21 Giu 2022

Smart working, south working, nomadismo digitale: la nuova era del lavoro è già iniziata

Scritto da: Francesco Bevilacqua

La pandemia non ha fatto che accelerare – come è successo in altri campi – l'affermazione di nuovi modelli lavorativi più flessibili, più attenti al benessere, più sostenibili ed etici e soprattutto non meno efficienti ed efficaci di quelli attuali. Vediamo cosa pensano i lavoratori dello smart working e quali sono i volti di questo nuovo approccio al lavoro che si sta diffondendo a macchia d'olio, cambiando la vita privata e professionale di milioni di persone.

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Si fa presto a dire smart working. O almeno, ha fatto presto il ministro Brunetta che, coerentemente con la filosofia politica e lavorativa di cui è espressione, ha recentemente tenuto a sottolineare che «durante la pandemia e il lockdown tutti abbiamo imparato a usare le tecnologie. Avevo già detto che, una volta messa in sicurezza la situazione sanitaria, la presenza in ufficio è fondamentale. O meglio, è fondamentale la regolazione dello strumento dello smart working».

Nonostante la resistenza di una classe politica e di una consistente fetta del mondo dirigenziale però, sembra che i lavoratori e le lavoratrici più lungimiranti abbiano già iniziato a cogliere i segnali di una radicale trasformazione in atto. Al di là del folklore con cui vengono spesso presentati dai media e con cospicuo anticipo rispetto al “risveglio” dettato dalla pandemia infatti, esistono già da anni modelli di organizzazione del lavoro davvero smart, che in un futuro prossimo potrebbero diventare la norma.

NATworking
COSA DICONO LAVORATORI E LAVORATRICI?

Da un’indagine sottoposta a 222 professionisti delle Risorse Umane effettuata da Digital Coach, scuola di formazione professionale specializzata nel digital marketing, è emerso che per le medio-grandi aziende lo smart working è sostanzialmente il futuro del mondo del lavoro: ben il 75,5% degli intervistati è convinto che sia un’ottima risorsa per una migliore gestione del lavoro. Questo primo dato ci dà un’idea di come lo smart working sia stato percepito, nel complesso, come un’opportunità di cambiamento.

L’indagine ha evidenziato che il cambio di modalità lavorativa di fatto si riflette anche nelle conseguenze positive dell’adozione dello smart working, in particolare nell’organizzazione flessibile del lavoro (70,8%): questi sono i due elementi considerati più importanti per gli intervistati, ancora prima della riduzione dei costi aziendali e del dipendente, sottolineando un sostanziale miglioramento delle condizioni di vita generali e il benessere di tutti.

Questo dato è supportato dal fatto che la produttività non ha subito peggioramenti, anzi, per quasi la totalità degli intervistati è rimasta uguale o addirittura aumentata sensibilmente. I dipendenti non hanno smesso di comunicare coi superiori o i colleghi e secondo il 42,5% degli intervistati le riunioni sono aumentate drasticamente.

A livello aziendale, comunque, si riscontra una generale soddisfazione, nonostante l’improvvisa adozione dello smart working, tant’è che l’84% delle aziende degli intervistati ha già deciso di mantenere, almeno in parte, lo smart working. Questo è un fattore che inciderà molto anche sulle future selezioni di nuovo personale, in quanto per quasi il 90% degli specialisti delle Risorse Umane l’inserimento della modalità di lavoro in smart working totale o ibrida è molto rilevante, se non fondamentale, per riuscire a trovare le figure ricercate nelle aziende.

Da questi dati emerge in maniera evidente che sia per le aziende che per i dipendenti lo smart working non è una moda passeggera e che le prime siano disposte a investire in questa modalità avendo già investito in tecnologia fornendo gli strumenti adeguati ai dipendenti come smartphone e notebook, ma soprattutto in corsi e attività di ridisegno dell’organizzazione aziendale.

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Neu [nòi] a Palermo
OCCHIO AI RISCHI

Attenzione solamente al rischio che insorgano alcuni effetti collaterali negativi, come l’accentuazione del divario di genere nel mondo del lavoro. Come ci ha spiegato la sociologa Chiara Gius in questa intervista infatti, «le donne durante la pandemia hanno perso il lavoro più degli uomini e sono state costrette maggiormente a casa, sia perché chiamate a rispondere alle esigenze di cura di bambini piccoli e anziani, sia in ragione del fatto che molti settori ad alta occupazione femminile non sono stati considerati prioritari nella riapertura del paese».

Attenzione anche a un altro rischio, ovvero quello che il confine fra vita professionale e vita privata diventi troppo labile. Anche se l’80% di chi ha partecipato al sondaggio non teme di non saper gestire il bilanciamento della vita lavorativa con quella privata, l’utilizzo di video conference e dell’instant messaging portano a una diffusa percezione di iperconnessione secondo il 54,7% dei partecipanti, i quali temono una perdita di socialità e isolamento. Problematiche di cui tutti siamo stati consapevoli nel corso della pandemia.

