Il dilemma del turismo lento fra ricerca di autenticità e rischio di sovraffollamento
Esiste un equilibrio fra turismo, piacere della scoperta e sostenibilità sociale ed ecologica delle mete turistiche? Vediamo qualche risposta a un dilemma apparentemente irrisolvibile.
Acqua cristallina che scende gorgheggiando fra le rocce in pozze naturali che esplorano le sfumature del verde e del turchese. Nessuno nei paraggi. Una sensazione di fresco che buca lo schermo e ti investe alla sola vista delle immagini. In sovrimpressione, scorre una scritta: “Tra i boschi silenziosi dell’Ogliastra più autentica ci sono luoghi incantati che ti regalano momenti di pace, lontani dalle spiagge affollate, immersi nei suoni della natura, acque cristalline, limpide e quasi gelide, piscine naturali dove respirare, dove rigenerare il tuo corpo e la tua mente”.
Così un reel del luglio scorso, pubblicato da un profilo Instagram molto seguito specializzato proprio nella promozione di luoghi poco conosciuti, descriveva le piscine naturali di Ussassai, nella regione sarda dell’Ogliastra. Poche settimane dopo il sito è stato chiuso alle visite per sovraffollamento. Sulla cronaca locale si legge di quella che viene descritta come “mania del selfie” e di visitatori che – seguendo l’onda lunga dei social – hanno “preso d’assalto” la bellezza naturalistica.
Ussassai Experience, piccola associazione locale che organizzava tour guidati, si lasciava andare allora a parole di sconforto. “Le piscine che per molto tempo abbiamo cercato di proteggere dal turismo di massa e dagli amanti del selfie – si legge in un post Facebook dell’organizzazione – sono state ‘sputtanate’ per un pugno di like. Ussassai Experience è nata per valorizzare il territorio del paese, farlo conoscere e soprattutto per farlo rispettare con la speranza che Ussassai, da anni in agonia, potesse, anche minimamente, rinascere”.

“Purtroppo – continua il post – non siamo riusciti a difendere il nostro paese, la nostra casa, il posto che ci ha cresciuto e tutto ciò ci rammarica e ci dispiace”. Da ciò la decisione di terminare le attività: “Consci del valore e della fragilità del luogo abbiamo deciso di non contribuire a quello che sarà un vero e proprio scempio ecologico. Fino a quando il problema non verrà risolto abbiamo deciso di interrompere tutte le attività nel territorio ma continueremo a vigilare per assicurarci che venga rispettato”.
Questa esperienza, lungi dall’essere unica, è invece l’esempio lampante di un pattern che si ripete con sempre maggiore frequenza, alimentato da algoritmi social e dal bisogno diffuso di esperienze autentiche. E pone interrogativi difficili a chiunque si occupi di turismo lento, esperienziale, sostenibile.
Il consumismo dell’autenticità
Negli ultimi anni il turismo sembra muoversi sempre di più lungo una linea di fuga dalla standardizzazione. Resort identici ovunque, centri storici trasformati in vetrine, esperienze preconfezionate e intercambiabili hanno generato, come reazione fisiologica, il desiderio di altro. Di luoghi “veri” – o perlomeno percepiti come tali, non ancora addomesticati –; di incontri non mediati; di esperienze che promettono immersione, lentezza, trasformazione. Una fame di autenticità come tensione profonda che attraversa il nostro modo di viaggiare ma anche, più in generale, di stare al mondo.
Non è un tema nuovo. Già negli anni Settanta il sociologo Dean MacCannell parlava di “autenticità messa in scena”, osservando come il turismo moderno fosse costantemente alla ricerca di un “dietro le quinte” capace di restituire senso e verità a esperienze percepite come artificiali. Più tardi, studiosi come John Urry avrebbero mostrato come lo sguardo turistico sia culturalmente costruito: non vediamo i luoghi per ciò che sono, ma per ciò che siamo stati educati a cercare. Oggi a questo sguardo si sono aggiunti gli algoritmi, che hanno velocizzato e radicalizzato il fenomeno.

