Vivere l’estate in un paese segnato dal turismo, quando non sei solo di passaggio
Cosa significa vivere in un paese turistico tutto l’anno? E cosa accade quando il turismo è più intenso? Una riflessione che da Tortolì guarda a tutta l’Isola.

Ogni estate la Sardegna si trasforma e i suoi paesi costieri – come quello che chiamo “casa”, Tortolì – si riempiono di turisti attratti da paesaggi spettacolari, acque cristalline e un immaginario spesso nutrito dalle narrazioni social di vita lenta e autentica. Ma cosa accade quando questi luoghi non sono soltanto destinazioni di vacanza, ma spazi di vita quotidiana? Quali possono essere le conseguenze dell’overturismo?
Nata e cresciuta a Tortolì, dopo un periodo trascorso a Cagliari per gli studi, sono tornata oggi a viverci stabilmente. Un ritorno che mi ha spinta a riflettere con maggiore consapevolezza su cosa significhi abitare un paese che, per molti, esiste solo d’estate. Quali sono ad esempio gli effetti nel lungo periodo di un modello economico e sociale fondato quasi esclusivamente sul turismo balneare? E cosa comporta per chi abita qui tutto l’anno convivere con questa trasformazione ciclica?

L’estate vissuta da dentro: turismo, bellezza e fatica
Nell’arco della mia vita, le impressioni riguardanti l’estate sono cambiate. Durante l’infanzia l’estate era un periodo che si caricava di gioia: le giornate si allungavano e si stava di più all’aperto, tra giochi e corse in spiaggia. Tuttavia ricordo anche le file nel traffico, i negozi affollati, la difficoltà di trovare uno spazio tranquillo in cui poter piazzare l’ombrellone senza sentire il fiato addosso delle altre persone. Alla fine di agosto, quando il paese si svuotava, arrivava un senso di sollievo, seppur inconsapevole. Crescendo, durante l’adolescenza, il turismo non mi pesava: il mare era un luogo di socialità, si viveva l’estate come una festa, il centro si animava e la vita notturna era più intensa.
Tuttavia con il tempo e con una nuova consapevolezza maturata anche grazie agli anni vissuti da pendolare, ho iniziato a vedere in modo più nitido il contrasto tra le stagioni. L’estate portava caos e sovraffollamento, mentre d’inverno il paese diventava silenzioso, a tratti malinconico. Anche io sono cambiata: ho iniziato a evitare le spiagge che un tempo amavo, scegliendone altre più appartate pur di godere un po’ di pace. Ed è qui che ho iniziato a interrogarmi sul prezzo che si paga quando un luogo vive per eccesso in un periodo e per sottrazione nell’altro. Il prezzo pagato dal luogo e da chi lo abita.
Vivere, tutto l’anno
Nel tempo, confrontandomi con amici e parenti, ho percepito una spaccatura profonda nei punti di vista: da una parte c’è chi vive l’estate come un’invasione; dall’altra chi ritiene il turismo l’unica via di sopravvivenza. Io non mi riconosco pienamente in nessuna delle due visioni. Credo sia fondamentale trovare un equilibrio. È giusto accogliere i visitatori, ma lo è altrettanto garantire una qualità della vita dignitosa per chi qui risiede tutto l’anno. Fare la spesa, trovare parcheggio o accedere ai servizi essenziali non dovrebbe diventare complicato nei mesi estivi, soprattutto vive condizioni che nella nostra società sono ancora motivo di marginalità, come le persone con disabilità.

Il problema però è più ampio: fondare l’identità di un paese solo sul turismo rischia di trasformarlo in un prodotto da vendere, svuotandolo di autenticità, di ciò che lo distingue dal mondo. E le conseguenze per gli abitanti si trascinano anche nei restanti mesi: si fa strada la difficoltà di trovare casa a lungo termine, l’aumento dei costi, e la tentazione di modellarsi su ciò che si presume piaccia agli altri.
Ma un paese è molto più del suo mare: è fatto di storie, tradizioni, memoria collettiva. Il turismo deve essere pensato come un’attività economica tra le tante che possono nascere ed esistere nel territorio, e non è il territorio stesso a dover essere interpretato come un bene o un servizio. I paesi necessitano di essere concepiti come il luogo in cui vive la comunità per 12 mesi all’anno: gli interessi e il benessere di quest’ultima dovrebbero essere prioritari. Rimettere al centro chi abita questi luoghi può essere il primo passo per costruire un turismo più umano, rispettoso e sostenibile, perché i paesi non siano solo destinazioni.
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