30 Luglio 2025 | Tempo lettura: 6 minuti

“Ìsulas de s’Ìsula”, il Sulcis visto dal mare: memorie, ferite e resistenza nel nuovo film di Lorenzo Sibiriu

Presentato al festival IsReal 2025, il documentario racconta l’arcipelago sulcitano attraverso lo sguardo dei pescatori e del mare, tra inquinamento industriale, basi militari e memoria collettiva.

Autore: Sara Brughitta
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In breve

Con il documentario “Ìsulas de s’Ìsula” il regista sardo indipendente Lorenzo Sibiriu racconta il Sulcis e le sue lotte.

  • Protagonisti di Ìsulas de s’ìsula sono pescatori e pescatrici artigianali dell’arcipelago del Sulcis, che raccontano il proprio riavvicinamento al mare.
  • In un contesto caratterizzato dalla crisi del settore, dalla grande-pesca, dal turismo invasivo, dall’industria e dalla presenza militare, il lavoro che svolgono diventa un atto di resistenza.
  • La presenza più invadente è quella del poligono militare di Capo Teulada: oltre 7.000 ettari di demanio militare utilizzati per esercitazioni terra-aria-mare che si presentano profondamente degradati.
  • Attraverso le storie dei pescatori, emergono i tratti di una comunità che, nonostante le difficoltà, sceglie di restare e difendere un modo di vivere che rischia di scomparire.

Presentato in concorso il 30 maggio 2025 nella sezione Scenari Sardi di IsReal – Festival Internazionale del Cinema Documentario di Nuoro, Ìsulas de s’Ìsula è il nuovo film documentario del regista sardo indipendente Lorenzo Sibiriu. Un progetto dalla volontà collettiva, che ha preso forma grazie al contributo della Regione Autonoma della Sardegna e al sostegno delle associazioni Italia Nostra Sardegna e Società Operaia Industriale di Mutuo Soccorso di Iglesias. Fondamentale è stato anche il supporto arrivato da una campagna di raccolta fondi dal basso, che ha superato i 4.000 euro grazie alle donazioni ricevute da tutto il mondo.

Il film racconta l’arcipelago del Sulcis, ma lo fa da un punto di vista insolito: quello del mare e di chi lo vive ovvero i pescatori. È dal mare che lo sguardo del regista osserva le ferite inflitte alla sua terra d’origine – ambientali, industriali, militari. Con una narrazione essenziale ma al tempo stesso poetica e politica, Sibiriu intreccia memoria, natura e resistenza. In questa intervista, il regista ci accompagna in un viaggio di riflessione che unisce mondo acquatico e terrestre; ma non di un territorio qualsiasi, bensì quello dei sardi.

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Lorenzo Sibiriu
Quale esigenza porta alla nascita d questo film? E quale messaggio voleva trasmettere?

Sono tornato in Sardegna da emigrato per insegnare a Carbonia. Ho trovato la mia terra – il Sulcis – ferita, proprio come l’avevo lasciata. Da qui l’esigenza di raccontarla attraverso un film ma da una certa distanza, per avere uno sguardo più lucido sulle sue ferite. E così mi sono spostato al mare. Sono nato e cresciuto in un territorio segnato da secoli di “invasione” industriale: miniere, impianti e grandi strutture che hanno occupato vaste aree, cercando di dominare una natura antichissima fatta di falesie, coste impervie e montagne. Questi tentativi spesso si sono rivelati vani, lasciando dietro solo rovine e fallimenti economici, sociali e ambientali.

Qui si è percepita prima che altrove l’assurdità e la miopia del modello produttivista. Nel film volevo mettere insieme queste immagini e memorie, con il mare come centro, per raccontare il Sulcis oggi ma anche per capire le sue radici. Anche il poligono militare rientra in questa logica: ho ritrovato una lettera di Lord Nelson che indicava il Golfo di Palmas come un punto strategico già in epoca napoleonica e ancora oggi questa storia continua a ripetersi. Industria e basi militari sono due facce dello stesso errore, un modello che genera danni. Non propongo soluzioni, ma come regista il mio compito è unire questi pezzi e raccontarli.

