Il vero scandalo non è parlare di educazione sessuale, ma è continuare a vietarla
Questo articolo contiene riferimenti a episodi di violenza sessuale, anche su minori. Una riflessione che guarda alla necessità dell’educazione sessuale e affettiva.
Una bambina di dodici anni, in un paese della provincia di Cagliari, ha subito una violenza sessuale che l’ha resa incinta. La gravidanza, scoperta dai medici ai quali la famiglia si era rivolta per dei dolori, è stata interrotta e ora gli inquirenti attendono l’esito dell’esame genetico per identificare l’autore dell’abuso. Dietro queste poche righe di cronaca c’è una storia che non dovrebbe mai esistere: una bambina che si scopre corpo ferito, violato, e un Paese che continua a negarle gli strumenti per capire, per nominare, per difendersi.
Nello stesso tempo, a Sulmona, tre ragazzi – uno di diciotto anni, due minorenni – sono stati arrestati per aver stuprato una dodicenne e diffuso i video delle violenze. È difficile leggere queste notizie senza sentire una vertigine: quanto ci stiamo abituando all’orrore? Quante volte ancora diremo che è intollerabile senza chiederci perché accade e cosa possiamo fare?

Educazione sessuale, un atto di civiltà
Mentre la cronaca ci restituisce ogni giorno corpi di donne violate, la maggioranza di governo discute se vietare, nel primo ciclo scolastico, ogni attività che riguardi l’educazione sessuale o affettiva. Si chiama “pedagogia di Stato” ed è un’operazione di censura. Si preferisce l’ignoranza alla conoscenza, il silenzio al linguaggio, la paura al confronto. Si rivendica la libertà educativa delle famiglie, ma si nega alle bambine e ai bambini la libertà di avere parole per difendersi.
Dietro a ogni abuso c’è una catena di omissioni: una scuola che tace, genitori che non sanno come parlare, una società che confonde la vergogna con la protezione. E così la violenza prolifera nel vuoto delle parole, nel non detto, nell’imbarazzo. L’educazione sessuale non è un attentato alla purezza: è un atto di civiltà. Insegna il consenso, l’autodeterminazione, il rispetto dei corpi, la differenza tra intimità e sopraffazione. Insegna che il piacere non coincide con il dominio e che il desiderio non può essere imposto. Insegna che si può dire “no” e che quel “no” va ascoltato.
Parlare di sesso, di consenso, di affettività significa invece restituire libertà.
Chi si oppone all’educazione sessuo-affettiva a scuola non difende i bambini: difende il proprio potere di adulto. Difende un’idea gerarchica della società, dove la conoscenza è pericolosa e il corpo è terreno da controllare. È lo stesso paradigma che genera la violenza di genere, che produce femminicidi, che normalizza il possesso.
L’iceberg della violenza
I nomi delle donne morte di femminicidio si perdono nella cronaca nera, ma dietro ognuno di essi c’è una storia di relazioni tossiche, di dipendenza economica, di isolamento, di paura. C’è una cultura che non sa educare all’empatia, che considera la gelosia una forma d’amore, che insegna alle bambine a essere caute e ai maschi a essere forti. Ogni femminicidio è la fine di una storia che è cominciata molto prima: fra i banchi di scuola, nelle battute sulle “femmine facili”, nei silenzi degli adulti, nella mancanza di linguaggio.

Ecco perché l’educazione sessuo-affettiva è antifascista nel senso più profondo del termine: insegna che nessuno può dominare nessuno. Perché fascista è ogni cultura che fonda se stessa sull’obbedienza, sulla proprietà, sull’idea che l’altro possa essere piegato, posseduto, educato al silenzio. Parlare di sesso, di consenso, di affettività significa invece restituire libertà. Significa insegnare la parità nella forma più concreta e quotidiana: quella tra due corpi, due persone, due desideri.
In un Paese dove una bambina può essere violentata tornando da scuola e una donna uccisa nella sua casa, il vero scandalo non è parlare di educazione sessuale: è continuare a vietarla. Il vero pericolo non è insegnare il consenso, ma crescere generazioni che non sanno riconoscerlo. Ogni volta che un governo sceglie la censura invece dell’educazione, ci dice che preferisce l’obbedienza alla libertà. Ogni volta che si vieta di parlare di corpi, si legittima il potere di chi quei corpi li vuole possedere. Ogni volta che si tace in nome della decenza, si alimenta la violenza che nasce dal silenzio. Non possiamo più accettare che il nostro resti un paese dove la parola “educazione” spaventa più della parola “violenza”.
Questo articolo fa parte della rubrica “Tutto il mondo è paese” a cura di Michela Calledda della Libreria La Giraffa di Siliqua.










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