Così la ricerca di autenticità, che nasce spesso come reazione a esperienze turistiche – e forse a vite – percepite come troppo impacchettate e “pronte al consumo”, smette tuttavia di sottrarci alle logiche del consumismo e rischia di diventarne una nuova declinazione. L’esperienza “vera” diventa un bene scarso, da scovare prima degli altri, documentare, condividere. Il sentiero poco battuto, la cascata nascosta, il borgo fuori dalle rotte diventano contenuti. E come ogni contenuto di successo, vengono replicati, amplificati, consumati. In questo cortocircuito, l’autenticità perde il proprio valore intimo di relazione con un territorio, una comunità, un tempo diverso e si trasforma in merce da accumulare e mostrare.
È qui che il paradosso inizia a farsi evidente. Più cresce il bisogno di esperienze autentiche, più aumenta l’offerta di autenticità da parte di content creator, tour operator, addetti al settore. Ma l’autenticità non è un bene qualsiasi, trattabile con le logiche del mercato. È una farfalla dalle ali fragili, che non appena viene afferrata si snatura e decade nel suo opposto. Lasciando dietro di sé una coda di frustrazione e degrado ambientale.
Il dilemma del turismo lento
Ma allora, esiste un modo per preservare esperienze autentiche nel nostro viaggiare senza contribuire alla mercificazione? Oppure se vogliamo sottrarci al meccanismo dovremmo rinunciarvi a priori e piuttosto scegliere mete ormai massificate? Già diversi decenni fa il biologo inglese Edward Osborne Wilson, scopritore del concetto di biofilia, aveva lanciato la cosiddetta teoria Half-Earth, secondo la quale dovremmo scegliere, come specie, di dedicare almeno metà della superficie terrestre alla natura incontaminata per preservare la biodiversità e permettere agli ecosistemi di svolgere le proprie funzioni chiave senza interferenze, ammassandoci – noi umani – nell’altra metà della Terra.
Applicata al turismo, ciò significherebbe accettare che molti luoghi – i più fragili, “selvatici”, desiderati – diventino di fatto non visitabili o visitabili solo in forme e modalità rigidamente controllate, mentre la pressione turistica verrebbe concentrata nell’altra metà, quella già dotata di infrastrutture, già “attrezzata” a reggere flussi, già in parte antropizzata.

Tuttavia anche misure del genere rischiano di avere molte controindicazioni. Ad esempio di trasformarsi in un meccanismo elitario, dove l’accesso alla natura “autentica” diventa un privilegio per chi ha tempo e soldi. O, ancora peggio, possono scivolare verso una conservazione-fortezza, in cui la protezione di un luogo passa sopra le comunità che lo abitano e lo custodiscono da generazioni. Ma quindi come se ne esce?
Tra il “tutto accessibile” che divora i territori e il “tutto proibito” che li recinta, esistono tentativi di conciliare turismo lento, autenticità e tutela senza ricadere né nella mercificazione né nell’esclusione. Un esempio ci arriva dai framework di visitor management sviluppati per le aree protette negli USA o dalle linee guida IUCN per il turismo sostenibile. Questi modelli prevedono una progettazione dell’esperienza non per massimizzare le presenze, ma per mantenere determinate condizioni: silenzio, qualità ecologica, rispetto dei residenti, rigenerazione del paesaggio.
Uscire dunque dal meccanismo di domanda-offerta per entrare in un sistema di quote ragionate – non solo “meno persone”, ma meglio distribuite –, con sistemi avanzati di prenotazioni, gestione della stagionalità, infrastrutture leggere che concentrano l’impatto dove il terreno lo regge e soprattutto zoning: aree dove la fruizione è possibile e aree dove la fruizione è un’eccezione, non la regola.
Il turismo moderno è costantemente alla ricerca di un “dietro le quinte” capace di restituire senso e verità a esperienze percepite come artificiali
Dentro questa logica, diventa centrale anche come scopriamo i luoghi. Ad esempio attraverso la relazione con chi quei territori li vive e li cura. Affidarsi a realtà locali sostenibili e consapevoli, tour operator etici, guide, cooperative, associazioni, piccole imprese di comunità, significa affidarsi a persone e realtà che possono fare da filtro fra i nostri bisogni e aspettative e le esigenze di un territorio. In Italia un’iniziativa come SlowMap ha selezionato le ciclovie in base non solo alla bellezza paesaggistica, ma al fatto che abbiano o meno le strutture per accogliere il cicloturista con i servizi adeguati e per ciascuna ciclovia suggerisce tour operator a cui rivolgersi.
Un’altra linea d’azione, complementare alla precedente, sta nell’intervenire sui comportamenti e la cultura di chi visita. Campagne come Leave No Trace, nata sempre nei parchi USA e poi diffusasi in vari luoghi del mondo, puntano a ridurre l’impatto sulla natura attraverso un set di principi pratici: pianificare e prepararsi, muoversi su superfici durevoli, gestire correttamente i rifiuti, rispettare fauna e altre persone, minimizzare gli effetti del fuoco, lasciare ciò che si trova.
L’idea è quella di educare il visitatore a riconoscere la fragilità di un ecosistema e adattare il proprio desiderio al contesto. In Italia da qualche mese è partita la campagna Io non lascio tracce, con finalità simili. Infine, è utile ricordare che l’autenticità non coincide necessariamente con il “posto incontaminato” da scoprire prima degli altri. Lo spiega bene il sociologo Ning Wang quando parla di autenticità esistenziale: spesso non è l’oggetto a essere autentico, ma il nostro modo di osservarlo. Insomma, l’autenticità – in fin dei conti – sta nei nostri occhi.
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