettivo originario della Global March to Gaza.

L’attivismo occidentale è troppo “performativo”?

“Gli occidentali pensano di avere il pass d’oro e di poter fare quello che vogliono ovunque”, è stato il duro commento di un giovane egiziano all’indomani di Ismailia. Parole simili alla riflessione di Cecilia, una delle italiane presenti alla Global March to Gaza, bloccata per circa 12 ore in aeroporto insieme a molti altri partecipanti, e poi imbarcata su un volo per Istanbul.

La nostra cultura è super individualista, pensiamo che i nostri diritti siano i diritti di tutti e che tutti possano esprimerli. Spesso nel resto del mondo non è così

«La parte globale della marcia si è sgretolata quasi sin da subito portando alla luce scarse coscienza e conoscenza del mondo al di fuori del nostro. A noi era stato detto, e avevamo anche firmato, di restare fermi se il governo egiziano avesse detto no. Nonostante tutto, l’Egitto si è comportato bene. Un poliziotto in lacrime mi ha accompagnato sull’aereo ringraziandomi per quello che stavamo facendo: pur avendo a cuore i fratelli palestinesi non è semplice per loro schierarsi in modo così esplicito», racconta la partecipante. 

Cecilia non vive in Italia da vent’anni, dal 2020 ha deciso di mettere a disposizione la sua formazione e la sua esperienza al servizio di cause umanitarie in Africa e in Palestina. Fallita l’esperienza della marcia è volata a Istanbul, ma dopo qualche giorno ha voluto raggiungere il convoglio di Sumud – una carovana di migliaia di persone provenienti dai Paesi del Nord Africa, partita il 9 giugno con l’obiettivo di unirsi alla marcia e raggiungere insieme il valico di Rafah – ferma al confine con la Libia in attesa del rilascio di 15 ostaggi.

Cecilia ha fatto con loro l’ultima parte del viaggio di ritorno, toccando con mano un modo diverso di concepire l’attivismo: nonostante una profonda diversità per origine e cultura tra le varie fazioni partecipanti, il convoglio di Sumud non ha mostrato nessuna crepa a differenza delle delegazioni della Global March to Gaza.

global march to gaza

«L’attivismo europeo è molto performativo, nonostante le buone intenzioni. Siamo stati accusati, ancora prima della partenza, dal Global South per la mancanza di coscienza decoloniale che ci contraddistingue, per come ci relazioniamo al resto del mondo. La GMTG al Cairo ha dimostrato che siamo ancora fermi lì nonostante le buone intenzioni. Per essere un movimento globale bisogna comprendere la differenza tra equità e equalità. La nostra cultura è super individualista, pensiamo che i nostri diritti siano i diritti di tutti e che tutti possano esprimerli. Spesso nel resto del mondo non è così, anche in Italia si sta cominciando a metterli in discussione», continua Cecilia.

Al momento della pubblicazione dell’articolo l’attivista si trova ancora a Tunisi come delegata della Global March to Gaza. Vorrebbe fare da ponte con l’Europa trasferendo agli occidentali una maniera altra di concepire l’attivismo. Se la carovana di Sumud è tornata indietro restando compatta, non si può dire lo stesso di quella della marcia globale.

«Quanto è accaduto a Ismalia ci ha costretto a restare separati, nei giorni successivi era vietato riunirsi. Ci ritrovavamo in gruppi e spesso veniva la polizia a controllarci. Avevamo un piano B che in parte è saltato: prevedeva di parlare con il governo egiziano, trovare un luogo dove accamparci e fare incontri con i profughi palestinesi in Egitto. Sarebbe bastato aspettare qualche giorno per incontrare il governo locale e trovare  una mediazione».

«La delegazione italiana ha comunque incontrato alcune famiglie palestinesi al Cairo e abbiamo imparato a cucinare la maqluba con loro, il piatto tipico palestinese. Inoltre, grazie alla delegazione polacca e all’associazione A&A Raimbow, durante i giorni al Cairo abbiamo preso in adozione 13 famiglie di Gaza e inviato delle risorse economiche presso una scuola di Gerusalemme che accoglie orfani della Striscia. Proprio in questi giorni stiamo dando vita a un’associazione italiana, Border Souls, che comprende anche dei palestinesi e persone incontrate al Cairo che promuoveranno progetti di arteterapia, sulla scia di iniziative che ho fatto già in Cisgiordania con i bambini provenienti dalle carceri israeliane», sottolinea Antonietta. 

global march to gaza
Foto di Manfredo Pavoni Gay

La Global March to Gaza a Bruxelles

Le divergenze e le comunicazioni sempre più complicate tra referenti nazionali e internazionali hanno smembrato il movimento durante i giorni al Cairo, incapace di sintonizzarsi su un sentire e un agire comune. In questo contesto è nata l’idea di manifestare a Bruxelles dal 23 al 27 giugno, nei luoghi simbolo del potere dell’Unione Europea. In parecchi hanno aderito all’appello, anche dall’Italia.

Come racconta Maria Elena, la nuova portavoce italiana della Global March to Gaza, «molti europei si sono dati appuntamento il 23 giugno mentre si discuteva l’accordo in scadenza tra UE e Israele. La GMTG ha organizzato una manifestazione partecipata da circa un migliaio di persone. Nei giorni successivi sono state pianificate azioni, manifestazioni e cortei in concomitanza con gli appuntamenti istituzionali sulla geopolitica».

«Al rientro dal Cairo ci siamo riuniti in un’assemblea di bilancio e riorganizzati in una forma più orizzontale, abbiamo costituito diversi comitati e tutte le decisioni sono prese in modo unitario. Bruxelles è stata molto accogliente, una parte del parco del Cinquantenario è diventato il luogo in cui ritrovarci per momenti di accoglienza, conoscenza e confronto tra le delegazioni dei vari paesi». 

Per avere la pace bisogna costruirla, ma non con le armi. I nostri leader politici dicono di essere pronti a combattere per difendere i valori occidentali che ritengono in pericolo. Sono pronti anche a difendere il valore universale della vita umana? È con il dialogo, la tolleranza, la diplomazia e il profondo rispetto che si può alzare la voce contro la guerra, contro le guerre, a partire da Gaza. E forse è questo l’insegnamento più utile che l’attivismo occidentale può imparare dall’esperienza della Global March to Gaza.