È una visione poetica, ma profondamente reale

Nel film si parla di mare, pescatori e pesci e a tratti si percepisce una sorta parallelismo tra gli abitanti del mare e gli abitanti dell’Isola, entrambi soggetti a intrusioni esterne e forme di sfruttamento. È una lettura voluta?

Trovo interessante, anche se inatteso, il parallelismo tra mondo umano e animale. Il film è stato influenzato da letture come Other Minds e dalla New York Declaration on Animal Consciousness (2024), che riconosce una coscienza fenomenica in molti animali. Polpi e seppie, ad esempio, mostrano capacità di memoria e strategie per alleviare il dolore. Queste riflessioni hanno reso centrali alcune scene che inizialmente sembravano marginali, inserendo anche un’importante dimensione antispecista: se non possiamo definire con certezza la coscienza, allora dobbiamo trattare gli animali con lo stesso rispetto che riserviamo agli esseri umani.

Nel film questo emerge in immagini come quella dei pesci che sfuggono l’amo, quasi avessero imparato a evitare la trappola. È una visione poetica, ma profondamente reale. E infine c’è il delfino di Capo Teulada, insolitamente aggressivo: secondo i pescatori i delfini hanno generalmente un approccio simile al gioco, ma non qui; forse a causa delle esercitazioni militari, dicono. Un’immagine che sembra quasi un presagio. Qualcosa, forse, si è spezzato.

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Ìsulas de s’Ìsula – foto di Lorenzo Sibiriu
Nel film i pesci sembrano sviluppare memoria, ma l’ingegno umano trova sempre nuove esche. È difficile non pensare alla nostra società, dove anche la memoria storica – come quella del fascismo – viene spesso aggirata da forme più subdole.

Il pesce potrebbe abituarsi a quella “sorpresa” e tornare in una zona pericolosa, anche perché ha subito un trauma. Nel film, quando si parla dei pescatori, abbiamo inserito delle immagini degli impianti industriali di Portovesme, che rappresentano un altro grande trauma di quell’area. Io lo chiamo “la piaga”, riferendomi più che altro all’atteggiamento umano: quello di dimenticare questi problemi finché non accade qualcosa di tragico, e solo allora ci si accorge della loro gravità. L’immagine di Portovesme compare inizialmente sullo sfondo, poi ritorna in modo più evidente, con inquadrature più dirette. È una scelta che ho fatto quasi inconsciamente, ma che per me ha un significato forte.

Le principali ferite che riconosco nella mia terra sono tre: l’invasione di una certa mentalità turistica, gli impianti industriali – come l’ex Alcoa e Portovesme, che hanno scaricato materiali nocivi lungo la costa – e infine il poligono militare di Teulada. Sono problemi che si sono sviluppati in tempi diversi, ma che oggi convivono e si intrecciano.

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Ìsulas de s’Ìsula – foto di Lorenzo Sibiriu
Perché pescare nel Sulcis può essere considerato un atto di resistenza?

I protagonisti che ho scelto sono persone che dimostrano rispetto per il mare e consapevolezza dell’impatto che possono avere. In un sistema dominato da contraddizioni, dove il mercato sembra l’unica misura delle cose, mi interessava mostrare figure che vivono e lavorano con equilibrio, che non sono né padroni, né servi del sistema. Non si tratta di idealizzarli: anche io ho una sensibilità antispecista, ma riconosco il valore di chi lavora con attenzione e responsabilità.

Il film si apre con la ricerca di un personaggio – Shanguer – che compare a fine film recitando alcuni versi. Come mai la scelta di iniziare e concludere con lui?

Il personaggio del pescatore-poeta è entrato nel film in modo spontaneo. L’ho incontrato per caso, dopo alcuni sopralluoghi e riprese nell’area. Ogni volta che tornavo andavo a salutarlo: con lui si facevano chiacchiere lunghe e profonde, spesso registrate. Mi colpì la sua delusione quando qualcuno aveva distrutto le poesie affisse. Aveva creato un luogo tutto suo – il “Giardino dei buoni veri” – uno spazio poetico, costruito con oggetti raccolti dal mare, dove dava forma al suo mondo. In quel gesto di creazione ho rivisto un bisogno simile al mio: trovare un altro modo di vivere, creare uno spazio di riflessione fuori dalla “città”, da quello che lui chiamava Babilonia.