NOMADISMO DIGITALE E SOUTH WORKING

Già in epoca pre-pandemica, molte persone avevano cominciato a sperimentare nuove forme di lavoro flessibile e stavano – e stanno tutt’ora – fiorendo proposte per supportare e offrire servizi a chi ha deciso di staccarsi da ufficio e scrivania convenzionali. Alcuni mesi ad esempio abbiamo presentato NATworking, la prima rete italiana che connette le strutture che offrono uno spazio in natura con chi vuole cambiare il proprio modo di lavorare. Il progetto, realizzato da un gruppo di giovani rigeneratori urbani, quasi tutto al femminile, consiste in una piattaforma che contribuirà alla riscoperta dei nostri territori attraverso un nuovo modo di lavorare a distanza.

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Davide Fiz di Smart Walking

Un esempio perfetto di nomadismo digitale che Italia Che Cambia sta seguendo da vicino è un altro progetto denominato Smart Walking, che unisce viaggio e lavoro a distanza. È quello di Davide Fiz, partito a marzo scorso per un viaggio a piedi di diversi mesi in giro per l’Italia durante il quale camminerà e lavorerà: «La mattina si cammina, il pomeriggio si lavora», ci aveva raccontato alla vigilia della partenza. «La settimana lavorativa sarà una settimana di cammino: vorrei che fosse il cammino a scandire il tempo e che il lavoro arrivasse quando e dove si fermeranno i miei piedi. I miei clienti mi hanno invidiato molto. Qualcuno di loro si è persino offerto di venire a camminare con me».

Molti nomadi digitali inoltre hanno una meta decisa: il Sud Italia. Proprio in questi ultimi due anni di pandemia in Italia sono nati il movimento South Working – Lavorare da Sud e una sorta di sindacato Smartworkers Union. Nel 2019 lo Smart Working riguardava circa 570mila lavoratori. Oggi, tra settore pubblico e privato, si parla di 5 milioni di persone.

Con il controesodo registrato durante il primo grande lockdown del 2020 sono stati 100mila i giovani tornati al Sud per lavorare in smart working per le aziende del Nord. Molti lavoratori hanno approfittato della pandemia per tornare nei luoghi d’origine, spesso piccoli centri: sono nati spazi di co-working, hub innovativi – come ad esempio Isola Catania –, progetti di rivitalizzazione di spazi urbani e del patrimonio storico, nuovi sistemi di welfare e collaborazioni tra pubblico e privato.

Alcune strutture, come la già citata Isola e la palermitana Neu [nòi], si sono attrezzate per ospitare chi sceglie lo smart working da sud: «Abbiamo avuto gente proveniente da tutto il mondo, ma ci sono anche quelli che hanno scelto il Sud per lavorare», ci hanno raccontato nel centro di Palermo. «Con la pandemia si sono anche aggiunti i lavoratori in smart working. Insomma, negli anni abbiamo accolto non sono solo i liberi professionisti, ma le più svariate categorie lavorative. In questa compagine sono nate spesso sinergie tra i co-worker, collaborazioni e anche nuovi progetti e nuove idee».

Già in epoca pre-pandemica, molte persone avevano cominciato a sperimentare nuove forme di lavoro flessibile

CAMBIA LA CULTURA

Come accogliere la rivoluzione che sta montando quindi? Come sempre, con occhi attenti e ottimismo, ma anche attenzione e costruire un modello che sia più etico e sostenibile di quello che ci stiamo lasciando alle spalle. Come osservano le facilitatrici di TARA infatti, «la trasformazione del mondo del lavoro e delle imprese si trova, nella capacità di affrontare la complessità del mondo contemporaneo con la consapevolezza che l’intelligenza del Novecento, organizzata per silos e discipline distinte, non basta più. Ci stiamo confrontando con i nostri limiti e da abitanti della contemporaneità stiamo sperimentando, sul lavoro e fuori, e stiamo provando a camminare strade ancora poco battute ma molto interessanti».

«Non lo diciamo noi facilitatrici, ce lo dice il mondo», concludono. «Le Grandi Dimissioni, ad esempio, non sono una moda di superficie ma una voce capace di dichiarare quello che non va nei nostri uffici e dentro le sedi delle nostre aziende. Molte persone, soprattutto sotto i 40 anni, riassorbite dalla tradizionale routine nel periodo post-pandemia sentono che il lavoro non è più l’unica metrica con cui misurare la qualità della propria vita. Il successo professionale non è la sola bussola che ci dice dove andare e in che direzione orientare le nostre scelte, il tempo è tornato a essere un bene prezioso da condividere con le persone a cui vogliamo bene».

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