26 Ott 2023

Overfishing: mitigare il cambiamento climatico a partire dagli oceani

Scritto da: Benedetta Torsello

La pesca intensiva sta gradualmente causando la distruzione di interi ecosistemi marini. L’overfishing oltre a determinare un inesorabile annientamento delle specie viventi nei nostri mari, compromette il ruolo degli oceani nello stoccaggio del carbonio, contribuendo ad accelerare il cambiamento climatico. Esistono soluzioni davvero sostenibili per proteggere la vita negli oceani?

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Si stima che l’80% delle specie viventi sulla Terra si trovi negli oceani. Questa elevatissima concentrazione di forme di vita li rende gli habitat più estesi del nostro pianeta, la cui biodiversità a partire dalla metà del XX secolo è stata sempre più minacciata dalle attività antropiche, responsabili di una graduale e irreversibile perdita di numerose specie. Eppure secondo gli scienziati non si potrebbe neanche immaginare la nostra sopravvivenza sulla Terra, se un giorno i nostri mari dovessero diventare autentici deserti senza più alcuna specie vivente, vegetale e animale.

Affascinanti e a lungo inesplorati, oltre a ospitare numerose forme di vita, gli oceani hanno da sempre stuzzicato la curiosità umana, risvegliato le paure più recondite e il desidero di scoperta e conoscenza. Seaspiracy (2021), il documentario diretto e interpretato da Ali Tabrizi, si apre proprio sulla confessione del regista del proprio amore infantile per le balene, regine maestose degli oceani, ai vertici di una delicata catena alimentare la cui tenuta è minacciata dall’uomo e dalla pesca, in particolare.

LE RIVELAZIONI SCIOCCANTI SULL’INDUSTRIA DELLA PESCA

Documentario d’inchiesta, a tratti ai limiti dell’inesattezza scientifica, Seaspiracy ha senza dubbio il grande merito di aver portato su una piattaforma streaming di massa delle rivelazioni shock sull’industria della pesca. Tuttavia in molti hanno osservato come questo disvelamento di verità alquanto scomode venga fatto con un metodo ingannevole, estrapolando dal contesto delle dichiarazioni e riportando dati inesatti.

Ad esempio, rifacendosi a uno studio del 2006 realizzato dal biologo marino Boris Worm, Tabrizi cita la previsione secondo cui «entro il 2048 gli oceani saranno privi di pesci». Ma lo stesso studioso dell’Università Dalhousie, in Canada, aveva smentito tale ipotesi nel 2009 e ritirato lo studio con un pizzico di ironia e promettendo per il 2048 una festa «con un menù a base di pesce». Molti degli esperti intervistati, subito dopo l’uscita del documentario, avevano accusato la scarsa accuratezza con cui erano state riportate e montate le loro dichiarazioni.

L’overfishing pone un problema etico non trascurabile, oltre a minacciare il potenziale degli oceani di mitigazione del cambiamento climatico

Al di là delle inesattezze e dello stile fortemente provocatorio con cui il regista trascina lo spettatore in “un tunnel dell’orrore di novanta minuti”, partendo da Taiji, una baia in Giappone dove da anni si dà la caccia ai delfini e altri cetacei, Seaspiracy compie un viaggio allucinante nei loschi meccanismi della pesca industriale, dell’allevamento ittico intensivo e della pesca illegale, accompagnando persino l’equipaggio di Sea Shepherd nelle operazioni di avvistamento e sequestro di pescherecci illegali al largo della Liberia, sulle coste africane occidentali.

IL PIÙ VASTO SERBATOIO DI CARBONIO

Seaspiracy punta i riflettori sull’overfishing e sulla devastazione degli ecosistemi marini che questo comporta. Si parla di vero e proprio bracconaggio, visto che circa 2700 miliardi di pesci vengono pescati ogni anno e ben 5 milioni sono quelli uccisi ogni minuto. Le ripercussioni sull’ambiente e sulla vita sulla Terra sono disastrose se si considera che le specie vegetali marine – la cui sopravvivenza è strettamente legata a quella di pesci e altri mammiferi – sono in grado di catturare una quantità di carbonio venti volte superiore a quella assorbita dalle foreste emerse.

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Il 93% di tutta l’anidride carbonica è trattenuta negli oceani. Contrariamente alla maggior parte degli organismi terrestri, che rilasciano carbonio nell’atmosfera una volta morti, le carcasse di pesci morti e altri animali marini affondano nelle profondità dell’oceano e il carbonio contenuto nei loro corpi rimane nei sedimenti del fondale marino per migliaia di anni. Allo stesso modo le praterie di alghe, le mangrovie e le paludi salmastre hanno una straordinaria capacità di stoccaggio del carbonio.

