17 Novembre 2025 | Tempo lettura: 6 minuti
Ispirazioni / Io faccio così

“Accogliere le persone migranti significa costruire comunità”. Intervista a Elisabetta Dessì de La Matrioska

In questa intervista Elisabetta Dessì – psicologa e fondatrice del laboratorio La Matrioska di Quartu – racconta cinque anni di progetti dedicati all’accoglienza e alla formazione di persone migranti.

Autore: Sara Brughitta
migranti la matrioska
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Accoglienza, formazione, comunità: tre parole che racchiudono la mission de La Matrioska, il laboratorio tessile e sociale nato nel 2019 a Quartu Sant’Elena dove sono le persone migranti del territorio a prendere parte al laboratorio sartoriale. Dietro questa realtà c’è Elisabetta Dessì, psicologa e ideatrice dell’iniziativa, la cui riflessione accompagna ogni progetto del laboratorio. Il suo è uno sguardo che si interroga sul peso della marginalità, sui pregiudizi ancora radicati nei confronti di chi arriva da fuori territorio e sul privilegio delle persone che invece nell’Isola ci sono nate.

In questi cinque anni quali sono stati i progetti vincenti e quelli che hanno mostrato le criticità del sistema?

I nostri progetti hanno avuto successo perché cerchiamo di rispondere ai bisogni reali del territorio. Avendo lavorato nell’accoglienza nel 2019, conosco bene i meccanismi e ho rapporti consolidati con molti operatori, il che mi permette di avere una visione aggiornata della realtà dei centri. In base a queste informazioni elaboriamo progetti che mirano a riempire i tempi di attesa all’interno dei centri di accoglienza – spesso lunghi – con attività produttive, in particolare formazione sartoriale.

Il mio obiettivo è che i ragazzi acquisiscano una competenza professionale, utile anche nella vita quotidiana: fare un orlo ai pantaloni o cambiare un bottone serve a tutti. Il sistema però è molto critico e richiede una comunità più attiva. Il ruolo dell’operatore dell’accoglienza è imprescindibile, ma anche la comunità ha un peso fondamentale, per questo ci stiamo orientando verso eventi culturali, in modo da sensibilizzare e favorire relazioni.

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Foto dal laboratorio per persone migranti de La Matrioska

Cosa significa accoglienza per voi?

Da un punto di vista professionale, l’accoglienza è un servizio sul territorio, al pari della sanità e dell’istruzione. Chi arriva qui ha bisogno di competenze specifiche – burocratiche, legali e relazionali – per orientarsi nei percorsi di regolarizzazione e integrazione. Ma nel senso più semplice, accogliere significa offrire qualcosa, creare relazione e comunità. Banalmente, quando qualcuno entra in casa mia, voglio che si senta a suo agio: accogliere è questo, il gesto semplice di voler far stare bene l’altro nel luogo in cui si trova.

Capita che il vostro lavoro venga frainteso o sminuito, magari visto come pietismo?

Purtroppo capita spesso e su questo cerchiamo di lavorare. Spesso spendo qualche parola in più per spiegare che non si tratta di un lavoretto, ma del frutto di un laboratorio sartoriale. È un lavoro di sensibilizzazione: non cambierà tutto, ma se c’è predisposizione al dialogo, chi ascolta può portare via spunti di riflessione. Avendo anche una raccolta fondi, dobbiamo evitare il pietismo e raccontare in modo sincero, dando dignità al percorso. Non siamo nati per “far fare qualcosa”, ma per offrire un percorso durante i tempi di attesa.

Quale raccolta fondi? Un nuovo progetto?

Sì, su Gofundme abbiamo avviato la raccolta “Quel filo tra Africa e Sardegna”. Vorremmo avviare il progetto il prossimo anno: un laboratorio sartoriale con giovani migranti per creare una collezione moda a partire dai manufatti tessili realizzati dalle donne del carcere di Rode, in Etiopia. L’obiettivo è anche raccontare storie: fare laboratori di storytelling per aiutare i ragazzi a costruire relazioni e al contempo sensibilizzare al tema della moda sostenibile.

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Foto dal laboratorio per persone migranti de La Matrioska

Ma nell’arco di questi cinque anni, qualcuna delle persone migranti è rimasta a La Matrioska?

