5 Maggio 2025 | Tempo lettura: 7 minuti

Il carcere, la scatola nera della giustizia: celle sovraffollate e diritti svuotati

Il carcere è oggi un luogo di sovraffollamento cronico e diritti negati, in un sistema che punisce oltre la pena. Ne parliamo con la garante sarda delle persone detenute, Irene Testa.

Autore: Daniele Pisano
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In breve

Il sovraffollamento – e le sue possibili soluzioni – nelle carceri sarde

  • Irene Testa è la garante regionale delle persone private della libertà, ovvero un’Autorità di garanzia indipendente a cui la Legge attribuisce il compito di vigilare sul rispetto dei diritti delle persone private della libertà.
  • La recente denuncia di Testa sulla grave situazione di sovraffollamento nel carcere di Bancali ha generato attacchi pubblici invece che indignazione.
  • Sovraffollamento cronico, carenza di servizi, disagio psichico e abbandono istituzionale sono i problemi più comuni.
  • Testa propone le colonie penali – già attive in Sardegna – come modello virtuoso: lavoro all’aperto, meno tensioni, più rieducazione.

Recentemente Irene Testa, garante sarda delle persone private della libertà, ha denunciato il sovraffollamento all’interno del carcere di Bancali, a Sassari. La reazione pubblica non è stata però quella dell’indignazione civile. Al contrario, quelli che si sono susseguiti sono insulti, minacce e accuse pesanti. In molti hanno attacco Testa per aver “difeso i criminali”, qualcuno ha persino scritto che “dovrebbe finire dentro anche lei”. Nel nostro immaginario lo specchio del carcere è questo: un luogo che suscita rabbia e fastidio, ma raramente un dibattito basato sulla comprensione. Se ne parla poco e male e, di solito, solo quando accade qualcosa di eclatante come un’evasione, un suicidio, una rivolta.

Eppure dietro quelle mura ogni giorno si consuma una realtà invisibile fatta di sovraffollamento cronico, disagio psichico e abbandono istituzionale. Una quotidianità che rischia di cancellare l’essere umano. Il carcere è un’istituzione che spesso resta fuori dal dibattito pubblico. Conosciamo ciò che appare dall’esterno: chi entra, chi esce, qualcuna delle regole imposte. Ma quello che accade dentro rimane invisibile. Il carcere è una vera e propria “scatola nera”: difficile da leggere, scomoda da affrontare.

In difesa dei diritti

Raccontare la realtà dei penitenziari non significa negare le responsabilità dei detenuti, ma restituire complessità a un sistema che riguarda tutte e tutti. È da questa riflessione che parte la nostra chiaccherata con la dottoressa Irene Testa: «Io non difendo il detenuto, io difendo il diritto. È diverso. Se la legge stabilisce che due persone devono stare in cella, non in cinque, che lo spazio vitale deve essere rispettato, e se la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia più volte su questi punti, non spetta a noi aggiungere altre pene a quella già decisa dal giudice».

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Irene Testa e Beniamino Zuncheddu, in carcere da innocente per 33 anni

Alla Casa Circondariale di Uta, come a Bancali, il sovraffollamento è strutturale: tra i 150 e i 200 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare. I numeri raccontano un problema difficile da rappresentare senza immagini: «Ci troviamo di fronte a celle pensate per due persone che ne ospitano quattro. E per far spazio ai letti aggiuntivi vengono rimossi gli unici arredi previsti dal regolamento: piccoli stipetti, sedie, elementi minimi dove riporre gli oggetti personali. Non stiamo parlando di comodità, ma del minimo indispensabile per una vita dignitosa. Se si arriva a togliere anche questi è evidente che il sovraffollamento ha superato ogni limite sostenibile».

Carcere è sovraffollamento

Il sovraffollamento impatta anche sull’accesso ai servizi da parte dei detenuti, quali per esempio la formazione scolastica, la sanità penitenziaria, gli educatori. Servizi che anche senza sovraffollamento non sarebbero comunque sufficienti. La garante Testa ci racconta anche che molti detenuti in realtà potrebbero scontare la pena fuori dal carcere: «In Italia ci sono circa 9.000 persone con pene inferiori a un anno e 6.000 con pene sotto i sei mesi. In totale, parliamo di oltre 20.000 detenuti con condanne inferiori ai quattro anni che rientrano pienamente nei criteri per accedere a misure alternative come i domiciliari o l’affidamento in prova. Si tratta per lo più di persone tossicodipendenti o con gravi problemi psichiatrici».