Esiste una relazione bidirezionale tra la vita negli oceani e il cambiamento climatico. Se da un lato l’oceano, i pesci e la pesca su piccola scala sono senza dubbio colpiti dai crescenti effetti negativi del cambiamento climatico, allo stesso modo l’overfishing contribuisce direttamente al deterioramento del clima, la flora e la fauna marina e le comunità costiere che sopravvivono di pesca, molto più vulnerabili e soggette agli effetti dei cambiamenti climatici.

CATTURE ACCESSORIE: CHI FINISCE NELLE RETI

L’overfishing è un problema con numerosi risvolti. Uno dei più allarmanti è quello delle catture accessorie di cui sono vittima squali, tartarughe, avifauna e grandi cetacei come delfini e balene. Circa il 40% del pescato globale consiste in catture accessorie. Solo nell’Unione Europea, la pesca a strascico uccide ogni anno decine di migliaia di tonnellate di vita marina a causa delle catture accessorie.  

Sea Shepherd denuncia che da oltre trent’anni sulla costa occidentale della Francia circa diecimila delfini vengono uccisi ogni anno, vittime di catture accessorie: ben dieci volte la quantità di delfini ammazzati nella baia di Taiji in Giappone. Di questo si sente parlare molto poco, così come dell’inquinamento da plastica degli oceani direttamente causato proprio dall’industria della pesca.  Circa il 46% dei rifiuti plastici dispersi in mare infatti è costituito da reti da pesca, lenze e altre materie plastiche utilizzate nell’industria ittica.

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ESISTE UNA PESCA SOSTENIBILE?

Dall’overfishing all’inquinamento da plastica, dall’inizio alla fine di Seaspiracy, Tabrizi si interroga sulla possibile esistenza di una pesca sostenibile e sul concetto di sostenibilità, che si rivela a tratti vacuo ed evanescente persino nelle parole di esponenti delle istituzioni, ONG e organismi che dovrebbero vigilare sulla tutela delle specie marine e che molto più spesso cedono alla corruzione e alla copertura di traffici illeciti.

Secondo il WWF, la pesca sostenibile non è una chimera, anzi. Questa consentirebbe di fatto agli stock ittici di riprodursi, agli ecosistemi marini di ricostituirsi. Impedirebbe la cattura di esemplari troppo giovani e non ancora pronti a riprodursi, preserverebbe più in generale la biodiversità e in ultima istanza garantirebbe condizioni di vita e nutrizione stabili per milioni di pescatori e delle comunità costiere, la cui vita dipende dalla trasformazione e dalla vendita di prodotti ittici.

Un’ulteriore soluzione esplorata anche da Tabrizi nel documentario è quella degli allevamenti ittici, che se condotti in regime intensivo, esattamente come avviene sulla terra ferma, comportano la propagazione di malattie, parassiti e l’uso massivo di antibiotici. Oltre al fatto che il mangime necessario per l’allevamento ittico, non si produce in altro modo se non da altro pesce, alimentando così un circolo vizioso letale per gli ecosistemi marini.

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QUELLO CHE I PESCI NON DICONO 

Ogni anno, solo in Unione Europea, vengono allevati tra 0,5 e 1,2 miliardi di pesci. Per massimizzare il profitto vengono tenuti ad alte densità e vengono quasi sempre macellati nei modi più crudeli. Il report di CIWF, Rethinking EU Aquaculture: for People, Planet, and Animals (Ripensare l’acquacoltura nell’UE per le persone, il pianeta e gli animali)”, è il primo a evidenziare i problemi ambientali causati dall’allevamento intensivo di pesci nell’Unione Europea. Lo studio ribadisce inoltre la necessità di abbandonare per sempre questo tipo di produzione con il fine non soltanto di migliorare il benessere degli animali, ma anche con quello altrettanto prioritario di creare un’industria ittica più sostenibile e con un minor impatto ambientale.

«I pesci provano dolore», spiega Sylvia Earle, biologa marina e oceanografa statunitense. Hanno un sistema nervoso e dei sensi molto sviluppati, al punto da riuscire a percepire persino dei lievissimi spostamenti d’acqua. Collaborano con altre specie, hanno una vita sociale ben organizzata e sì, provano dolore e persino paura. Pensare che non ne provino è «solo una giustificazione alle cose ignobili fatte a queste creature», sottolinea Earle.

L’overfishing pone quindi un problema etico non trascurabile, oltre a minacciare il potenziale degli oceani di mitigazione del cambiamento climatico. Per questo se da un lato vi è la necessità di una regolamentazione dell’industria della pesca più stringente e cautelativa nei confronti degli ecosistemi marini; dall’altro c’è la domanda del mercato. Ci siamo noi, la responsabilità individuale, quello che consumiamo e ciò di cui potremmo fare a meno. E soprattutto, come ribadisce Sylvia Earle: «Nessuno può fare tutto, ma ciascuno può fare qualcosa».

Leggi anche il nostro speciale sui cetacei nel Mar Ligure.

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