Il percorso più lungo è durato quattro anni. Dopo il laboratorio sartoriale un ragazzo è stato coinvolto in altri progetti e in associazione, poi conclusi per fattori esterni. C’è da tenere conto che i ragazzi migranti, tendenzialmente, non rimangono qui per lunghi periodi; ad esempio se chiude il centro accoglienza in cui risiede si viene spostati. In realtà eravamo nati con l’idea di diventare un’impresa sociale, ma i costi sono troppo alti e non possiamo garantire risposte alle esigenze lavorative. Offriamo però un piccolo indennizzo di frequenza.

Parlando di marginalità, quanto è influente la profilazione etnica?

Il migrante sul territorio vive una condizione di marginalità, frutto di un sistema che spesso non aiuta né collabora. Purtroppo, se ci sono tanti atteggiamenti accoglienti, ci sono altrettanti segnali di razzismo. Ad esempio, quando si sono creati corridoi umanitari per la guerra in Ucraina è stato molto più semplice, mentre i ragazzi africani incontrano molte più difficoltà: il colore della pelle continua a determinare troppo.

Il problema della stabilità lavorativa riguarda tutti, ma per i migranti le conseguenze sono più gravi

Stare ai margini significa non essere visti. Lavorando con i ragazzi, mi rendo conto che la comunità spesso non comprende la realtà che vivono. A causa di narrazioni distorte si pensa che debbano “arrivare, imparare la nostra cultura e adattarsi”. La verità è che non vengono messi nelle condizioni di farlo. La marginalità significa anche fare tutto ciò che va fatto, quindi imparare la lingua, iscriversi a scuola, trovare lavoro, per poi scontrarsi con un sistema che non garantisce percorsi chiari.

Banalmente: se non viene rinnovato un contratto di lavoro, da un giorno all’altro diventano persone “illegali”. Il problema della stabilità lavorativa riguarda tutti, ma per i migranti le conseguenze sono più gravi. Il sistema non supporta davvero i percorsi di legalità e molti finiscono in circuiti poco trasparenti.

“Perché non aiutiamo prima i nostri ragazzi disoccupati?!”, direbbe qualcuno.

Quello che dico è che io non posso risolvere tutti i mali del mondo. Professionalmente abbiamo scelto di accompagnare chi arriva sul territorio per un tempo limitato. Questo non significa non vedere le altre problematiche, certo che le vedo, ma chi fa questo genere di osservazioni ha come presupposto la differenza sostanziale tra chi è nato nel territorio e chi arriva da fuori. A volte c’è la convinzione di essere “meglio degli altri”: dobbiamo riconoscere la casualità del privilegio di essere nati in una certa parte del mondo e lavorare per un mondo giusto per tutti.

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Foto dal laboratorio per persone migranti de La Matrioska

In questo panorama ci sono poi i social, che se da un lato hanno contribuito a diffondere maggiore consapevolezza su ciò che abbiamo introno, allo stesso tempo ospitano anche contenuti che ad esempio ridicolizzano le persone migranti.

Oggi l’informazione passa soprattutto dai social, i quali funzionano tramite algoritmi, quindi chi li utilizza riceve spesso notizie distorte e non verificate. Prima dei social, gli strumenti di informazione erano diversi e forse più filtrati. Il razzismo purtroppo è sempre esistito, ma può essere amplificato, perché se un contenuto discriminatorio va virale diventa un problema serio. Oltretutto la facilità di connessione consente di entrare in contatto con altri atteggiamenti discriminatori, quindi gli artefici si sentono in qualche modo spalleggiati. 

Guardando al futuro, come immagina l’accoglienza delle persone migranti e il ruolo della comunità?

Il mio sogno è avere un’accoglienza territoriale più stabile e aperta, basata sull’incontro e sulla conoscenza, non sulla paura. La comunità deve mettersi in azione: capire cosa c’è nel territorio, conoscere le realtà del terzo settore e capire quale contributo si può dare. Sono convinta che le piccole grandi rivoluzioni nascano dal basso: mettere a disposizione il proprio tempo, leggere, interrogarsi, sono piccole azioni che creano risposte incredibili. La domanda fondamentale è: cosa posso fare?