Dati alla mano, per esempio, a Uta il 90% dei detenuti fa uso stabile di sedativi o ipnotici come benzodiazepine. Solo tra il 2023 e il 2024 si contano 89 tentativi di suicidio e 5 suicidi. Le statistiche di Bancali sono molto simili. «Molti detenuti, in particolare persone tossicodipendenti e persone con importanti disturbi psichiatrici, non dovrebbero trovarsi in carcere. Per i primi basterebbe garantire l’accesso a cure adeguate o a comunità terapeutiche, evitando detenzioni brevi e inutili che non hanno alcun effetto riabilitativo. Per i secondi, servirebbero strutture intermedie tra la libertà e la reclusione, capaci di offrire un trattamento sanitario dignitoso».

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Immagine di repertorio – Canva

«Accade spesso – prosegue sempre Testa – che famiglie esasperate si trovino costrette a denunciare i propri figli con problemi di tossicodipendenza nella speranza che si attivi una procedura per il loro inserimento in comunità terapeutiche. Ma questo percorso può richiedere mesi, se non addirittura un anno, e nel frattempo la risposta resta il carcere. Un paradosso che, oltre a ignorare i bisogni reali delle persone, contribuisce ogni giorno al sovraffollamento degli istituti».

La situazione degli istituti penitenziari sardi e italiani dunque è un problema che nasce anche al di fuori delle mura carcerarie.  Nasce dal fallimento dei servizi territoriali e delle istituzioni, incapaci di offrire strumenti di supporto e intervento alternativi rispetto alla detenzione che dovrebbe essere l’ultima risorsa. Il carcere diventa l’ultima tappa per chi è stato lasciato indietro dal welfare.

Alternative possibili

Se da un lato molte persone entrano in carcere già segnate da problematiche legate alla salute mentale o da dipendenze, dall’altro la permanenza in un ambiente carcerario duro e alienante aggrava ulteriormente il disagio mentale. Celle con bagno a vista, odori persistenti, rumori continui, mancanza di privacy e vicinanza forzata con altre persone in difficoltà generano un contesto disumano che alimenta comportamenti problematici come urla, agitazione e gesti violenti anche di autolesionismo. In queste condizioni le patologie preesistenti peggiorano e ne nascono di nuove, dando vita a una spirale di sofferenza difficile da interrompere, in netto contrasto con il principio rieducativo sancito dall’articolo 27 della Costituzione.

Il modello ideale di carcere da perseguire è quello delle colonie penali

Questo scenario solleva una domanda fondamentale: qual è l’alternativa a questo sistema anticostituzionale che costringe i detenuti a trascorrere intere giornate in un ambiente malsano senza alcuna attività significativa? A questa domanda la garante Testa ci risponde senza esitazione: per lei il modello ideale di carcere da perseguire è quello delle colonie penali. «Nelle colonie non ci sono conflitti disciplinari o conflitti tra agenti e detenuti, non c’è un clima teso. Le persone detenute lavorano tutto il giorno all’aria aperta come pastori, agricoltori scultori, e rientrano nelle celle solo per la notte».

Le colonie penali rappresentano un modello carcerario storicamente radicato in Sardegna, introdotto alla fine del XIX secolo. Oggi la Sardegna è l’unica regione italiana, insieme all’isola di Gorgona, a mantenerle attive. Ne ospita ben tre – Isili, Mamone, Is Arenas –, caratterizzate da un’organizzazione che riflette maggiormente le indicazioni dell’articolo 27 della Costituzione: le pene appunto devono tendere alla riabilitazione e alla rieducazione e tutto questo non può che passare attraverso il lavoro​.

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Immagine di repertorio – Canva

Tuttavia le colonie penali sono trascurate dalle istituzioni: le strutture sono fatiscenti e spesso potrebbero ospitare molte più persone detenute con i dovuti lavori. Ma ci sono altre problematiche di cui tratta un interessante articolo dell’Associazione Antigone. “Accettare la colonia penale significa anche tagliare quasi del tutto i ponti con il mondo esterno. I colloqui con la famiglia diventano rari, i volontari spariscono: ad esempio per raggiungere la colonia penale di Mamone ci vogliono 45 minuti di tornanti dal piccolo Comune di Siniscola”.

“Una situazione – prosegue l’analisi – che si potrebbe cambiare aprendo le colonie penali sarde al mondo esterno: per esempio promuovendo collaborazioni con chi potrebbe valorizzare il pecorino prodotto a Isili o gli insaccati di Is Arenas, oppure includendo questi luoghi in percorsi di turismo responsabile e formazione”.

Un modello di carcere più giusto, in cui il malessere psicofisico non è una tragica certezza, è un bene per tutta la società, non solo per i detenuti: i dati disponibili infatti indicano che il tasso di recidiva tra le persone detenute che partecipano a programmi di lavoro o formazione può scendere fino al 2%, mentre il tasso generale di recidiva nelle carceri italiane si aggira intorno al 60-70%.
Nonostante ciò le colonie penali restano ai margini, trascurate e sottofinanziate. Investirci non significherebbe solo ristrutturarle, ma credere davvero nella rieducazione. Un modello da rafforzare, non da abbandonare.